Rivista Anarchica Online
Quel fragile filo
di Cristina Valenti
Con due spettacoli nuovi per l'Italia, è tornato
recentemente il Living Theatre. Un ritorno sul filo della memoria: un filo fragile da
spezzare e da non ritrovare più, perché legato ad anni
mitici ed irrecuperabili. Ma il Living è riuscito nuovamente
a porgere quel filo e a tenderlo senza che si rompesse: perché
c'è un presente di quella memoria che continua a vivere con
freschezza corrispondendo con rigore, inventiva, intelligenza e
anarchia alla sua storia di rotture ed invenzioni
Dopo ventisei anni di nomadismo per il mondo il Living Theatre
ha, dal maggio 1989, la sua prima sede stabile a New York; e dopo
otto anni di assenza è tornato in Italia, la scorsa estate,
con due nuovi spettacoli: I & I, da Else Lasker-Schuller,
regia di Judith Malina e The Tablets, da Armand Schwerner,
regia di Hanon Reznikov. Dell'attività del teatro newyorchese e dei due spettacoli
visti in Italia riferiscono dettagliatamente gli articoli che
pubblichiamo a ruota di questo articolo - e che vogliono essere
inoltre il documento di due diversi sguardi all'ultimo Living:
quello radical del tedesco "Theater Heute" e quello
puramente teatrale dell'americano "New York Times". A questi vorrei solo aggiungere
qualche breve osservazione in
merito alla radicata presenza culturale del Living in Italia ed al
rinnovato confronto con la sua memoria.
Il Living è riapparso in Italia con la sua speciale e
inalterata capacità di raccogliere attorno al fatto teatrale
una larga - e diversificata - partecipazione: dimostrando di saper
riportare il teatro al centro della riflessione artistica e
dell'attenzione sociale. Cosa a cui siamo disabituati, costantemente
costretti come siamo a dover difendere dagli attacchi di una
politica culturale centralistica la legittimità di un teatro
che vive di pochi spettatori, dotato di una rilevanza assai scarsa
nelle cronache e attivo in circuiti marginali rispetto a quelli del
teatro più frequentato. Ed ecco che arriva il Living e ci
ricorda che il territorio è fuori dalle strade o realizzando
spettacoli di audience amplissima, di grande movimento e di energia
esplosiva.
Il Living ci ricorda - se ce ne fossimo dimenticati - che
ricerca e impegno nel teatro non significano necessariamente
presenza rarefatta e contesti esclusivi: che a convincerci di questo
sono state le ragioni e gli schemi del sistema teatrale e la
geografia paludosa del teatro vigente - fatto di sovvenzioni, di
teatranti funzionali e di pubblico coatto. "Marginale"
(rispetto al centro del sistema) dovrebbe essere sinonimo di
"minore" solo in virtù di una scelta e non in
quanto costrizione. Il Living, senza godere di alcuna sovvenzione,
ha realizzato in Europa dal '75 all'82 ottocentodue spettacoli, per
un totale di circa 383.000 spettatori. Un teatro che ha
massicciamente risposto alla domanda di un pubblico non "teatrale"
(cioè non organizzato come tale): ossia un teatro di
minoranza, in un panorama dello spettacolo strutturato in sistema.
"Ed il teatro?" scriveva Julian Beck nel febbraio 1983
lasciando definitivamente l'Italia "E' diventato un
frigorifero. Ghiacciato e freddo, lascia il pubblico un po' più
freddo di quando lo spettacolo è cominciato. Avanguardia dl
ghiaccio. Io mi dedico a scaldarlo. Con un piano di avvicinamento
tortuoso. Sedurre l'anima". Julian Beck sarebbe stato contento del nuovo, seducente piano di
avvicinamento del Living in Italia. Pubblico vecchio e nuovo, sempre
numerosissimo e presente non solo agli spettacoli, ma a tutte le
iniziative collegate: seminari, incontri, conferenze, retrospettive
video. Questo non ha a che fare con una sorta di "devozione"
all'immagine del Living, ma con una precisa e concreta qualità
della sua presenza. Lo dimostra il fatto che gli spettacoli non
hanno avuto lo stesso gradimento (in Italia è piaciuto
certamente di più The Tablets, in Germania so che I
& I ha avuto molto più successo che da noi, forse
perché più comprensibile nelle radici del cabaret
espressionista tedesco che fanno parte del background piscatoriano
della Malina) ed i seminari hanno avuto contenuti e risultati
disomogenei (Judith mi raccontava di come nei paesi dell'Est i
giovani abbiano partecipato con imparagonabile coinvolgimento
politico), ma sempre la presenza del Living fa del teatro qualcosa
da prendere sul serio: dà un carattere di autenticità
che finisce regolarmente per trasmettersi a contesto e fruitori.
