Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 20 nr. 177
novembre 1990


Rivista Anarchica Online

Quel fragile filo
di Cristina Valenti

Con due spettacoli nuovi per l'Italia, è tornato recentemente il Living Theatre. Un ritorno sul filo della memoria: un filo fragile da spezzare e da non ritrovare più, perché legato ad anni mitici ed irrecuperabili. Ma il Living è riuscito nuovamente a porgere quel filo e a tenderlo senza che si rompesse: perché c'è un presente di quella memoria che continua a vivere con freschezza corrispondendo con rigore, inventiva, intelligenza e anarchia alla sua storia di rotture ed invenzioni

Dopo ventisei anni di nomadismo per il mondo il Living Theatre ha, dal maggio 1989, la sua prima sede stabile a New York; e dopo otto anni di assenza è tornato in Italia, la scorsa estate, con due nuovi spettacoli: I & I, da Else Lasker-Schuller, regia di Judith Malina e The Tablets, da Armand Schwerner, regia di Hanon Reznikov. Dell'attività del teatro newyorchese e dei due spettacoli visti in Italia riferiscono dettagliatamente gli articoli che pubblichiamo a ruota di questo articolo - e che vogliono essere inoltre il documento di due diversi sguardi all'ultimo Living: quello radical del tedesco "Theater Heute" e quello puramente teatrale dell'americano "New York Times". A questi vorrei solo aggiungere qualche breve osservazione in merito alla radicata presenza culturale del Living in Italia ed al rinnovato confronto con la sua memoria.
Il Living è riapparso in Italia con la sua speciale e inalterata capacità di raccogliere attorno al fatto teatrale una larga - e diversificata - partecipazione: dimostrando di saper riportare il teatro al centro della riflessione artistica e dell'attenzione sociale. Cosa a cui siamo disabituati, costantemente costretti come siamo a dover difendere dagli attacchi di una politica culturale centralistica la legittimità di un teatro che vive di pochi spettatori, dotato di una rilevanza assai scarsa nelle cronache e attivo in circuiti marginali rispetto a quelli del teatro più frequentato. Ed ecco che arriva il Living e ci ricorda che il territorio è fuori dalle strade o realizzando spettacoli di audience amplissima, di grande movimento e di energia esplosiva.
Il Living ci ricorda - se ce ne fossimo dimenticati - che ricerca e impegno nel teatro non significano necessariamente presenza rarefatta e contesti esclusivi: che a convincerci di questo sono state le ragioni e gli schemi del sistema teatrale e la geografia paludosa del teatro vigente - fatto di sovvenzioni, di teatranti funzionali e di pubblico coatto. "Marginale" (rispetto al centro del sistema) dovrebbe essere sinonimo di "minore" solo in virtù di una scelta e non in quanto costrizione. Il Living, senza godere di alcuna sovvenzione, ha realizzato in Europa dal '75 all'82 ottocentodue spettacoli, per un totale di circa 383.000 spettatori. Un teatro che ha massicciamente risposto alla domanda di un pubblico non "teatrale" (cioè non organizzato come tale): ossia un teatro di minoranza, in un panorama dello spettacolo strutturato in sistema.
"Ed il teatro?" scriveva Julian Beck nel febbraio 1983 lasciando definitivamente l'Italia "E' diventato un frigorifero. Ghiacciato e freddo, lascia il pubblico un po' più freddo di quando lo spettacolo è cominciato. Avanguardia dl ghiaccio. Io mi dedico a scaldarlo. Con un piano di avvicinamento tortuoso. Sedurre l'anima". Julian Beck sarebbe stato contento del nuovo, seducente piano di avvicinamento del Living in Italia. Pubblico vecchio e nuovo, sempre numerosissimo e presente non solo agli spettacoli, ma a tutte le iniziative collegate: seminari, incontri, conferenze, retrospettive video. Questo non ha a che fare con una sorta di "devozione" all'immagine del Living, ma con una precisa e concreta qualità della sua presenza. Lo dimostra il fatto che gli spettacoli non hanno avuto lo stesso gradimento (in Italia è piaciuto certamente di più The Tablets, in Germania so che I & I ha avuto molto più successo che da noi, forse perché più comprensibile nelle radici del cabaret espressionista tedesco che fanno parte del background piscatoriano della Malina) ed i seminari hanno avuto contenuti e risultati disomogenei (Judith mi raccontava di come nei paesi dell'Est i giovani abbiano partecipato con imparagonabile coinvolgimento politico), ma sempre la presenza del Living fa del teatro qualcosa da prendere sul serio: dà un carattere di autenticità che finisce regolarmente per trasmettersi a contesto e fruitori.

