Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 20 nr. 171
marzo 1990


Rivista Anarchica Online

Aria nuova in facoltà
di AA. VV.

Questo dossier, costruito nel pieno delle agitazioni, fornisce dalla viva voce dei protagonisti, alcuni spunti sulle caratteristiche del movimento e sulle speranze degli studenti, con qualche excursus esistenziale.

Milano / Biologia: la rana rapita

E anche Milano ha finalmente fatto sentire la sua voce: chiara, scandita, apertamente solidale con lo spirito di una contestazione decisa e ben mirata, che negli ultimi mesi ha risvegliato un colorito coro di proteste e ha, come un vento caldo proveniente dal sud, riscaldato gli animi di studenti forse un po' troppo infreddoliti dal clima di raggelante ingiustizia e generale intorpidimento mentale caratteristico di questa stagione.
Anch'io mi lascio facilmente ingrigire nella noncuranza diffusa, ma se solo mi si presenta una pur debole possibilità di colorare il mio girovagare giornaliero, la mente si dà una veloce sferzata di vitalità e ricomincia a sognare. Così è stato.
A Biologia, dove appunto due anni fa ho scelto di concentrare i miei pallidi sforzi mentali, di solito la "politica" non genera né stupore, né indignazione, semplicemente non genera; si corre da un'aula all'altra, da una rana all'altra nell'indifferenza più totale, facendosi ineluttabilmente cullare dal lavoro di fondo (degno delle termiti più incallite) degli insaziabili "cielles" che comunque "non fanno politica, non vi preoccupate".
E invece, nonostante questo substrato apparentemente autonomo e ovattato nella sua freddezza, gli studenti se lo sono preso a cuore questo maledetto affare del d.d.l. Ruberti, organizzando assemblee e occupazioni temporanee tanto improvvisate quanto efficaci.
In effetti, a voler ben vedere, un consistente e diffuso rigetto a un certo tipo di "precettazione" della scienza in senso lato, deve necessariamente esplodere in facoltà scientifiche, luogo prediletto dai famelici PRIVATI (gli ipernominati!) per addestrare masse di giovani menti inesperte a lavorare instancabilmente e soffocare ogni impulso vitale con la pretesa di "scientificità": luogo dove veder con gusto perdere gradualmente la capacità di fermare il cervello ogni tanto per riflettere con calma e critica sul valore e l'importanza di quello che creano (o disfano) tali giovani menti. Mi sembra evidente che molti non ci stanno in questo disegno, disegno molto più ampio e preoccupante di quello di legge che è assurto a simbolo del movimento.
Ma di ciò, quelli che stanno dall'altra parte, obesamente seduti su sudate e comode poltrone di potere, fanno finta di non accorgersene, riducendo il movimento che unisce difficili speranze di ogni difficile e diversa Italia, a qualche sparuto grido di violenza o, peggio, a strumento di una subdola politica di opposizione. Chi sa se fa loro veramente paura, lo desidererei come massimo augurio per questo nuovo anno: di sicuro una così accalorata espressione di insofferenza contiene in potenza elementi fortemente destabilizzanti.
Con rabbia si grida da Palermo a Torino (con espressioni di sincera solidarietà) contro i fantocci che giocano con i ministeri, contro quel grande insulto all'intelligenza umana che sono i mondiali (e tutto il marcio che ci sta attorno), contro leggi reazionarie e criminali, contro quella volontà che da tempo mira, sotto false spoglie, a ristabilire l'ordine, la pulizia, l'ineccepibile perfezione da maquillage di una facciata candida e ricca, marciando sul putrefatto cadavere della LIBERTÀ. Questi sono gli elementi più forti e belli di questo ampio movimento che mi danno speranze e che fanno vibrare il cemento romano sotto il passo euforico di centomila paia di scarpe, e fanno anche vibrare le corde vocali di migliaia di gole dagli accenti più disparati che individualmente urlano di disgusto come esseri umani e non come membri di partiti o leghe o qualsiasi altra identità politico-sociale, mossi dalla paura di vedersi pian piano privatizzare e manovrare le proprie teste in nome del mostro progresso.

Annalisa Bertolo

P.S. A proposito di rane... è giusto che si citi un episodio curioso di solidarietà con questi animali anch'essi giustamente partecipi del grande smarrimento.
Giovedì 1 febbraio è stata occupata da un ristretto gruppo di studenti di Biologia l'aula di laboratorio di fisiologia dove da anni si fanno inutili sperimentazioni dimostrative su animaletti vari.
La protesta oltre a bloccare lo svolgimento di tali prepotenze umane è culminata nel ratto della rana condannata al supplizio e nella profonda incazzatura del professore.

 