Non ti ingannano
Osservava un amico regista e direttore di un importante centro
teatrale che ha ospitato il Living: quello che fanno è vero.
Ti può piacere o meno, lo puoi capire o meno, giudicare
troppo letterale o naif, ma non puoi non crederci: li guardi e sai
che non ti ingannano, credi a quel che fanno.
Conviene ritornare a Julian Beck. Avvicinamento e seduzione: da
ricreare e rinnovare contro la nostalgia ovattata della memoria.
Il Living Theatre ha 43 anni (quante generazioni di spettatori?)
e il suo ritorno è avvenuto per molti sul filo della memoria:
un filo fragile da spezzare e non ritrovare più, perché
legato ad anni mitici ed irrecuperabili: il mito del grande
cambiamento e l'irrecuperabilità del proprio sogno giovanile.
Ma il Living è riuscito nuovamente a porgere quel filo e a
tenderlo senza che si rompesse: perché c'è un presente
di quella memoria che continua a vivere con freschezza,
corrispondendo con rigore, inventiva, intelligenza e anarchia alla
sua storia di rotture e invenzioni.
Prima di un (affollatissimo) incontro con la città,
organizzato a Bergamo dal Teatro Tascabile, che ha accolto il Living
all'interno del proprio festival estivo, Judith Malina mi ha
pregato di non porre la questione, nel presentarla, della differenza
fra il vecchio e il nuovo Living. Il Living è sempre stato
costretto, per il gioco di una sorte assai bizzarra, a dover
convivere, di spettacolo in spettacolo, con il mito dello spettacolo
precedente che ("quello sì!") era evocato ogni
volta ad offuscare quello successivo.
Questo non significa che il ragionamento sulla memoria, e sul
modo di interrogare, raccogliere o interpretare la memoria, non sia
centrale non solo nel lavoro attuale ma in tutta la storia del
Living. Per la necessità interna che ha legato una vicenda
all'altra, di superamento in superamento, verso una prospettiva
ulteriore di coerenza; per il contatto mai perso con le radici
originarie della propria sovversione teatrale, e anche, vorrei dire,
per lo straordinario talento moralistico dei suoi fondatori, Julian
e Judith, che hanno raccolto da sempre, con costanza infaticabile,
note appunti ricordi: migliaia di pagine di diario e decine di
cartoni di archivio che costituiscono oggi per noi (e costituiranno)
il tesoro della testimonianza in prima persona da parte di due dei
principali protagonisti della vicenda non solo teatrale, ma
intellettuale e politica del nostro secolo.
Del Living sul Living
Di questo trattano, a mio parere, i due spettacoli coi quali il
Living è venuto in Italia. Ha scritto il "New york
Times" all'indomani della prima americana di I & I,
in un articolo che conteneva (come spesso accade nella stampa
ufficiale) cose per certi versi vere e per certi false: "Questa
commistione di esaltazione visionaria, di sconcertante alternanza
tra farsa, tragedia e satira da cabaret, è come un'imponente
rovina che si prende gioco di chiunque tenti di comprenderla. C'è
sempre molto da dire su una bella rovina". Anche The Tablets
è uno spettacolo sullo sforzo della comprensione, sulla
possibilità di interpretare i reperti storici, e quindi la
memoria dell'uomo da parte dell'uomo; ed è uno spettacolo
sulla rivolta della storia, per interposte tavolette d'argilla, ai
tentativi di essere compresa e dominata dal Sapere ufficiale. Sulla
"bella rovina" del tempio costruito dagli attori-tavolette
viene sacrificata a ben vedere la possibilità di riconciliare
Storia e mito, Scienza e albori del linguaggio.