Non ti ingannano

Osservava un amico regista e direttore di un importante centro teatrale che ha ospitato il Living: quello che fanno è vero. Ti può piacere o meno, lo puoi capire o meno, giudicare troppo letterale o naif, ma non puoi non crederci: li guardi e sai che non ti ingannano, credi a quel che fanno.
Conviene ritornare a Julian Beck. Avvicinamento e seduzione: da ricreare e rinnovare contro la nostalgia ovattata della memoria.
Il Living Theatre ha 43 anni (quante generazioni di spettatori?) e il suo ritorno è avvenuto per molti sul filo della memoria: un filo fragile da spezzare e non ritrovare più, perché legato ad anni mitici ed irrecuperabili: il mito del grande cambiamento e l'irrecuperabilità del proprio sogno giovanile. Ma il Living è riuscito nuovamente a porgere quel filo e a tenderlo senza che si rompesse: perché c'è un presente di quella memoria che continua a vivere con freschezza, corrispondendo con rigore, inventiva, intelligenza e anarchia alla sua storia di rotture e invenzioni.
Prima di un (affollatissimo) incontro con la città, organizzato a Bergamo dal Teatro Tascabile, che ha accolto il Living all'interno del proprio festival estivo, Judith Malina mi ha pregato di non porre la questione, nel presentarla, della differenza fra il vecchio e il nuovo Living. Il Living è sempre stato costretto, per il gioco di una sorte assai bizzarra, a dover convivere, di spettacolo in spettacolo, con il mito dello spettacolo precedente che ("quello sì!") era evocato ogni volta ad offuscare quello successivo.
Questo non significa che il ragionamento sulla memoria, e sul modo di interrogare, raccogliere o interpretare la memoria, non sia centrale non solo nel lavoro attuale ma in tutta la storia del Living. Per la necessità interna che ha legato una vicenda all'altra, di superamento in superamento, verso una prospettiva ulteriore di coerenza; per il contatto mai perso con le radici originarie della propria sovversione teatrale, e anche, vorrei dire, per lo straordinario talento moralistico dei suoi fondatori, Julian e Judith, che hanno raccolto da sempre, con costanza infaticabile, note appunti ricordi: migliaia di pagine di diario e decine di cartoni di archivio che costituiscono oggi per noi (e costituiranno) il tesoro della testimonianza in prima persona da parte di due dei principali protagonisti della vicenda non solo teatrale, ma intellettuale e politica del nostro secolo.