Torino: modi abbastanza libertari

È uno strano movimento questo del '90: pragmatico e al contempo idealista, disincantato e utopista, unitario e variegato. La protesta contro il progetto di legge sull'autonomia universitaria del ministro socialista Antonio Ruberti partita dagli atenei palermitani si è presto estesa a tutt'Italia. Più di cento sono le facoltà occupate e ormai l'agitazione si è allargata ai medi ed al personale non-docente. Tuttavia, al di là della volontà di opporsi a quella che è stata definita la berlusconizzazione delle università, in virtù dell'entrata di finanziatori privati nell'amministrazione degli atenei, il movimento si presenta assai diversificato al proprio interno. Ufficialmente apolitico il movimento si basa su un delicato equilibrio di forze fra figiciotti, demo-proletari, verdi, autonomi e varie altre formazioni di sinistra.
Convivono al suo interno spinte meramente corporative e tensioni genuinamente utopiche: il mito di un'università efficiente, neutrale, indipendente e il desiderio di atenei quali fucine per l'incontro, lo scambio, la creazione di culture diverse.
Probabilmente, se si volesse tracciare un profilo comune per questi ragazzi del '90 lo si potrebbe rintracciare in una certa moderazione, con quanto di positivo e di negativo ciò implica; se da un lato, infatti, v'è il rifiuto di ogni schematismo ideologizzante e quindi il rispetto per la diversità, d'altro canto, tuttavia, scarsa è la propensione a mettere in discussione l'università in quanto tale.
Il dato comunque più rilevante è la volontà diffusa di essere presenti, partecipare, contare nelle scelte. V'è un netto rifiuto della delega, dei parlamentini, dei rappresentanti nei consigli di facoltà.
A Torino gli studenti hanno sancito che l'unico organo legittimato a rappresentarli è l'assemblea generale e che le decisioni vengono prese a maggioranza. Tuttavia la democrazia diretta non è facile e la difficoltà di fissare procedure legittime si è tradotta nell'istituzione di una miriade di commissioni, segreterie, comitati che da strumenti tecnici rischiano di trasformarsi in strutture separate.
La situazione degli atenei torinesi è peraltro atipica, poiché, contrariamente a quanto avvenuto altrove, gli occupanti hanno sinora deciso di non attuare il blocco delle lezioni e degli esami. Accade così che chi casualmente entra a Palazzo Nuovo, sede delle facoltà umanistiche, si trova di fronte uno strano spettacolo: quello di due università che convivono sia pur faticosamente nello stesso luogo. Un'università "normale" cui accedono studenti frettolosi e indifferenti, preoccupati unicamente dei loro appunti, esami, lauree e l'università della pantera che affolla le assemblee, discute, organizza seminari autogestiti. Quelli del movimento tentano di comunicare con gli "altri" ma spesso è il muro di gomma: ostilità e silenzio.
Anche i docenti sono divisi: qualcuno collabora con il movimento, altri minacciano denunce e serrate. In un'aula del 1° piano un gruppo di ragazze discute di condizione femminile, aborto, contraccezione. In una delle ultime file siede la loro insegnante: insieme si interrogano sul silenzio che ha diviso le femministe degli anni '70 dalle giovani che oggi sono nel movimento.
A magistero un docente di latino prosegue imperterrito a spiegare Seneca: gli si para innanzi uno studente in abiti da antico romano e lo interroga: "cui prodest?". Il docente, seccato, se ne va. I presidi di lettere e magistero si dichiararono disponibili al dialogo, purché gli studenti che occupano la "loro" presidenza, siedono sulla "loro" poltrona, usano il "loro" telefono, comunicano con il "loro" fax accettino di andarsene.
Se il dialogo con l'istituzione appare difficile se non impossibile , tra gli studenti si è creata una nuova rete di contatti, solidarietà, amicizie.
Durante un'assemblea uno studente dichiara: "sono iscritto qui da tre anni e in tre anni non ho conosciuto nessuno; adesso in pochi giorni ho incontrato, parlato con un mucchio di persone. Questo palazzo di vetro, triste ed asettico è divenuto un luogo vivo e bello".
Ogni giorno sorgono nuove aggregazioni, nuovi interessi: v'è anche un gruppo di studenti anarchici che raccoglie una trentina di persone. Alcuni sono assai attivi nel movimento, altri se ne sono tenuti ai margini. Con due di loro, Carmelo di lingue e Piero di agraria, abbiamo avuto un lungo colloquio di cui riportiamo qui alcuni stralci. Un aspetto che ci interessava chiarire è la pretesa apoliticità del movimento.
II movimento - dice Carmelo - al di là dell'opposizione alla legge Ruberti, si pone per lo più scopi pragmatici e la riproposizione di schemi marxisti operata da taluni, per lo più autonomi, ha scarsissima eco. Tuttavia è ormai ben chiaro che la gran parte degli occupanti ha precisi riferimenti politici se non la dichiarata appartenenza ad un'organizzazione o gruppo. Quegli stessi che hanno premuto affinché il movimento si dichiarasse apolitico e democratico sono l'espressione di gruppi quali la FGCI, DP, i verdi, preoccupati di arginare l'estremismo degli autonomi. Non è casuale che gli argomenti più discussi siano inerenti la decisionalità e la rappresentatività del movimento. Io, come anarchico, mi sono spesso schierato con i così detti moderati, nonostante le decisioni a maggioranza siano contrarie ai miei principi, poiché mi pareva l'unico modo per contrastare i colpi di mano degli stalinisti. Sono comunque convinto che il luogo in cui più facilmente possono affermarsi pratiche libertarie non sia tanto l'assemblea generale ma i piccoli gruppi di facoltà, ove tutti si conoscono e le decisioni scaturiscono dal confronto.
Domandiamo quali possibilità vi siano di moltiplicare la presenza libertaria nel movimento.
A mio avviso - dice Piero - vi sono delle buone prospettive. Il movimento di agraria di cui faccio parte si esprime in modi abbastanza libertari: il confronto è continuo e spesso al termine di un'assemblea non v'è neanche la necessità di votare, poiché si finisce con il raggiungere una posizione comune.
In ogni caso - aggiunge Carmelo - noi come anarchici dovremmo riuscire ad elaborare una critica all'università che vada al di là dell'opposizione alla riforma Ruberti. Io con altri ho distribuito un volantino in tal senso sul quale ho già registrato numerosi consensi.
In tale volantino si afferma: "...è indispensabile non solo bloccare la riforma Ruberti, ma distruggere l'università come istituzione che crea consenso verso una società gerarchica, spesso con la promessa di occuparne i livelli più alti. Non basta impedire che l'università diventi il laboratorio di Agnelli e Berlusconi, occorre che cessi di essere il laboratorio di Andreotti, Craxi , Dianzani; che l'università sia dello stato o dei privati, gli interessi prevalenti sarebbero quelli del controllo e del profitto. L'università deve diventare un laboratorio per la collettività aperto a tutti, non un dispensario di lauree ed attestati, un momento di creazione e diffusione di molteplici culture, non un luogo di trasmissione del sapere istituzionalizzato. La ricerca e la formazione non devono essere lasciate nelle mani di burocrati di stato o di manager d'assalto, ma rapportarsi con la collettività e le sue realtà di base come: comitati di quartiere, gruppi spontanei di cittadini, gruppi ecologisti, etc.. L'università non deve creare docili servi del sistema, ma permettere la formazione di individui liberi".

Maria Matteo

 

Milano / Scienze politiche: un fuoco da alimentare

Rieccoli, gli universitari! Dopo anni di silenzio sono tornati a farsi sentire. Hanno ricominciato a discutere e a lottare, occupando decine di atenei.
È stato il progetto di riforma dell'università del ministro Ruberti a far scattare la molla della protesta: gli studenti vi si oppongono perché "metterebbe i privati nella condizione di poter pilotare la ricerca secondo gli interessi della propria politica aziendale" e perché sottometterebbe gli studenti ai baroni (negli organi di gestione dell'università gli studenti avrebbero solo un potere consultivo). Più in generale, ci si batte contro un'università concepita come "una serra dove coltivare cervelli che producano il frutto desiderato", per una cultura libera che valorizzi la diversità e combatta l'omologazione.
Non c'è dubbio che quanto succede nelle università vada valutato positivamente: anche se la protesta non coinvolge tutti gli studenti, negli atenei italiani si sono aperti dibattiti e confronti con venature antiautoritarie che gli studenti anarchici dovrebbero valorizzare e rafforzare, chiarendo, per esempio, che una cultura libera non può essere garantita dall'università di stato (come qualcuno dice).
Tra università di stato e università "sponsorizzata" cambierebbe solo il padrone e, in entrambi i casi, servirebbe a (ri)produrre una cultura funzionale alla conservazione di una società basata sull'ineguaglianza e sullo sfruttamento. Se il progetto Ruberti verrà approvato gli studenti non perderanno la loro autonomia: non ce l'hanno mai avuta.
È l'università nel suo complesso che va messa in discussione, non solo una legge. E questo è possibile perché, nonostante il tentativo dei gruppi della sinistra moderata (vedi FGCI) di ridurre la protesta a una specie di petizione anti-Ruberti con cui influenzare il parlamento, c'è chi non si accontenta e vuole andare oltre. Gli spazi di discussione aperti dalle mobilitazioni contro la riforma possono servire per ripensare, ridefinire il nostro ruolo di studenti, che è sempre stato quello dei contenitori da riempire di nozioni da ripetere a memoria, acriticamente: le occupazioni e le altre forme di protesta possono essere l'occasione per sperimentare nuovi metodi di studio, dimostrare che gli studenti sono in grado di autogestire il sapere e di utilizzarlo per la propria crescita. Riappropriarsi dell'università, viverla non subirla: è l'unico modo per cambiare davvero.
Qualcuno potrebbe trovare, in quanto detto finora un eccesso di ottimismo e avrebbe ragione: il nuovo movimento degli studenti potrebbe sgonfiarsi, senza aver ottenuto nulla o quasi, magari in seguito a dispute tra chi se ne contende l'egemonia; potrebbe essere sconfitto da chi comincia a protestare contro la sospensione dell'attività didattica, criminalizzato da Gava che vede terroristi dappertutto...
Quello che brucia nelle università e un fuoco di paglia? Forse, comunque va alimentato!