I due spettacoli si spiegano l'uno con l'altro e sono in fondo
spettacoli del Living sul Living. Raccontano di una storia non
inquadrabile: che non è possibile recuperare né
museificare (a differenza della maggior parte delle vicende di
rottura) e i cui significati sono comunque più ampi dei
tentativi di decifrarli. Un reperto dell'Antigone o del Brig
conterrebbe sensi comunque maggiori e più complessi della
lettera del suo significato, e così certi capitoli della vita
del gruppo: l'esilio, il nomadismo e le favelas brasiliane, il
carcere e le barricate parigine...sono le tavolette che il Living
consegna alla Storia e alla sua non riconciliata memoria. E che
consegna anche, attraverso I & I, un testo che il Living
ha certamente trovato fitto di metafore dai riscontri personali
(l'io diviso della poetessa, ossia la frattura spirituale degli
ebrei tedeschi, ma anche dell'America e della cultura americana, e
quindi il Living americano e anticapitalista, multi razziale ed
ebreo, anarchico ed esule) e uno spettacolo che condensa in qualche
modo le tecniche e i temi del Living, in cui si annodano dietro un
arazzo intessuto di reperti viventi (basterebbe ricordare la scena
della tortura, con quel corpo nudo e rasato appeso per i piedi:
molto più che una semplice citazione). Ma attenzione a non
interpretare i reperti come "belle rovine", monumenti del
passato, ci dice The Tablets, perché i reperti si
ribellano all'ordine del sapere e alla sua volontà di dominio
sulla Storia. Interpretarli come presente e al presente: questa la
lezione del Living. Perché le tavolette fanno parlare, in
fondo, lo studioso/traduttore che le interpreta, è alla sua
storia e alla sua cultura che danno voce, rappresentando il veicolo
della sua autorappresentazione. "Lo spettatore che ha seguito
il corso di queste tavolette fino a questo punto - dice lo
studioso/traduttore alla fine della Scena 6 - può trovare che
c'è una crescente ambiguità in questo lavoro di scavo,
ma non sono certo di dove si trovi l'inganno. Certi giorni non ho
dubbi che l'ambiguità inerisca il linguaggio delle tavolette
stesse; altre volte mi tormenta la possibilità di essere io
la variabile che dà origine alle ambiguità. [...] A
volte mi sembra quasi di stare inventando questa sequenza, e tale
fantasia mi risucchia nell'abisso di una depressione pressoché
inconciliabile, dalla quale posso riscattarmi solo con forzati e
spiacevoli esercizi di analisi linguistica".
Teatro a New York
Terza Strada Est angolo Avenue C. Alphabet-City, è
stata per lunghi anni una zona calda. Poi la speculazione edilizia
ed i galleristi yuppy se ne sono conquistati una fetta. E si sono
fermati lì, il boom si è sgonfiato. I tossici, gli
alcolizzati e quelli del crack cercano riparo dietro le tende delle
drogherie d'angolo. In questa zona oggi non ci sono gioiose, piccole
scintille d'anarchia pronte a prender fuoco come nel film Do the
Right Thing di Spike Lee; nel grigiore di questo tardo
pomeriggio si percepisce solo la depressione della droga. E tutto
può cambiare al primo cambio di clima . La frattura fra neri
e bianchi, poveri e ricchi si è paurosamente approfondita in
questa metropoli già data per morta ed ora rifiorita in un
fuoco di paglia di benessere. Il sindaco Ed Koch, in dodici anni di
amministrazione, ha fatto la sua parte, "normalizzando" i
due terzi della società ed esasperando il conflitto razziale
[...] All'angolo c'è una vetrina debolmente illuminata.
All'interno una biglietteria improvvisata, attaccapanni, una vecchia
scrivania, un paio di poltrone. In una è seduta una signora
dall'aspetto di energica fragilità, col volto truccato a
forti contrasti e lo sguardo luminoso. Il leggendario Living
Theatre, a quattro anni dalla morte prematura di Julian Beck, è
risorto. Judith Malina e Hanòn Reznikov, co-direttore, hanno
messo in piedi questo piccolo teatro dall'affitto esorbitante, ai
confini tra la giungla metropolitana e la zona degli affari. "Qui viene gente - dice Judith
Malina - che
non si avventurerebbe mai a Broadway". Là un biglietto
costa anche 100 dollari. Con questa cifra un abitante di
Alphabet-City ci campa più o meno una settimana. Al Living il
biglietto costa dieci dollari e tutti i mercoledì l'ingresso
è pay-what-you-can" [ossia offerta libera, NdR]. "Nella loro ricerca di stimoli
sensoriali ed
intellettuali, le classi più ricche si sono di nuovo
appropriate del teatro, hanno ritirato il loro già scarso
appoggio agli esperimenti di teatro di strada ed hanno messo tutto
il potere a disposizione di un teatro che evita precisi orientamenti
politici e che è invece concentrato in sperimentazioni di
estetismo fine a se stesso. E questo non è abbastanza per un
vero, grande teatro". Così scrivevano Malina e Beck per "Theater
Heute" nell'autunno '85, nell'ultimo manifesto stilato insieme.