Del Living sul Living

Di questo trattano, a mio parere, i due spettacoli coi quali il Living è venuto in Italia. Ha scritto il "New york Times" all'indomani della prima americana di I & I, in un articolo che conteneva (come spesso accade nella stampa ufficiale) cose per certi versi vere e per certi false: "Questa commistione di esaltazione visionaria, di sconcertante alternanza tra farsa, tragedia e satira da cabaret, è come un'imponente rovina che si prende gioco di chiunque tenti di comprenderla. C'è sempre molto da dire su una bella rovina". Anche The Tablets è uno spettacolo sullo sforzo della comprensione, sulla possibilità di interpretare i reperti storici, e quindi la memoria dell'uomo da parte dell'uomo; ed è uno spettacolo sulla rivolta della storia, per interposte tavolette d'argilla, ai tentativi di essere compresa e dominata dal Sapere ufficiale. Sulla "bella rovina" del tempio costruito dagli attori-tavolette viene sacrificata a ben vedere la possibilità di riconciliare Storia e mito, Scienza e albori del linguaggio.
I due spettacoli si spiegano l'uno con l'altro e sono in fondo spettacoli del Living sul Living. Raccontano di una storia non inquadrabile: che non è possibile recuperare né museificare (a differenza della maggior parte delle vicende di rottura) e i cui significati sono comunque più ampi dei tentativi di decifrarli. Un reperto dell'Antigone o del Brig conterrebbe sensi comunque maggiori e più complessi della lettera del suo significato, e così certi capitoli della vita del gruppo: l'esilio, il nomadismo e le favelas brasiliane, il carcere e le barricate parigine...sono le tavolette che il Living consegna alla Storia e alla sua non riconciliata memoria. E che consegna anche, attraverso I & I, un testo che il Living ha certamente trovato fitto di metafore dai riscontri personali (l'io diviso della poetessa, ossia la frattura spirituale degli ebrei tedeschi, ma anche dell'America e della cultura americana, e quindi il Living americano e anticapitalista, multi razziale ed ebreo, anarchico ed esule) e uno spettacolo che condensa in qualche modo le tecniche e i temi del Living, in cui si annodano dietro un arazzo intessuto di reperti viventi (basterebbe ricordare la scena della tortura, con quel corpo nudo e rasato appeso per i piedi: molto più che una semplice citazione). Ma attenzione a non interpretare i reperti come "belle rovine", monumenti del passato, ci dice The Tablets, perché i reperti si ribellano all'ordine del sapere e alla sua volontà di dominio sulla Storia. Interpretarli come presente e al presente: questa la lezione del Living. Perché le tavolette fanno parlare, in fondo, lo studioso/traduttore che le interpreta, è alla sua storia e alla sua cultura che danno voce, rappresentando il veicolo della sua autorappresentazione. "Lo spettatore che ha seguito il corso di queste tavolette fino a questo punto - dice lo studioso/traduttore alla fine della Scena 6 - può trovare che c'è una crescente ambiguità in questo lavoro di scavo, ma non sono certo di dove si trovi l'inganno. Certi giorni non ho dubbi che l'ambiguità inerisca il linguaggio delle tavolette stesse; altre volte mi tormenta la possibilità di essere io la variabile che dà origine alle ambiguità. [...] A volte mi sembra quasi di stare inventando questa sequenza, e tale fantasia mi risucchia nell'abisso di una depressione pressoché inconciliabile, dalla quale posso riscattarmi solo con forzati e spiacevoli esercizi di analisi linguistica".