Marco Serio (studente/lavoratore)

 

Urbino: una sfida politico/esistenziale

"Quando nel sociale si sviluppa un movimento libertario che pone serie critiche alla gestione dello Status Quo, le forze autoritarie e politiche gli si rivolgono contro violentemente. L'allargamento di un certo tipo di coscienza, la possibilità di una dimensione soggettiva e collettiva che spazi nei territori materiali e mentali da sempre negati e ostacolati dal potere, rappresentano seri pericoli per chi occupa e gestisce i centri di dominio. Crescete con la vostra forza e non fatevi strumentalizzare da nessuno"... sono più o meno le parole che una docente ha detto nell'assemblea generale studentesca convocata ad Urbino il 26 gennaio del 1990. Da questa assemblea si è sviluppato un movimento studentesco che al momento in cui si scrive ha occupato LA FACOLTÀ DI MAGISTERO (la sede centrale, l'istituto di pedagogia) LA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA (l'istituto di filosofia, di lettere, di lingue, di archeologia, di lettere classiche, tutte con dislocazione diversa). È stata occupata' anche L'ACCADEMIA DELLE BELLE ARTI.
Il movimento studentesco di Urbino è nato sulla scia del movimento universitario nazionale che contesta oramai da settimane il Progetto di legge Ruberti sull'autonomia delle università, legge che in sintesi propone un'ulteriore forma di razionalizzazione del rapporto tra imprenditoria ed Università a favore di un'università messa al servizio del profitto industriale e delle lobby politiche e burocratiche e a discapito di quella poca e discutibile cultura umanistica e "critica" presente nelle università.
Evitate tutta una serie di strumentalizzazioni politiche, il movimento urbinate sta cercando di crearsi una propria dimensione, di elaborare delle critiche sociali che colleghino quello che sta succedendo nelle università in un contesto più vasto. La legge Ruberti non è che una delle sfaccettature di un progetto più globale tendente ad accentuare in senso autoritario i rapporti sociali e di vita. Basta pensare alla legge Jervolino-Vassalli sulle droghe, alla legge che regolamenta il diritto di sciopero, alla regolazione del flusso migratorio dai paesi extracomunitari, o allo pseudo dibattito maschile che vuole rimettere in discussione, in senso reazionario, una già discutibile legislazione in materia di aborto. Una tendenza fin troppo chiara che esige una risposta consapevole perché se gli anni '80 sono stati gli anni della normalizzazione, gli anni '90 rischiano di essere gli anni del vuoto assoluto. Penso sia questa in qualche modo l'esigenza che emerge dai vari documenti prodotti ad Urbino: è questo il senso che anima il lavoro di Giuseppe, studente di biologia, quando interviene nelle assemblee affermando che la scienza non si può slegare da una dimensione etico-filosofica per diventare un ibrido da utilizzare per la costruzione di strumenti di morte da impiegare con profitto nelle varie zone del mondo devastate dalla guerra. E sono chiare le parole che aprono un documento elaborato da una nostra commissione di studio sulla legge Ruberti e sull'istituzione del Ministero dell'Università e della ricerca scientifica e tecnologica: "Riteniamo che il tutto sia riconducibile ai concetti di bisogni sociali e di logica del profitto industriale. Le leggi che andiamo a criticare si muovono unicamente in direzione del secondo concetto, il nostro altro privilegia il primo".
Accanto a questa dimensione critica si sta cercando di affiancare una dimensione propositiva che vuole fare delle nostre facoltà occupate un luogo dove si possa fare altra cultura, un luogo dove tutte le esigenze negate trovino spazio. Si stanno elaborando proposte di seminari e di gruppi di studio su argomenti che vanno dalla Scuola di Francoforte, alla Bioetica, al Situazionismo, all'Antimilitarismo, al femminismo, ecc. ecc.
È sicuramente una sfida politico-esistenziale che stiamo portando avanti nei confronti di un potere che diventa sempre più omologante e repressivo, una lotta non priva di contraddizioni ma con risvolti politici ed umani veramente originali. Ad Urbino si sta lottando per non fare morire questa possibilità.

Pasquale Ambrosino

 

Milano / Statale: riflessioni minime di un occupante

"Vedo la gente arare sul pendio della collina. Sulla destra c'è gente che lavora ad una casa. Ovunque c'è gente indaffarata e, John, non c'è luogo in cui la gente faccia ciò che desidera". (W.B.Yeats)

Chissà se a qualcuno interessano ancora i principi di una lotta...
Sono in questa aula magna da 9, forse 10 giorni e mi sembra sempre più un gigantesco paniere pieno a metà di vecchie michette, con un po' di pane fresco gettato là la mattina, poco: per ingannare i clienti.
Sono un "occupante", uno dei più assidui probabilmente; sicuramente uno degli ingenui, che lotta, se lotta, per dei principi, che nega l'assioma "il fine giustifica i mezzi": semmai è vero il contrario. Ho lavorato, sto lavorando, mi sono divertito: ho parlato per ore con persone di cui non sapevo il nome, ho discusso fino a notte fonda. Ho capito che noi, noi giovani non sappiamo più parlare, confrontarci, discutere; quando in una riunione di quindici persone c'è una lista degli interventi, vuol dire che qualcosa non va, e non ci vuole un sociologo per capire di cosa si tratta: la competizione è la sola dea ad uscire vittoriosa da qui. La competizione che ti fa programmare un bel discorso mentre parlano gli altri, che ti insegna la sottile arte di comunicare senza ascoltare, che ti indica scorciatoie per salire. Salire dove? È lei stessa a dirtelo, perché è lei che ti mette davanti agli occhi il triangolo sociale, l'unico schema possibile per una società che funzioni, quello che "qualcuno lassù ci dovrà stare, o si sfascia tutto". E per stare lassù si lotta, si lotta eccome: un'assemblea, una riunione, un discorso...sono tutti corollari per l'esistenza di un parlamento di ventenni, in cui per avere un ruolo bisogna coprire gli altri, magari di vergogna.
Può sembrare uno sfogo il mio, e in parte lo è; vorrei spiegare che non crollerebbe tutto se cadesse il punto in alto, ma solo se a togliersi fosse la base (è geometria questa); ma chi sono io per spiegare, me lo chiedo spesso. E la risposta è che sono uno un po' scemo che solo oggi si è accorto che nei suoi coetanei c'è un modello sociale, ben radicato: gerarchia si chiama, per chi non lo sapesse, e non organizzazione. Ma la gerarchia è la Giocasta della burocrazia, sua madre e sposa; e la burocrazia è ciò contro cui alcuni qui dentro vogliono lottare, magari perdendo appelli d'esame, lezioni e nozioni.
Non è sfidare i mulini a vento, come qualcuno mi ha detto in questi giorni: è lottare per dei principi. Non si uscirà mai vittoriosi spodestando il re dal trono, perché il trono rimarrà, qualcuno ci si siederà, qualcuno regnerà. Per questo non mollo: non accetterò la sfida di chi non dovrei combattere, non è nei miei principi, e per me i principi contano ancora molto.
Non è nei miei principi nemmeno dare lezioni, ma a tanta gente qui dentro consiglierei una sana lettura di classici, primo fra tutti "Il processo" di F. Kafka.

Paolo Marasca

 

