Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 20 nr. 177
novembre 1990


Rivista Anarchica Online

A nous la libertè
diario a cura di Felice Accame

Un codice fin troppo esplicito

Mi pongo un quesito: fino a che punto l'esplicitazione di un senso presuntamente complessivo può far parte legittima di una narrazione cinematografica (o di qualsiasi tipo di narrazione)? Nessuno ama sentirsi ripetere le cose: se ha capito il senso del discorso che gli viene rivolto, l'esplicitazione di questo senso viene accolta quasi con fastidio ("ma si, ma sì, ho capito, ho capito benissimo").
Il quesito mi è stato suggerito dall'ultimo film di Lawrence Kasdan (T'amerò.... fino ad ammazzarti), uno che riesce spesso a coniugare l'America con un briciolo d'intelligenza e di fresca gioia di raccontare senza dimenticarsi un'ironia cogitabonda con la quale ti prende per il verso giusto (vedi Turista per caso, o Silverado, o Il grande freddo).
C'è un momento del primo tempo in cui "lei" ricorda, insieme alla mamma, il papà che non c'è più e dice una cosa del genere "lo ricordo per la sua dolcezza e mi sono dimenticata di tutte le cose che in lui non andavano": bene, se lo spettatore, alla fine del film, torna mentalmente indietro, scopre che al concetto si abbevera ogni sviluppo narrativo del film stesso, scopre che a quella tesi si adegua la tesi che conferisce logica e coerenza a tutto quanto.
Lei scopre che il marito la tradisce e lo vuole irrimediabilmente morto, ma di fatalità benigna in fatalità benigna, allorquando il morituro non ne vuol proprio sapere del destino che la moglie gli ha assegnato, lei sa ritagliare dallo sfondo della sua percezione solo la dolcezza di lui, abbandonando al dimenticatoio dello sguardo infingardaggini e malefatte sessuali - perché dell'amore si fa una cosa e degli ormoni se ne fa un'altra. E lui, dal canto suo, scampato a dosi gigantesche di barbiturici, reduce da attentati goffi ma non per questo incruenti, con due pallottole infilategli qua e là dalla mano incerta d'incerti sicari, lui non può fare a meno di dirsi che lei - una lei che lo ama fino al punto di saperne fare a meno (facendolo ammazzare) pur di non vederlo fra le braccia di un'altra - lo merita davvero, d'ora innanzi marito ligio e probo, innamorato come non mai della propria adorata mogliettina. Sembra un fatto di cronaca e Kasdan ce lo dà per tale. Ovvio che ci ricami su (per esempio, sottolinea pesantemente italianità e cattolicità del marito in questione: pizzaiolo che va a confessarsi con rigore statistico dei peccati sessuali che gli è toccato di adempiere e buon cittadino dell'America ordinata e perbenista), ovvio che ci ricami su e predisponga un tessuto argomentato e coerente ove i fili della sua narrazione possano intrecciarsi con la felicità che il grande pubblico esige.
Comportamenti prevedibili, dunque, e - pur nell'amabilità della confezione - schematismi da film di genere, senza disturbare granché i canoni convalidati: da ciò l'eccesso di esplicitazione, da ciò l'inserimento in posizioni palesi di quella specie di codice genetico grazie al quale un brandello di sceneggiatura ha il potere di schiuderci i segreti di un film intero, da ciò - come sintomi di una malattia nota - le sequenze rivelatrici.
Che ispiri sovente sorriso e complicità, che voglia apparire furbescamente disimpegnato (e dunque profondo sotto e legittimo sopra), che certe caratterizzazioni, peraltro, siano comunque troppo marcate (di certo William Hurt nelle vesti malmesse di un tardivo appassionato di narcosi; forse, lo stesso Kevin Kline nella parte dell'oggetto di tanto estremismo amoroso) e che tempi e modi del raccontare siano svelti e accattivanti, sono, da una parte, connotati utili ad una descrizione di più ampia portata e, dall'altra, conseguenze inevitabili: scelto il codice genetico, sono implicitamente scelte le forme evolutive.