Teatro a New York

Terza Strada Est angolo Avenue C. Alphabet-City, è stata per lunghi anni una zona calda. Poi la speculazione edilizia ed i galleristi yuppy se ne sono conquistati una fetta. E si sono fermati lì, il boom si è sgonfiato. I tossici, gli alcolizzati e quelli del crack cercano riparo dietro le tende delle drogherie d'angolo. In questa zona oggi non ci sono gioiose, piccole scintille d'anarchia pronte a prender fuoco come nel film Do the Right Thing di Spike Lee; nel grigiore di questo tardo pomeriggio si percepisce solo la depressione della droga. E tutto può cambiare al primo cambio di clima . La frattura fra neri e bianchi, poveri e ricchi si è paurosamente approfondita in questa metropoli già data per morta ed ora rifiorita in un fuoco di paglia di benessere. Il sindaco Ed Koch, in dodici anni di amministrazione, ha fatto la sua parte, "normalizzando" i due terzi della società ed esasperando il conflitto razziale [...] All'angolo c'è una vetrina debolmente illuminata. All'interno una biglietteria improvvisata, attaccapanni, una vecchia scrivania, un paio di poltrone. In una è seduta una signora dall'aspetto di energica fragilità, col volto truccato a forti contrasti e lo sguardo luminoso. Il leggendario Living Theatre, a quattro anni dalla morte prematura di Julian Beck, è risorto. Judith Malina e Hanòn Reznikov, co-direttore, hanno messo in piedi questo piccolo teatro dall'affitto esorbitante, ai confini tra la giungla metropolitana e la zona degli affari.
"Qui viene gente - dice Judith Malina - che non si avventurerebbe mai a Broadway". Là un biglietto costa anche 100 dollari. Con questa cifra un abitante di Alphabet-City ci campa più o meno una settimana. Al Living il biglietto costa dieci dollari e tutti i mercoledì l'ingresso è pay-what-you-can" [ossia offerta libera, NdR].
"Nella loro ricerca di stimoli sensoriali ed intellettuali, le classi più ricche si sono di nuovo appropriate del teatro, hanno ritirato il loro già scarso appoggio agli esperimenti di teatro di strada ed hanno messo tutto il potere a disposizione di un teatro che evita precisi orientamenti politici e che è invece concentrato in sperimentazioni di estetismo fine a se stesso. E questo non è abbastanza per un vero, grande teatro".
Così scrivevano Malina e Beck per "Theater Heute" nell'autunno '85, nell'ultimo manifesto stilato insieme. E così continua a lavorare questa sessantatreenne pacifista, ebrea tedesca di Kiel, da 40 anni a New York [in realtà da 60, NdR]. Con coerenza, intelligenza,amore e anarchia.
"Qui non guadagniamo praticamente nulla" ci dice. "Nei decenni passati abbiamo rifiutato ogni tipo di finanziamento pubblico, per restare liberi da qualsiasi condizionamento; ma a questo punto anche noi non riusciamo più a farne a meno per andare in scena. Però non sappiamo mai se questi aiuti continueranno ad arrivare. Io me la cavo con piccoli ruoli per il cinema e la televisione e poi insegno al Dipartimento di teatro della New York University". E così Judith Malina è diventata sponsor di se stessa. Ha fatto un tuffo in Miami Vice e in qualche commercial di buon livello [ma non si vergogna di dire che partecipa anche a film che, nel suo colorito italiano, definisce "la merda della merda", NdR]: un'ammirevole, indegna vecchia Signora che mette in affitto un glamour superficiale con profondo fascino. Nello stesso modo parecchia altra gente del teatro newyorkese, dal Wooster Group ai Mabou Mines, si prende qualche ritaglio dei grandi profitti televisivi. [E delle oltre quaranta persone che formano oggi la compagnia del Living Theatre la quasi totalità è costretta a guadagnarsi la vita con altri lavori, NdR].
"Vogliamo proporre lavori di alta qualità letteraria e che nello stesso tempo siano in grado di raggiungere la gente di qui: e torneremo a recitare anche in strada. Uno dei nostri progetti per il futuro tratta il problema dei senzatetto. Sarà pronto per il febbraio '90. Due mesi dopo metteremo in scena A German Requiem di Eric Bentley, una rielaborazione della Famiglia Schroffenstein di Kleist". [Tutti questi progetti sono stati nel frattempo realizzati. Per il teatro di strada il Living crea ogni anno uno spettacolo basato su temi d'attualità, col quale gira i parchi e i sobborghi di New York; nella passata stagione Tumult, or Clearing the Streets ha raggiunto i pubblici di Brooklyn e Staten Island come quelli della comunità dell'East Village/Lower East Side, dove il Living ha sede. Lo spettacolo The Body of God, ispirato al saggio eponimo dell'anarchico Eric Gutkind e creato collettivamente dalla compagnia in collaborazione con un gruppo di senzatetto del quartiere, ha debuttato nel febbraio scorso ed è rimasto in cartellone a New York durante la tournée estiva del Living in Europa; A German Requiem, una produzione di "Teatro Totale" nella tradizione di Erwin Piscator, maestro di Judith Malina, ha debuttato in maggio e si è alternato al precedente nel repertorio estivo del teatro della Terza Strada. C'è da dire che alla produzione degli spettacoli il gruppo unisce l'attività pedagogica del Living Theatre Atelier, che organizza seminari sulle tecniche elaborate e sviluppate dal Living: la bio-meccanica e Artaud, il teatro epico e la creazione collettiva, NdR].
Tanta varietà e spirito di avventura non sono frequenti nel teatro di New York, ma il Living è abbastanza piccolo da essere coraggioso. Ed è appoggiato dal Genius Loci: "Dal 1931 al '61 qui c'era il "Bar Giorni Felici", poi una bettola chiamata "Fresco Stupido" ed infine il "Bar del Peccato"...e adesso ci siamo noi!".