Padova: in una fase critica

Fino a poco tempo fa, nessuno di noi pensava che gli studenti di Padova si sarebbero mossi per qualcosa.
La cappa della normalizzazione, l'indifferenza montata ad arte in questi anni, i fantasmi dell'autonomia operaia, la paura di far politica, la disillusione, la mancanza di punti di riferimento sembravano condannare quei pochi che ancora avevano voglia di mettere in discussione valori e strutture subiti dalla maggioranza degli studenti all'isolamento più totale.
Eppure, sull'onda del movimento nazionale, anche qui è scoppiata la protesta e la rabbia di pochi è diventata la speranza di molti. Dopo assemblee di facoltà roventi, dove si è consumato uno scontro netto e insanabile tra i giovani di sinistra e i cattolici popolari, che anche qui a Padova imperversano incamerando milioni su milioni e gestendo mafiosamente i soldi di tutti, si è giunti alle occupazioni di lettere, magistero, scienze politiche.
I motivi della protesta, in realtà, non sono semplicemente riconducibili alla legge Ruberti sulla "autonomia" universitaria. Dalla carenza di aule dove poter studiare o trovarsi a discutere, agli appelli d'esame con centinaia di iscritti, ai rapporti spersonalizzati con i docenti, alla crescente selettività volta ad un produttivismo fine a se stesso, alla sfiducia più totale verso gli organi di rappresentanza studentesca, agli aumenti dei prezzi da parte di un ente (l'ESU) con più di 15 miliardi di attivo, alle difficoltà per gli studenti non padovani di trovare alloggi a prezzi accessibili, al disagio e al senso di frustrazione verso un insegnamento impartito come se fosse qualcosa di definito secondo leggi immutabili e divine, necessariamente vere, e non invece qualcosa da costruire, magari con il nostro contributo: motivi per protestare ce ne sono tanti.
Noi vorremmo che l'università diventasse un laboratorio di cultura, dove crescano menti critiche e libere, non giovani burocrati e rampanti manager.
E questa voglia di creatività, di partecipazione, finalmente si è liberata. Si è liberata negli striscioni, nei colori dei manifesti, nella gioia di stare insieme decidendo in prima persona come gestire l'università, nella ritrovata voglia di discussione, di confronto e - perché no - di scontro.
Il movimento qui presenta forti aspetti libertari.
Nelle facoltà occupate ogni decisione viene presa dall'assemblea; vi è un rifiuto totale della delega e viene praticato il metodo della democrazia partecipativa e diretta. Prima di ogni decisione si attua una discussione - la cui durata dipende dall'importanza della decisione stessa - e poi si effettua la votazione; quando non si raggiunge l'unanimità vince la maggioranza. Le commissione tecniche di studio formate dagli studenti per approfondire determinati aspetti delle ricerche non hanno alcun potere decisionale: ad esse spetta il compito di fornire la base, le fondamenta della discussione per l'assemblea, al cui vaglio passa ogni decisione.
Sembrerebbe una vera rivoluzione nell'università, ma bisogna esser molto cauti.
Anzitutto ci sono stati imbarazzanti problemi organizzativi. Molte giornate sono andate perdute in discussioni interminabili per approvare statuti di regolamentazione molto rigidi che per fortuna non vengono rispettati. Un altro problema che si va delineando è la contrapposizione tra sfera politica e sfera culturale, con la tendenza della prima a dominare la seconda. Noi, invece, differenziandoci da questo schema tipicamente marxista, vorremmo che fosse la sfera culturale a farsi portavoce di istanze politiche, non viceversa.
Per molti degli studenti politicizzati, poi, quella della democrazia diretta e dell'autogestione è solo una scelta contingente, non una questione di principio. Basti pensare alla politica della FGCI, pronta a sostenere l'autogestione nei momenti caldi e di lotta per poi ritornare, raffreddatesi le acque, ad un'azione filopartitica, legalitaria e riformista.
Ma ci sono altri e ben più gravi problemi: bisogna infatti dire che il movimento rappresenta una netta minoranza anche rispetto agli studenti delle facoltà occupate, e per ora non sembra riuscire ad aggregare moltissime persone. È pur vero che tanti studenti non frequentano, ma non si riesce ancora a capire se l'indifferenza generale si potrà tramutare in adesione o manifesto scontro. Perché di fronte ad un'eventuale volontà della maggioranza di riprendere la normale attività universitaria, come potremmo arrogarci il diritto di impedire le lezioni e gli esami?
Ancora: sapremo diventare un laboratorio di propositività e d'utopia, superando così il primo momento di semplice contrapposizione? Come reagirà il movimento a futuri tentativi di sgombero? Quanto peso riusciranno a conquistarsi i loschi individui pronti a rispolverare vecchi miti della sinistra autoritaria, leninista dogmatica e avanguardista? Quanto riusciremo ad incidere noi con il nostro libertarismo?
Siamo in una fase critica, dove tutto è ancora possibile. Per adesso preferiamo agire individualmente nelle discussioni e nelle commissioni di studio, ma la rete di collegamenti che siamo riusciti a creare porterà probabilmente alla costituzione di un gruppo anarchico a Padova, che si andrà ad affiancare all'altro gruppo libertario, il Laboratorio di ricerche sociali, che ha promosso l'occupazione di scienze politiche.

Francesco, Roberto, Antonio, Stefano

 

Milano / Ingegneria: dibattito in movimento

Livio - Siamo qui per far luce sul pregiudizio diffuso di incompatibilità tra lo studio di ingegneria e la maturazione di idee libere .

Alessandra L. - L'etimologia stessa della parola "tecnica" deriva del termine greco TECHNE, che se originariamente significava ARTE, nella Grecia classica viene ad assumere una sfumatura diversa: tant'è che l'uomo TECHNIKOS rappresentava la figura dell'ingegnere.

Livio - Infatti per riuscire a superare tale pregiudizio è necessario rivedere il concetto stesso di TECNICA, mettendo in evidenza come sia sostanzialmente uno strumento per incidere sul reale.

Dario - Il recupero di questo concetto è importante per il fatto che ora la tecnica è vista esclusivamente come specializzazione, mentre alle materie umanistiche è affidato il compito di guardare ai fini di questo strumento. Questa spaccatura porta a un imbuto, nel senso che aumenta la separazione, necessaria al sistema, tra chi conosce i mezzi e chi i fini.

Livio - Questo è frutto della struttura odierna dell'Università, non più considerata come luogo di produzione e scambio di cultura, ma come luogo di trasmissione unilaterale della stessa, il pregiudizio di cui si è parlato è in fondo comprensibile se si considera la situazione qua dentro; se si considera che questa è un po' una prigione tecnocratica, visto che quello che si insegna è l'uso della tecnologia come strumento di dominio. Si può però fare piazza pulita di questo pregiudizio alla luce delle teorie suggerite dall'ecologia sociale, vedendo come il problema ecologico sia sostanzialmente un problema di dominio dell'uomo sull'uomo.

Alessandra L. - Homo homini lupus.

Dario - È giusto quindi che ci sia un giudizio etico sul modo in cui vengono insegnate le cose, sull'educazione che dicevi, ma non deve trasformarsi in pregiudizio sugli studenti, perché proprio questo favorisce l'aumento di indifferenza globale che è il male peggiore che ci sta intorno. In realtà è proprio da questo ambito che nasce la possibilità di ripensare in modo nuovo al concetto di tecnica, mezzo indispensabile per poter costruire i fondamenti di una società ecologica.

Fabio - ...ma tu pensi che ci sia davvero questa possibilità di non integrarsi quando esci dall'università e vai a fare l'ingegnere. Io lo so già che non lo faccio l'ingegnere.

Livio - Questa è un po' la conseguenza della prigione tecnocratica. Se parliamo di riforma Ruberti poi... dove ci porterà?

Dario - Al modello americano.

Livio - Sì, a rendere le sbarre ancora più fitte...

Dario - È questo l'inquadramento educativo, è un concetto importante, che verrà dato come presupposto dopo, nell'ambito del lavoro. Il fatto che siamo qui prova che può non essere vero.

Franco - Un movimento alternativo, o anche un solo embrione qua ad ingegneria del Politecnico di Milano può fare paura, può rompere gli schemi più consolidati

Fabio - Ma ci sono gli spazi di manovra perché l'ingegnere si trovi a fare cose diverse da quelle per cui è stato fabbricato?

Dario - Sì, secondo me ci sono dei punti di fuga; le stesse tecniche moderne alla loro nascita non sono totalmente controllate: se infatti c'è qualcuno che le conosce e nello stesso tempo ha la mente aperta può rivoltarle a fini liberi: se diventano armi è perché le lasciamo diventare con la nostra mente. Ci sono addirittura spazi di conoscenza enormi e aperti come l'intelligenza artificiale che possono dimostrare (così come l'antropologia) che la mentalità simbolica gerarchizzata è un'enorme forzatura. Oppure le tecniche di decentramento energetico e informatico che possono dimostrare la reale possibilità di cambiare il sistema senza fuggire in un mistico ritorno alle origini pretecnologiche.

Fabio - Sì, va bene i grandi discorsi, poi però devi andare a fare l'ingegnere da qualche parte, ti devi confrontare con la bruta realtà...