E così continua a lavorare questa sessantatreenne pacifista,
ebrea tedesca di Kiel, da 40 anni a New York [in realtà da
60, NdR]. Con coerenza, intelligenza,amore e anarchia. "Qui non guadagniamo praticamente
nulla"
ci dice. "Nei decenni passati abbiamo rifiutato ogni tipo di
finanziamento pubblico, per restare liberi da qualsiasi
condizionamento; ma a questo punto anche noi non riusciamo più
a farne a meno per andare in scena. Però non sappiamo mai se
questi aiuti continueranno ad arrivare. Io me la cavo con piccoli
ruoli per il cinema e la televisione e poi insegno al Dipartimento
di teatro della New York University". E così Judith
Malina è diventata sponsor di se stessa. Ha fatto un tuffo in
Miami Vice e in qualche commercial di buon livello [ma non si
vergogna di dire che partecipa anche a film che, nel suo colorito
italiano, definisce "la merda della merda", NdR]:
un'ammirevole, indegna vecchia Signora che mette in affitto un
glamour superficiale con profondo fascino. Nello stesso modo
parecchia altra gente del teatro newyorkese, dal Wooster Group ai
Mabou Mines, si prende qualche ritaglio dei grandi profitti
televisivi. [E delle oltre quaranta persone che formano oggi la
compagnia del Living Theatre la quasi totalità è
costretta a guadagnarsi la vita con altri lavori, NdR]. "Vogliamo proporre lavori di alta
qualità
letteraria e che nello stesso tempo siano in grado di raggiungere la
gente di qui: e torneremo a recitare anche in strada. Uno dei nostri
progetti per il futuro tratta il problema dei senzatetto. Sarà
pronto per il febbraio '90. Due mesi dopo metteremo in scena A
German Requiem di Eric Bentley, una rielaborazione della
Famiglia Schroffenstein di Kleist". [Tutti questi
progetti sono stati nel frattempo realizzati. Per il teatro di
strada il Living crea ogni anno uno spettacolo basato su temi
d'attualità, col quale gira i parchi e i sobborghi di New
York; nella passata stagione Tumult, or Clearing the Streets
ha raggiunto i pubblici di Brooklyn e Staten Island come quelli
della comunità dell'East Village/Lower East Side, dove il
Living ha sede. Lo spettacolo The Body of God, ispirato al
saggio eponimo dell'anarchico Eric Gutkind e creato collettivamente
dalla compagnia in collaborazione con un gruppo di senzatetto del
quartiere, ha debuttato nel febbraio scorso ed è rimasto in
cartellone a New York durante la tournée estiva del Living in
Europa; A German Requiem, una produzione di "Teatro
Totale" nella tradizione di Erwin Piscator, maestro di Judith
Malina, ha debuttato in maggio e si è alternato al precedente
nel repertorio estivo del teatro della Terza Strada. C'è da
dire che alla produzione degli spettacoli il gruppo unisce
l'attività pedagogica del Living Theatre Atelier, che
organizza seminari sulle tecniche elaborate e sviluppate dal Living:
la bio-meccanica e Artaud, il teatro epico e la creazione
collettiva, NdR]. Tanta varietà e spirito di avventura non
sono frequenti nel teatro di New York, ma il Living è
abbastanza piccolo da essere coraggioso. Ed è appoggiato dal
Genius Loci: "Dal 1931 al '61 qui c'era il "Bar Giorni
Felici", poi una bettola chiamata "Fresco Stupido" ed
infine il "Bar del Peccato"...e adesso ci siamo noi!".
