Rivista Anarchica Online
A nous la libertè diario a cura di Felice Accame
Un codice fin troppo esplicito
Mi pongo un quesito: fino a che punto l'esplicitazione di un
senso presuntamente complessivo può far parte legittima di
una narrazione cinematografica (o di qualsiasi tipo di narrazione)?
Nessuno ama sentirsi ripetere le cose: se ha capito il senso del
discorso che gli viene rivolto, l'esplicitazione di questo senso
viene accolta quasi con fastidio ("ma si, ma sì, ho
capito, ho capito benissimo").
Il quesito mi è stato suggerito dall'ultimo film di
Lawrence Kasdan (T'amerò.... fino ad ammazzarti), uno
che riesce spesso a coniugare l'America con un briciolo
d'intelligenza e di fresca gioia di raccontare senza dimenticarsi
un'ironia cogitabonda con la quale ti prende per il verso giusto
(vedi Turista per caso, o Silverado, o Il grande
freddo).
C'è un momento del primo tempo in cui "lei"
ricorda, insieme alla mamma, il papà che non c'è più
e dice una cosa del genere "lo ricordo per la sua dolcezza e mi
sono dimenticata di tutte le cose che in lui non andavano":
bene, se lo spettatore, alla fine del film, torna mentalmente
indietro, scopre che al concetto si abbevera ogni sviluppo narrativo
del film stesso, scopre che a quella tesi si adegua la tesi che
conferisce logica e coerenza a tutto quanto.
Lei scopre che il marito la tradisce e lo vuole
irrimediabilmente morto, ma di fatalità benigna in fatalità
benigna, allorquando il morituro non ne vuol proprio sapere del
destino che la moglie gli ha assegnato, lei sa ritagliare dallo
sfondo della sua percezione solo la dolcezza di lui, abbandonando al
dimenticatoio dello sguardo infingardaggini e malefatte sessuali -
perché dell'amore si fa una cosa e degli ormoni se ne fa
un'altra. E lui, dal canto suo, scampato a dosi gigantesche di
barbiturici, reduce da attentati goffi ma non per questo incruenti,
con due pallottole infilategli qua e là dalla mano incerta
d'incerti sicari, lui non può fare a meno di dirsi che lei -
una lei che lo ama fino al punto di saperne fare a meno (facendolo
ammazzare) pur di non vederlo fra le braccia di un'altra - lo merita
davvero, d'ora innanzi marito ligio e probo, innamorato come non mai
della propria adorata mogliettina. Sembra un fatto di cronaca e
Kasdan ce lo dà per tale. Ovvio che ci ricami su (per
esempio, sottolinea pesantemente italianità e cattolicità
del marito in questione: pizzaiolo che va a confessarsi con rigore
statistico dei peccati sessuali che gli è toccato di
adempiere e buon cittadino dell'America ordinata e perbenista),
ovvio che ci ricami su e predisponga un tessuto argomentato e
coerente ove i fili della sua narrazione possano intrecciarsi con la
felicità che il grande pubblico esige.
Comportamenti prevedibili, dunque, e - pur nell'amabilità
della confezione - schematismi da film di genere, senza disturbare
granché i canoni convalidati: da ciò l'eccesso di
esplicitazione, da ciò l'inserimento in posizioni palesi di
quella specie di codice genetico grazie al quale un brandello di
sceneggiatura ha il potere di schiuderci i segreti di un film
intero, da ciò - come sintomi di una malattia nota - le
sequenze rivelatrici.
Che ispiri sovente sorriso e complicità, che voglia
apparire furbescamente disimpegnato (e dunque profondo sotto e
legittimo sopra), che certe caratterizzazioni, peraltro, siano
comunque troppo marcate (di certo William Hurt nelle vesti malmesse
di un tardivo appassionato di narcosi; forse, lo stesso Kevin Kline
nella parte dell'oggetto di tanto estremismo amoroso) e che tempi e
modi del raccontare siano svelti e accattivanti, sono, da una parte,
connotati utili ad una descrizione di più ampia portata e,
dall'altra, conseguenze inevitabili: scelto il codice genetico, sono
implicitamente scelte le forme evolutive.
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