Dario - La bruta realtà ce l'abbiamo davanti già qui dal primo anno, è evidente la somiglianza con una fabbrica di cui noi siamo i prodotti, non abbiamo l'illusione che sia una parentesi dopo di che c'è lo scontro, l'illusione che si nutre più facilmente nelle facoltà più vicine a quell'ideale di "luogo universitario".

Franco - Forse questa è la differenza tra facoltà scientifiche e umanistiche: in quelle umanistiche c'è un primo periodo in cui uno spazia con la mente, sei ancora indipendente, nel momento in cui ti laurei cambia tutto: mentre qui già subito l'accento è sull'acquisire un modo di ragionare o comunque di entrare a far parte di questa grossa macchina. Per cui ha già rinunciato a qualsiasi velleità e userà il bastone come gli hanno insegnato. La carota, invece, nascerà (anzi è già nata) con l'ecoingegneria (Monteco, gruppo Ferruzzi...).

Livio - La scienza è neutrale mentre la tecnologia può essere una potente arma di dominio della realtà. Abbiamo la possibilità di elaborare una tecnologia alternativa.

Franco - La tecnologia è neutrale allora, mentre il modo con cui vengono usati questi strumenti è da colpevolizzare, cioè i fini della ricerca dati dalla scienza.

Livio - Rispetto alla scienza la tecnologia è lo strumento, gli attrezzi, e quindi si vede subito se è buona o cattiva, mentre la scienza, la ricerca di per sé è neutrale...

Franco - ... oppure a monte sia della tecnologia sia della scienza ci sono determinati atteggiamenti scientifici già di per sé antiumanistici.

Dario - Anche in questo non dovremmo avere alla luce della evidenza l'illusione che la scienza sia neutrale, un conoscere per conoscere, al di sopra della reale incidenza sul mondo. Si conosce per fare.

Franco - Se comunque il fisico si illudeva di essere indipendente e neutrale, con la legge Ruberti non si illude più, dato che vedrebbe subito finalizzata la sua ricerca.

Livio - La deculturizzazione e la privatizzazione vanno insieme in questo momento, questo va detto, le restrizioni che vogliono far passare qui (numero chiuso, catenaccio , riduzione degli appelli, semestralizzazione) con la logica della specializzazione e della selezione vanno di pari passo con la privatizzazione e le ingerenze delle corporazioni.

Franco - ..verso il modello americano dove le università sono di élite e l'ignoranza di fondo, l'analfabetismo sono diffusissimi.

Livio - Comunque ritagliarci un ghetto dorato, una professionalità conciliabile con le nostre idee è in fondo una ricerca sbagliata.

Dario - Dobbiamo crearlo noi invece, o anche soltanto recuperare, dato che vediamo come è degenerata la tecnica, il filo che c'è di fianco: una tecnica direttamente collegata al fine etico. Che si possa creare una società diversa in questo modo è una cosa a cui non crede nessuno perché rimane ancora troppo forte l'idea che progresso e tecnologia siano da un lato, mentre rinuncia e scarsità dall'altro.

Livio - È innegabile però che la tecnologia sia uno strumento di progresso, sia progresso come vorremmo intenderlo noi sia come aumento del dominio.

Franco - Però allora bisogna ridefinire anche l'idea di progresso visto che il progresso delle centrali nucleari è in realtà un regresso. Il vero progresso è la possibilità di andare avanti.

Dario - Ed è una ridefinizione che si può fondare sull'idea di evoluzione naturale-culturale-sociale, ed in questa ottica può essere compreso pienamente.

Alessandra B. - Però intanto il progresso va fermato; io posso avere i mezzi, le capacità per recuperare quello che stanno distruggendo, ma se di fianco moltiplicano le fabbriche non serve a niente, combatto contro i mulini a vento.

Franco - Infatti la prima debolezza è proprio il sentirsi isolati.

Dario - Già combattere contro i mulini a vento serve per dimostrare che si può collegare i mezzi ai fini, combattere quella spaccatura tra tecnologia e mistica...

(a cura di Dario Sabbadini)

 

Palermo / Scienze politiche: la primavera inizia adesso

In una città difficile come Palermo, le facoltà occupate rappresentano un momento di crescita individuale e collettiva che da tempo non si vedeva in questa città. Una città dove lo strapotere mafioso e la militarizzazione statale rappresentano entità ben presenti nel tessuto sociale cittadino. Una città dove fare politica significa appartenere a determinati schieramenti e dove "false primavere" condizionano ed ipotecano i destini dei movimenti cittadini, dove costruire spazi di libertà non omologabili e antagonisti risulta estremamente difficile.
È in questo panorama estremamente impervio che nasce e si sviluppa la rivolta studentesca che infiamma gli atenei italiani. Finalmente un qualcosa rompe con la logica degli schieramenti precostituiti, con le anomalie e con le primavere calate dall'alto.
La primavera, quella vera, inizia adesso, sì! adesso si è veramente sviluppato un movimento dal basso, che rifiuta deleghe e vuole contare e decidere in prima persona.
In una delle tante facoltà occupate, si legge su di uno striscione "occupiamo gli spazi, liberiamo le coscienze". Sì, questa occupazione - piaccia o no - libera, alla faccia di tutti quelli che in questa città, tra bacchettoni, benpensanti e pentiti di turno (sono tanti i pentiti in questa città), ritenevano immutabile qualsiasi scenario di vita cittadina.
Ci siamo presi l'università che da molto tempo c'è stata negata, ci siamo ripresi un momento della nostra esistenza e lo vogliamo vivere senza mediazione alcuna. Ma tutto ciò non è facile: c'è già chi sta lavorando per recuperarci, per addomesticarci, e c'è chi ci vorrebbe annientare, perché noi siamo le loro cattive coscienze: le cattive coscienze di tutti coloro che da sempre perpetuano e riproducono lo stato attuale dei fatti.
Lo scontro è duro, ma vale la pena scontrarsi. Le occupazioni che durano ormai da più di 60 giorni rappresentano un importante momento di azione diretta, che si sviluppa attraverso la pratica dell'autogestione: seminari autogestiti, didattica alternativa, lezioni gestite in prima persona da studenti, docenti e ricercatori e da tutti quelli che simpatizzano per il Movimento dimostrano che è possibile gestire la cultura ed il sapere in modo diverso, in modo critico e alternativo.
Colori, sì, tanti colori che modificano e riscrivono la struttura e la memoria dei luoghi fisici, che prima sentivi come estranei e spersonalizzanti, che adesso diventano parte di te stesso.
La voglia di essere e di contare l'abbiamo ribadita ancora una volta con più rabbia e con più forza, quando il ceto politico di sempre cercava senza riuscirci di definire l'Assemblea Nazionale (tenutasi a fine gennaio a Palermo) a sua immagine e somiglianza.
D'ora in poi bisognerà consolidare e diffondere le pratiche di autogestione e rifiuto della delega, perché solo queste garantiscono la vitalità e la corrosività del movimento.
Ci criminalizzano perché vogliamo conoscere la storia del nostro paese senza le tante veline che da sempre ci propinano.
Sì, siamo tutti terroristi perché vi abbiamo terrorizzato con la nostra creatività, la nostra gioia, con il rifiuto di qualsiasi mediazione e con la nostra volontà di autogestione e tutto ciò vi terrorizza, lo vogliate o no.
Qualche cosa si è rimessa in cammino e, al di là di come finirà, il vostro futuro lo stiamo già rovesciando.