I&I
Proprio il posto giusto per I & I [Io e io] di
Else Lasker-Schuler, uno degli ultimi lavori della poetessa,
realizzato negli anni '40 a Gerusalemme, dov'era in esilio e dove
morì nel 1945. Faust e Mefistofele, Baal e Re Davide, Max
Reinhardt e i Ritz Brothers, i grandi capi del nazismo Hitler, Hess,
Goring e Goebbels con le loro squadre infernali si riuniscono per un
gran ballo finale tra il macabro e il grottesco, che fonde assieme
tempi e luoghi e dà molto da pensare. La rappresentazione dovrebbe
aver luogo "vicino alla Torre di Davide" a Gerusalemme,
"che i nuovi Palestinesi chiamavano "Porta d'Inferno"
così dicono le note per la regia. Else Lasker-Schuler stessa
è uno dei personaggi dell'apocalittico raduno [...], al
fianco di Max Reinhardt (in qualità di regista) e prende
parte intervenendo alla messa in scena del suo lavoro. I miti e la
storia contemporanea della Germania sono frammezzati a citazioni
delle poesie dell'autrice ebrea, nativa di Wuppertal-Elberfeld, che
si vide costretta nel '33 a fuggire attraverso la Svizzera in
Palestina [...]. Si percepisce subito una forte affinità
biografica fra queste due donne di teatro ebree e tedesche: "Da
bambina ho imparato molto presto che il Faust di Goethe
tratta l'arcano problema del Bene e del Male ed il mistero della
scissione dell'Io. Come Else Lasker-Schuler, anch'io ho cominciato a
conoscere il Faust sulle ginocchia di mia madre - così
Malina spiega il suo interesse per il testo - ed anche a capire che
l'immagine cristiana e tedesca dell'inferno non corrisponde a quella
ebraica. Ma io ho sempre lottato contro questo dualismo che ci viene
trasmesso, come ognuno di noi, a modo suo, deve fare. Ho perduto
qualsiasi fiducia in Goethe leggendo, nel saggio di Thomas Mann, che
in tempi precedenti Goethe, funzionario statale, aveva sottoscritto
una sentenza di morte contro una giovane che era incorsa nella
stessa colpa di Margherita perché - così scrive Mann -
egli amava tanto profondamente la giustizia". Nella visione di Else Lasker-Schuler i confini
tra
Bene e Male non sono tracciati così rigidamente: Faust cerca
in qualche modo di capire i nazisti, mentre Mefisto li condanna alle
fiamme e torna ad essere un buon angelo di Dio [...]. Tra le righe
di questo enigmatico testo si scopre una profonda e originale
fusione di elementi tra il carnevale renano, il cabaret d'epoca e un
dolente Raddisch. Paradiso e inferno si trovano sulla stessa terra,
solo chi conosce molte culture diverse e le ha fuse dentro di sé
può attribuire il giusto valore alle supposte assurdità
ed ai grandi principi trascendentali [...]. [Nella regia di Judith Malina] tutto avviene
all'interno di un caffè-cabaret: ci si siede ai tavolini con
biscotti e candele; diavoli e diavolesse si aggirano e ballano tra
il pubblico. Un nutrito gruppo di attori si muove tra piattaforme,
scale e nicchie, in uno spazio ristretto eccezionalmente arrangiato
da Ilion Troya. Il disagio fisico nel quale viene intrappolato lo
spettatore, e che si assomma a quello provocato dalle manovre degli
accoliti di Mefisto, porta il tutto ad una temperatura veramente
infernale. E tale temperatura corrisponde a quella scatenata dal
rapporto tra Faust (Tom Walker) ed il Mefistofele nero (Michael
Saint Clair), con il loro scontro corpo a corpo tra ragione e
desiderio. Colpa ed espiazione sono anch'esse rappresentate con
forte fisicità - secondo la sperimentata tradizione del
Living. Al centro di tutto questo, profetessa nera, Sheila
Dabney, nelle vesti di poetessa-principessa dell'oscurità del
tempo. [...] Il lavoro trova la sua forza nella continua
tensione tra il livello dell'intrattenimento e quello dell'opera
macabra, quando il "numero" musicale dei Ritz Brothers è
di colpo interrotto dall'entrata di un attore nudo [e rasato a zero,
NdR] appeso per i piedi allo strumento di tortura, non si tratta
certo di un effettaccio sinistro: è invece il segno incisivo
di quello che si prepara(va) dentro il vulcano della storia, mentre
intorno si danza(va).
Michael Merschmeier (traduzione di Serena Urbani da "Theater
Heute", n. 11, 1989)
The Tablets
The Tablets [Le tavolette], ciclo di poesie sornione e
sofisticate di Armand Schwerner, pubblicate tra gli anni '60 e '70,
costituiscono uno straordinario, enigmatico testo su illusione e
realtà, comunicazione e incomprensione, e sui limiti della
parola. Sono un fantasioso puzzle, ricco di dinamismo drammatico
anche quando si presentano sulla pagina muta [...]