I&I

Proprio il posto giusto per I & I [Io e io] di Else Lasker-Schuler, uno degli ultimi lavori della poetessa, realizzato negli anni '40 a Gerusalemme, dov'era in esilio e dove morì nel 1945. Faust e Mefistofele, Baal e Re Davide, Max Reinhardt e i Ritz Brothers, i grandi capi del nazismo Hitler, Hess, Goring e Goebbels con le loro squadre infernali si riuniscono per un gran ballo finale tra il macabro e il grottesco, che fonde assieme tempi e luoghi e dà molto da pensare. La rappresentazione dovrebbe aver luogo "vicino alla Torre di Davide" a Gerusalemme, "che i nuovi Palestinesi chiamavano "Porta d'Inferno" così dicono le note per la regia. Else Lasker-Schuler stessa è uno dei personaggi dell'apocalittico raduno [...], al fianco di Max Reinhardt (in qualità di regista) e prende parte intervenendo alla messa in scena del suo lavoro. I miti e la storia contemporanea della Germania sono frammezzati a citazioni delle poesie dell'autrice ebrea, nativa di Wuppertal-Elberfeld, che si vide costretta nel '33 a fuggire attraverso la Svizzera in Palestina [...].
Si percepisce subito una forte affinità biografica fra queste due donne di teatro ebree e tedesche: "Da bambina ho imparato molto presto che il Faust di Goethe tratta l'arcano problema del Bene e del Male ed il mistero della scissione dell'Io. Come Else Lasker-Schuler, anch'io ho cominciato a conoscere il Faust sulle ginocchia di mia madre - così Malina spiega il suo interesse per il testo - ed anche a capire che l'immagine cristiana e tedesca dell'inferno non corrisponde a quella ebraica. Ma io ho sempre lottato contro questo dualismo che ci viene trasmesso, come ognuno di noi, a modo suo, deve fare. Ho perduto qualsiasi fiducia in Goethe leggendo, nel saggio di Thomas Mann, che in tempi precedenti Goethe, funzionario statale, aveva sottoscritto una sentenza di morte contro una giovane che era incorsa nella stessa colpa di Margherita perché - così scrive Mann - egli amava tanto profondamente la giustizia".
Nella visione di Else Lasker-Schuler i confini tra Bene e Male non sono tracciati così rigidamente: Faust cerca in qualche modo di capire i nazisti, mentre Mefisto li condanna alle fiamme e torna ad essere un buon angelo di Dio [...]. Tra le righe di questo enigmatico testo si scopre una profonda e originale fusione di elementi tra il carnevale renano, il cabaret d'epoca e un dolente Raddisch. Paradiso e inferno si trovano sulla stessa terra, solo chi conosce molte culture diverse e le ha fuse dentro di sé può attribuire il giusto valore alle supposte assurdità ed ai grandi principi trascendentali [...].
[Nella regia di Judith Malina] tutto avviene all'interno di un caffè-cabaret: ci si siede ai tavolini con biscotti e candele; diavoli e diavolesse si aggirano e ballano tra il pubblico. Un nutrito gruppo di attori si muove tra piattaforme, scale e nicchie, in uno spazio ristretto eccezionalmente arrangiato da Ilion Troya. Il disagio fisico nel quale viene intrappolato lo spettatore, e che si assomma a quello provocato dalle manovre degli accoliti di Mefisto, porta il tutto ad una temperatura veramente infernale. E tale temperatura corrisponde a quella scatenata dal rapporto tra Faust (Tom Walker) ed il Mefistofele nero (Michael Saint Clair), con il loro scontro corpo a corpo tra ragione e desiderio. Colpa ed espiazione sono anch'esse rappresentate con forte fisicità - secondo la sperimentata tradizione del Living.
Al centro di tutto questo, profetessa nera, Sheila Dabney, nelle vesti di poetessa-principessa dell'oscurità del tempo.
[...] Il lavoro trova la sua forza nella continua tensione tra il livello dell'intrattenimento e quello dell'opera macabra, quando il "numero" musicale dei Ritz Brothers è di colpo interrotto dall'entrata di un attore nudo [e rasato a zero, NdR] appeso per i piedi allo strumento di tortura, non si tratta certo di un effettaccio sinistro: è invece il segno incisivo di quello che si prepara(va) dentro il vulcano della storia, mentre intorno si danza(va).