Antonio Rampolla

 

Milano / Lettere: il movimento è tutto

I colori dell'occupazione riempiono in fretta l'aula magna troppo austera della Statale. Per me è la prima volta, e per una causa davvero giusta. Il movimento fiorisce nei prati grigi delle metropoli universitarie e ricopre i muri.
La cosa più bella: le porte sempre aperte a dire avanti che ci siamo, ad aspettarci per fare insieme mille piccole rivoluzioni, un cartellone, una riunione della commissione didattica, una ripulita, una colletta. Ci manca qualcosa per essere davvero quelli del novanta, a noi di via Festa del Perdono: un telefono e soprattutto il fax; l'occupazione della presidenza però provoca il blocco della didattica senza metterci in possesso degli agognati strumenti di rivolta; ci chiediamo tutti dove sono i famosi cinque fax della facoltà. In sala fax... Il brivido di sentire due squilli e veder spuntare fuori la carta ancora calda con le intestazioni più strane e i messaggi più disparati, non ci è riservato. Ma campeggia, in mancanza d'altro, in alto sul palco, un contestato striscione. Fax ergo sum, in eleganti lettere nere, ed un gentile adattamento che suona così: "fuck ergo sudo".
Ebbene sì, il movimento è anche blasfemo. Il movimento è tutto. In una settimana di occupazione ho conosciuto più gente che in un anno di università, e i rapporti si fanno amichevoli e ammiccanti e importanti e litigiosi e discorsivi ad ogni incontro degli occhi. Perché siamo in tanti, e davvero uno all'altro differente.
I muri sono tappezzati di fogli e messaggi, i disegni raccontano le angosce, i cartelloni denunciano le quotidiane angherie che l'università del potere, pure male organizzata, ci fa subire senza che nulla sia possibile fare per ribellarsi: ma anche traboccano di speranze per un mondo diverso da quello in cui siamo cresciuti. E se Pasolini scriveva nel 1975 che c'è una colpa dei padri che devono pagare i figli (ed essa è l'accettazione, tanto più colpevole quanto più inconsapevole, della violenza degradante e dei veri, immensi genocidi del nuovo fascismo, cioè il capitalismo), in questi giorni ho incontrato tanti visi che non sono disposti, ancora una volta, a diventare i burattini di padri senza cuore, che tengono tutto il mondo tra le dita. E dentro alle parole, ai discorsi delle tante assemblee, alle discussioni che la vita sociale sviluppa inesorabilmente non c'è solo rabbia, ma pure una gran decisione, la voglia bella di non lasciare che tutto finisca. La voglia che la sera passi senza televisione.
Nessuno capisce quello che vogliamo e in tanti sono davvero stupiti, perché si crede che la nostra generazione cresciuta al calduccio degli anni ottanta abbia tutto tra le mani. Proprio non è chiaro ciò su cui ci stiamo lamentando; e, in mancanza d'occhi per vedere, s'usa la memoria per spiegare, risalendo ad anni che non sono i nostri. Ma più ancora di prima oggi noi dobbiamo lottare, perché la Ruberti non passi, perché, quando tra vent'anni saremo noi dall'altra parte, le cose siano diverse.
Io mi sento intorno un'aria di rispetto e tolleranza che permette davvero a tutti di parlare e proporre, sento la voglia di coinvolgere ogni persona che passa, fermando il mondo, scendendo per guardarlo da fuori. A Scienze Politiche capeggia una riflessione di Gramsci sugli indifferenti, e sono in tanti ad arrestarsi e perdere qualche minuto del tempo, che sembra sempre così prezioso, per leggere che non bisogna stare dietro ai vetri o lasciare che sia.
Forse hanno ragione i giornali a dire che siamo terroristi: parliamo di rivoluzione, di lotta, facciamo nostre cause lontane di gente oppressa; siamo per una cultura multicolore, democratica, libera, positiva e vogliamo costruirla noi, con le nostre mani, coi nostri cervelli; e lasciamo parlare chiunque abbia qualcosa da dire, e lo ascoltiamo; e dormiamo per terra e mangiamo poco e facciamo le feste nell'aula magna liberata; siamo un movimento e dentro, a fare la nostra forza e la debolezza assieme è il crogiolo di "minoranze etniche" a cui la nostra difformità con tutto ciò che esiste dà luogo.
Abbiamo la musica e facciamo la musica. Abbiamo l'amore e facciamo l'amore. Vogliamo i professori dalla nostra parte. Parliamo con gli studenti di Praga e accogliamo con gioia le notizie di agitazioni universitarie a Londra, Berlino, Atene.
All'entrata dell'aula magna, la commissione creativa ha appeso un enorme quadro, fatto di giornali, pennelli e carta colorata. Sopra si legge a grandi lettere "fiorisce il movimento". Noi tutti speriamo che esploda in una primavera folle e splendida con l'arrivo di Marzo.

Francesca Tondi

 

Milano / Statale: non solo "scopa e paletta"