Sotto la regia di Hanon Reznikov [...] 14 attori hanno dato vita ai
versi e ne hanno tratto vita [...] Le poesie si presentano come
pretese traduzioni di antichi testi sumerici, del tipo di quelle
incise su tavolette d'argilla spesso rinvenute dagli archeologi -
regolarmente corredate di passaggi indecifrabili, lacune e luoghi
mancanti, commenti eruditi del traduttore e apparato di varianti
[...].
All'inizio lo studioso/traduttore [nella tournée italiana
interpretato dallo stesso Hanon Reinikov, Ndr] interroga le
tavolette, che sono incarnate dagli altri personaggi. Inizia un
gioco di elusioni ed inganni che le tavolette attuano nei confronti
del traduttore, nonché tra loro stesse, e il traduttore
arriva alla conclusione che qualsiasi comprensione, in qualsiasi
momento e da parte di chicchessia, resta nel migliore dei casi un
pio tentativo. I suoi occhi sono letteralmente chiusi "vedendo
l'oscurità ogni volta per la prima volta", finché
finalmente si ritrova faccia a faccia con sé stesso in un
momento indimenticabile quando, nel silenzio, la sua voce registrata
sussurra in lontananza: "mi risveglio spopolato, spaventato da
tanta felicità".
[...] Il poeta e la compagnia riproducono divertiti gli enigmi e i
sortilegi che realmente compaiono in certi testi antichi. Una
litania di domande che paragonano l'uomo, con le sue varie parti
fisiche, alle ali di una mosca provoca l'invariabile risposta "Che
piacere" da parte delle tavolette. Lo spettacolo provoca un
crescendo di ilarità. Una sequenza di maledizioni viene
pronunciata con evidente soddisfazione da un giovane che sembra
esaltarsi a tanta malvagità. Ogni maledizione termina con le
parole "E possa tu giammai morire". Le tavolette sono
piene di maliziosa sovversione. Le risate stemperano l'intrinseca,
profonda serietà.
D.J.R. Bruckner (traduzione di Serena Urbani da "The New york
Times", 11.6.1989)
Impossibilitati a partecipare all'incontro internazionale anarchico che nel settembre '84
vide confluire a Venezia alcune migliaia di anarchici da ogni parte del mondo, Julian Beck e Judith Malina
fecero pervenire una cassetta registrata con i loro rispettivi saluti. Una cassetta di difficile ascolto, anche per
la voce flebile di Julian. ormai gravemente debilitato dal tumore che ne avrebbe causato - dopo non molto tempo
- la morte. Ecco quanto è riuscito a trascrivere ed a tradurre Marco Bonello.
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Il pendolo della scena politica ritornerà ad una zona più luminosa, ma il suo
arco dipende dall'energia che verrà gettata nella coscienza politica. Come nell'arte, l'anarchismo trova
la sua qualità fondamentale nell'ispirazione: nel suo richiamo risiede il suo dovere e la sua ragione. Per
diventare pratico, ha bisogno di diventare la via dell'entusiasmo, diffuso e popolare. Più sarà
la presentazione di ciò che abbiamo da dire, più riusciremo ad essere convincenti. In un
momento storico oscurato dalla violenza e dall'odio, l'anarchismo costituisce l'alternativa che fa appello al
nostro amore latente e spaventato per la pace degli uni e per gli altri. L'anarchismo deve risvegliare questo
amore, altrimenti la gente continuerà a considerarlo uno dei tanti "ismi". Non disperate, il
pendolo oscillerà; il nostro compito è quello di influenzare il suo corso.
Julian Beck
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(...) un lato di speranza, in questa conferenza che è, prima di tutto, dalla parte della
speranza, in un momento storico di disperazione e di disfattismo. Non per nulla i bolscevichi accusarono i nostri
compagni anarchici di ottimismo e guardavano ai nostri sforzi organizzativi come ad una tragedia ottimista.
Perchè solo noi anarchici ci siamo costantemente schierati sulla posizione ottimista: poichè
vogliamo la libertà, rivendichiamo la libertà totale, e poichè vogliamo la pace
rivendichiamo che i mezzi siano la pace. Oggi il pessimismo è divenuto la tradizione
dell'Establishment, l'affermazione che non si possa fare nulla per cambiare le cose è divenuto il
catechismo dello stato e delle scuole. Noi anarchici siamo qui, ad incontrarci di nuovo, per riaffermare nuove
possibilità, e voi cari compagni, vi riunite per riesaminare il lato della speranza. Siamo con voi, e
vinceremo!
Judith Malina
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