Michael Merschmeier
(traduzione di Serena Urbani da "Theater Heute", n. 11, 1989)

The Tablets

The Tablets [Le tavolette], ciclo di poesie sornione e sofisticate di Armand Schwerner, pubblicate tra gli anni '60 e '70, costituiscono uno straordinario, enigmatico testo su illusione e realtà, comunicazione e incomprensione, e sui limiti della parola. Sono un fantasioso puzzle, ricco di dinamismo drammatico anche quando si presentano sulla pagina muta [...]
Sotto la regia di Hanon Reznikov [...] 14 attori hanno dato vita ai versi e ne hanno tratto vita [...] Le poesie si presentano come pretese traduzioni di antichi testi sumerici, del tipo di quelle incise su tavolette d'argilla spesso rinvenute dagli archeologi - regolarmente corredate di passaggi indecifrabili, lacune e luoghi mancanti, commenti eruditi del traduttore e apparato di varianti [...].
All'inizio lo studioso/traduttore [nella tournée italiana interpretato dallo stesso Hanon Reinikov, Ndr] interroga le tavolette, che sono incarnate dagli altri personaggi. Inizia un gioco di elusioni ed inganni che le tavolette attuano nei confronti del traduttore, nonché tra loro stesse, e il traduttore arriva alla conclusione che qualsiasi comprensione, in qualsiasi momento e da parte di chicchessia, resta nel migliore dei casi un pio tentativo. I suoi occhi sono letteralmente chiusi "vedendo l'oscurità ogni volta per la prima volta", finché finalmente si ritrova faccia a faccia con sé stesso in un momento indimenticabile quando, nel silenzio, la sua voce registrata sussurra in lontananza: "mi risveglio spopolato, spaventato da tanta felicità".
[...] Il poeta e la compagnia riproducono divertiti gli enigmi e i sortilegi che realmente compaiono in certi testi antichi. Una litania di domande che paragonano l'uomo, con le sue varie parti fisiche, alle ali di una mosca provoca l'invariabile risposta "Che piacere" da parte delle tavolette. Lo spettacolo provoca un crescendo di ilarità. Una sequenza di maledizioni viene pronunciata con evidente soddisfazione da un giovane che sembra esaltarsi a tanta malvagità. Ogni maledizione termina con le parole "E possa tu giammai morire". Le tavolette sono piene di maliziosa sovversione. Le risate stemperano l'intrinseca, profonda serietà.

D.J.R. Bruckner
(traduzione di Serena Urbani da "The New york Times", 11.6.1989)


Impossibilitati a partecipare all'incontro internazionale anarchico che nel settembre '84 vide confluire a Venezia alcune migliaia di anarchici da ogni parte del mondo, Julian Beck e Judith Malina fecero pervenire una cassetta registrata con i loro rispettivi saluti. Una cassetta di difficile ascolto, anche per la voce flebile di Julian. ormai gravemente debilitato dal tumore che ne avrebbe causato - dopo non molto tempo - la morte. Ecco quanto è riuscito a trascrivere ed a tradurre Marco Bonello.

Il pendolo della scena politica ritornerà ad una zona più luminosa, ma il suo arco dipende dall'energia che verrà gettata nella coscienza politica. Come nell'arte, l'anarchismo trova la sua qualità fondamentale nell'ispirazione: nel suo richiamo risiede il suo dovere e la sua ragione. Per diventare pratico, ha bisogno di diventare la via dell'entusiasmo, diffuso e popolare. Più sarà la presentazione di ciò che abbiamo da dire, più riusciremo ad essere convincenti. In un momento storico oscurato dalla violenza e dall'odio, l'anarchismo costituisce l'alternativa che fa appello al nostro amore latente e spaventato per la pace degli uni e per gli altri. L'anarchismo deve risvegliare questo amore, altrimenti la gente continuerà a considerarlo uno dei tanti "ismi". Non disperate, il pendolo oscillerà; il nostro compito è quello di influenzare il suo corso.

Julian Beck

(...) un lato di speranza, in questa conferenza che è, prima di tutto, dalla parte della speranza, in un momento storico di disperazione e di disfattismo. Non per nulla i bolscevichi accusarono i nostri compagni anarchici di ottimismo e guardavano ai nostri sforzi organizzativi come ad una tragedia ottimista. Perchè solo noi anarchici ci siamo costantemente schierati sulla posizione ottimista: poichè vogliamo la libertà, rivendichiamo la libertà totale, e poichè vogliamo la pace rivendichiamo che i mezzi siano la pace. Oggi il pessimismo è divenuto la tradizione dell'Establishment, l'affermazione che non si possa fare nulla per cambiare le cose è divenuto il catechismo dello stato e delle scuole. Noi anarchici siamo qui, ad incontrarci di nuovo, per riaffermare nuove possibilità, e voi cari compagni, vi riunite per riesaminare il lato della speranza.
Siamo con voi, e vinceremo!

Judith Malina