Venerdì 2 febbraio ore 21.30 entro nell'Università Statale, l'atrio è deserto, i muri sono ricoperti da manifesti scritti a mano. Nell'aula magna si nota subito uno striscione con la scritta "FAX ERGO SUM", gli studenti presenti non sono molti, qualche gruppetto sparso che parlano tra loro.
Mi avvicino, riconosco due nostri compagni e con loro ci sono gli studenti che probabilmente devo intervistare. Sì, sono proprio loro: Sara, 21 anni, Filosofia; Paolo, 22 anni, Lettere; Alberto, 2l anni, Filosofia; Cesare, 20 anni, Filosofia. Decidiamo di spostarci in una delle aule occupate per poter parlare più tranquillamente.
Sara inizia a raccontare come si è arrivati all'occupazione dell'Aula Magna. Racconta che tutto ha avuto inizio (a Milano) in un assemblea della facoltà di Veterinaria, qui si decise di lasciare l'iniziativa alle singole facoltà. Così a Filosofia venne organizzata un'assemblea a cui parteciparono circa 500 persone. In questa assemblea si organizzarono quattro commissioni di lavoro: sulla didattica, sullo studio della legge Ruberti, sul come organizzarsi, sul diritto allo studio. Nel giro di tre giorni veniva organizzata un'assemblea cittadina nell'Aula Magna della Statale che veniva concessa dal Rettore. "L'assemblea si dimostrò ingestibile, poiché ci fu un'invasione dei Cattolici Popolari, continua Sara, l'assemblea veniva quindi aggiornata specificando che avrebbero potuto partecipare solo gli scritti alla Statale presentando il libretto universitario in quanto si temeva l'invasione di studenti della Cattolica e della Bocconi. L'assemblea durò circa 7 ore e venne deciso di mantenerla permanente come collegamento fra le facoltà milanesi. Questa occupazione creò un contrasto tra chi voleva continuare l'occupazione e chi sosteneva che l'assemblea non si era pronunciata in merito. L'occupazione comunque continuava e in un'assemblea successiva veniva deciso non solo di continuare l'occupazione ma anche di occupare la presidenza e tre aule. L'occupazione della presidenza avvenne in maniera movimentata in quanto i docenti si barricarono dentro. Il risultato fu il blocco dell'attività didattica da parte dei docenti. Consapevoli della necessità di coinvolgere altri studenti, che il blocco delle attività avrebbe impedito, venne deciso di sgombrare la presidenza anche perché le decisioni assembleari avevano stabilito che l'occupazione non doveva minare lo svolgersi dell'attività didattica.
Che ruolo personale avete avuto nell'occupazione? (nel frattempo nell'auletta del nostro incontro/ intervista sono entrati altri studenti e compagni, s'è trasformata in una riunione informale).
Paolo "Il nostro ruolo è cambiato nel tempo, perché all'inizio quando le commissioni non erano ancora state stabilite per organizzare le cose abbiamo lavorato insieme a pochi altri. Una volta stabilite le commissioni, personalmente ne sono rimasto fuori, ero sempre in giro a fare banchetti ed ho scoperto una sera di far parte della commissione informazione e rapporti con gli studenti". Alberto "Ho iniziato a lavorare nella commissione stampa più o meno sin dall'inizio anche se i ruoli non erano ben definiti. Con i banchetti diffondiamo il testo della legge Ruberti e le mozioni dell'assemblea, ogni mattina facciamo la rassegna stampa ritagliando dai giornali gli articoli che ci riguardano e li attacchiamo fuori dall'Aula Magna".
Alberto continua dicendo che dopo aver disoccupato la presidenza ci fu un attimo di sbandamento psicologico e disorganizzativo in quanto i membri della commissione erano favorevoli a continuarla.
"...abbiamo deciso di ritornare nelle commissioni affinché i più politicizzati e i vari appartenenti ai partitini non prendessero il predominio della situazione. Siamo tornati dentro un po' per controllare i lavori un po' perché ormai era stupido perdere altro tempo e l'occasione...".
La distribuzione della legge Ruberti trovava gli studenti molto interessati.
Infatti Alberto aggiunge che le copie sono andate a ruba, "Ma pur essendo interessati, vengono e ci dicono - Mi raccomando andate avanti - poi se ne vanno a casa". Dopo una settimana di occupazione il gruppo iniziale si è più o meno allargato, sono circa un centinaio che si alternano anche a dormire in Università.
Cesare "Io mi son sempre rifiutato di avere un ruolo ben definito in questo movimento perché ho sempre rifiutato il concetto di fissarsi in un posto, il mio ruolo è stato quello di privilegiare, nei confronti della burocratizzazione e dell'organizzazione eccessiva di alcuni, l'iniziativa del singolo, ho invitato gli altri studenti a fermarsi nell'Aula Magna per lavorare insieme, prendendoci tutte le responsabilità delle nostre decisioni senza pretendere di rappresentare Assemblee degli Studenti.
Ho sempre deciso di rapportarmi non come assemblea, né come Nucleo Studenti Lettere ma come Cesare che cerca di fare un certo tipo di iniziativa, che porta avanti con chi si trova d'accordo senza disperdere o accavallare le iniziative. Sono stato al di fuori delle commissioni pensando a dei punti che potessero coinvolgere e interessare propositivamente gli altri. L'obiettivo è quello di discutere, comunicare, proporre idee senza pensare ad un'ideologia di movimento, l'unico obiettivo comune dovrebbe essere la libertà di ciascuno di esprimersi all'interno dell' università.
Sara "Io ho scelto di lavorare nelle commissioni, non mi ci sono trovata per caso, penso che nonostante le divisioni e contrapposizioni anche forti che possono esserci, ritengo utile andare avanti insieme trovando gli elementi comuni su cui lavorare... perché se c'è dibattito c'è crescita se non c'è dibattito c'è stasi, questa è la forza del nostro movimento e queste sono le motivazioni che mi spingono ad andare avanti".
Parliamo sulla legge Ruberti e il concetto essenziale è che si contesta la legge in sé, non alcuni articoli di essa, in quanto introduce in maniera furba i privati nell'università senza alcun vincolo da parte loro, non c'è niente che permetta una regolamentazione dell'intervento privato. Il discorso di abrogazione completa della legge coinvolge l'istituzione universitaria in quanto tale che vede lo studente solo come soggetto passivo.
Il problema a loro parere non è di scegliere il privato o lo Stato ma di coinvolgere gli studenti nelle decisioni che li riguardano di prenderne coscienza riappropriandosi di un atteggiamento attivo e propositivo dimostrando che gli studenti possano imparare ad autogestirsi anche le singole lezioni e i programmi di esame.
Com'è il vostro rapporto con i docenti?
Cesare "È molto difficile perché la maggior parte dei docenti di questa università è contraria a questa contestazione per due motivi primo perché la legge Ruberti in se stessa li favorisce, secondo perché non accettano un dialogo con noi in quanto a mio parere non hanno mai avuto la concezione dell'università come luogo per creare una cultura e trasmetterla affinché gli studenti da soli possano collaborare e costruire un loro modo di vedere e pensare. Prendono posizione molto dure e decise come quando si è occupata la presidenza, quando si è toccato simbolicamente un luogo gestito da loro... il nostro discorso Signori Docenti è che voi siete in università per permetterci di capire come si utilizzano certi strumenti per poi noi creare la nostra cultura, il nostro modo di essere.
Alberto "Parlando con alcuni docenti del consiglio di Facoltà, risulta che non esiste una spaccatura fra di loro come negli anni 70, però i più moderati ci hanno lanciato l'avviso di continuare perché i più reazionari si sono rifatti vivi, per riaffermare la loro linea di autoritarismo contro gli studenti. Quindi se noi riuscissimo ad allargarci ad uscire dall'aula Magna ormai ghettizzata, a occupare nuovi spazi nevralgici, scatterebbe secondo il messaggio di questi docenti una presa di posizione netta che creerebbe una spaccatura anche tra di loro e si verrebbe così a creare una vera e propria controparte".
Il discorso prosegue sui professori di sinistra che oggi, specie a lettere e filosofia, hanno avuto cattedre e sono diventati assistenti, e nonostante molti di loro abbiano partecipato al movimento studentesco del '68, oggi non prendono posizione e contrastano duramente il movimento, come il prof. Rambaldi che ha addirittura cacciato dai colloqui gli studenti perché arrabbiato con il movimento.
Ci sono naturalmente le dovute eccezioni di chi si è già schierato con gli studenti ed addirittura ha fatto lezione sul movimento. A scienze politiche (secondo Tiziana , 20 anni) la situazione è un po' diversa, i docenti hanno preso posizioni più chiare nei confronti del movimento, hanno partecipato alle assemblee solidarizzando e riportando le loro esperienze passate. L'intervista man mano che si procede perde completamente di significato e si trasforma in un vero e proprio dibattito, l'auletta occupata è ormai una vera e propria riunione sul movimento.
Viene messo in evidenza il fatto che i docenti della Sinistra istituzionale contrastano gli studenti, mentre la stampa continua a parlare di un movimento influenzato dalla FGCI su linee democratiche, un movimento politico, pacifico che vuole studiare. Così come vengono messi in evidenza i tentativi da parte dei partiti costituzionali giovanili di egemonizzare e strumentalizzare il movimento, ma la contestazione alla legge non rimane legata alle influenze del PCI, infatti bisogna tener conto che Luigi Berlinguer è collaboratore di Ruberti. Il movimento di oggi lo si vede legato alle tematiche del movimento dell'85, alle assemblee c'è più un malessere diffuso, che non ha contenuti, che esprime delle condanne, più che un progetto di trasformazione.
Alberto "Mi considero un esterno al movimento dell'85, nel senso che vi ho partecipato pur restandone un po' al di fuori. Questo movimento non ha le prerogative del discorso sulle strutture che invece ha caratterizzato e fatto morire l'85. C'è il rischio che dalla legge Ruberti ci si possa arenare sulle strutture che effettivamente mancano in questa università, ma noi siamo nati nel 68, e tutta la coscienza politica che abbiamo ce la siamo fatto leggendo libri, vedendo trasmissioni, sentendone parlare e discutere ora trovandoci di fronte al movimento siamo disorientati perché tutto ciò che sembrava molto facile, che la rivoluzione potesse essere una cosa così tangibile, in effetti ha bisogno di un organizzazione e una coscienza profondissima, non mi sono neanche stupito che a Palermo non siamo neanche riusciti ad organizzare un assemblea che poi arrivasse ad un fine. Si son trovati in 3000 studenti da tutte le parti d'Italia con chissà quante mozioni, critiche, mi sono reso conto che era ovvio che non uscisse una linea chiara da seguire e diramare in tutta Italia.
La discussione non si è incanalata solamente sulla legge Ruberti e sulle strutture, ma anche se in maniera caotica, nelle assemblee e nella mozione conclusiva abbiamo cercato di andare oltre discutendo della legge sulle tossicodipendenze, sul problema meridionale della mafia, abbiamo cercato di allargare i nostri discorsi in maniera più costruttiva".
Paolo "Io per quello che ho visto, ho fiducia che gli studenti vogliano portare avanti discorsi e contenuti che vanno aldilà dei giochi istituzionali, ed è per questo che nelle assemblee si sono votate cose allucinanti come: votare come votare. C'è un problema anche di educazione, non si sa più comunicare, parlare, discutere; è indicativo che in un gruppo di 15 persone si prenda la lista degli interventi, non c'è più di una minima capacità di controllo nel discutere, non si sa più parlare in gruppo ed è così più facile cadere nella burocratizzazione e nel grottesco e cedere quindi ad un'organizzazione".
Cesare "Finora non c'è la gestione di un certo numero di studenti che incanala e indirizza tutti gli altri. L'impossibilità e l'incapacità di discutere non è stata castrata da un gruppo dirigente, ognuno di noi ha potuto esprimersi, anche se sul fare i problemi diventano più difficili".
Paolo "Nessun gruppo ha preso l'egemonia. Bene o male gli stessi studenti lo hanno impedito e noi stessi abbiamo lavorato in tal senso, tanto che posso arrivare ad una contraddizione personale, quella di mettermi al tavolo della presidenza".
La discussione prosegue insistendo sulla necessità di allargare il movimento, sulla necessità di uscire all'esterno, sul carattere pluralistico anche nei confronti dei fascisti. Ma questo problema non esiste in quanto i fascisti stessi non hanno alcuna intenzione di far parte di questo movimento e quando parlano come a Scienze Politiche vengono letteralmente fischiati in assemblea. Si parla dell'uso dei fax come di un semplice divertimento tecnologico così come si può usare un telefono o in tempi precedenti il ciclostile.
Ci si arrabbia sul fatto che questo movimento è considerato il movimento della "scopa e della paletta", che viene caratterizzato come non violento, ci tengono a questa loro esperienza e cercano di mantenere pulito il posto che hanno occupato, fanno notare che se a Palermo gli studenti fossero sgombrati con la forza, i giornali non parlerebbero più di non violenza.
Sono stufi di essere considerati e confrontati con il movimento del '68 e del '77 , si considerano un'altra cosa completamente diversa anche se da questi movimenti passati possono trarne utili insegnamenti.
Si accenna al ruolo della donna, ruolo molto pratico e trascinante, al problema coi genitori che ad alcuni può impedire di partecipare all'occupazione ma il fatto di essere veri e propri figli del '68 porta i genitori ad atteggiamenti benevoli e di appoggio.

Roberto Gimmi

 

Movimento '90: un'indiscutibile coerenza

"Il sogno è segno" preveggeva nel maggio '88 il numero zero del mensile universitario "Ridere", in contemporanea con la rivolta di Tienanmen. Dopo circa sei mesi, si può affermare che i sogni stanno veramente lasciando il segno. Forse perché è affiorato il bisogno di sperimentare cose che sentiamo nuove e autentiche, capaci di superare lo squallore di un presente sempre più contrassegnato dalla sensazione di essere immersi in un oceano di mediocrità inquinata, caratterizzato da una diffusa mancanza di qualità. È anche un'ironica risposta a chi considera irrealistica l'utopia.
Permettetemi di sentirmi riportato alle sensazioni che provai nel sessantotto, quando mi lasciai immergere, totalmente, in quel clima ebbro di rivolta contro un presente che sentivamo troppo stretto. Non sto facendo un paragone tra due eventi distanti l'uno dall'altro circa vent'anni; il primo ampiamente concluso e l'altro in atto. Simili paragoni sono facilmente cerebrali e, quasi sicuramente, sono forzati dall'interpretazione del soggetto che li fa, al di là di un effettivo riscontro nella realtà cui vorrebbero riferirsi. Poi, in fondo, non servono a comprendere cosa sta avvenendo. Più semplicemente mi sto invece cullando perché mi illudo di rirespirare un'aria che in qualche modo mi è familiare ed ho interiorizzato.
Percepisco la medesima spinta, direi viscerale, che noi quarantenni di oggi avemmo allora ventenni a buttarci in un vaghissimo e ineffabile nuovo, patrimonio dei nostri sogni. Una spinta riscontrabile e palpabile nella ventata di occupazioni di aule universitarie, più o meno fatiscenti, che sta attraversando la penisola da più di un mese. "Vista la miseria del possibile, proviamo l'impossibile" ci suggerisce uno slogan di queste occupazioni, collegabile in modo evidente a quello sessantottino "siamo realisti, chiediamo l'impossibile". Sarà pure un fatto generazionale, o giovanilista come pretende saccentemente qualcuno, ma è veramente godibile questa ondata di critica radicale agli orientamenti governativi che, da sempre, continuano a pretendere di imporre la loro gestione del sapere, della cultura e degli eventi, senza curarsi delle masse di cui vogliono decidere la sorte, a meno che non vi siano costretti.
È riemerso il bisogno di non lasciarsi imbrogliare più di tanto, fortunatamente ricorrente nel divenire storico, diventando uno dei sensi fondanti di questo movimento studentesco del novanta, "il movanta" com'è già stato battezzato dai suoi stessi interpreti, coagulatosi attorno alla contestazione della proposta di legge Ruberti. È una rivolta, né minoritaria né d'avanguardia, contro l'opprimente cappa di piombo del cosiddetto privato e del cosiddetto pubblico, che la fanno da padroni e si stanno spartendo, a suon di leggi e di miliardi, il possesso e la gestione delle università, della scuola, dello sfruttamento, della vita. Ben venga allora, e speriamo si radicalizzi e si estenda ad altri strati sociali, questa sacrosanta ribellione, di cui ora mi rifiuto di giudicare la giustezza o la sensatezza dei contenuti. Pur avendone molta, non mi interessa parlare dell'importanza dei contenuti espressi dagli studenti in lotta, bensì della spinta e del senso che mi illudo di intravvedervi. E il senso è quello che ha sempre animato le generazioni che si ribellano in nome di una nuova qualità della vita: il rifiuto sano di essere omologati a un presente malato, che ci droga con la sua patologica cultura del dominio.
In questa ottica è giustissimo l'appellativo ironico dato al ministro Ruberti, stigmatizzato con un chiaro "rubertescu". Non tanto perché sia possibile paragonare il ministro liberal-socialista ad un macellaio bolscevico quale è stato Ceausescu. Quanto perché, con la legge di cui è l'artefice, rappresenta qui ed ora il potere dell'apparato burocratico dominante, che si unisce in un abbraccio illibertario e asfissiante al potere degli apparati capitalistici e finanziari dominanti. Anche se tra la dittatura bolscevica rumena appena abbattuta dall'insurrezione popolare e il regime parlamentare italiano le differenze sono tante e sostanziali, l'ironia dell'epiteto coglie e manifesta simbolicamente bisogno e desiderio di non essere inglobati né da apparati totalitari né da apparati burocratici o finanziari.
Appare allora oltremodo strumentale e cieca la polemica condotta in questi giorni sui quotidiani che fanno opinione, dai vari Montanelli, Bocca, Alberoni, Ronchey, Sylos Labini, i quali sostanzialmente rimproverano agli studenti occupanti di essere dei conservatori, perché rifiutano il rapporto strutturale tra l'industria e l'università, rivendicando un obsoleto e inefficiente assistenzialismo di un impossibile welfare-state. A sostegno delle loro ragioni, non assurde ma di parte, citano i vari paesi del conclamato occidente del benessere che, a loro dire, già da tempo avrebbero strutturato con successo questo rapporto tra pubblico e privato. Aggiungono poi superficialmente che le ingerenze delle potenze industriali sarebbero evitate con una buona regolamentazione legislativa, come appunto pretende la contestata legge. Ne deducono che una gestione unicamente statale impedirebbe la realizzazione di una vera e sana autonomia della cultura, come starebbero a dimostrare i decenni di inefficienza che caratterizzano la scuola italiana.
Mi sembra del tutto falso che dalle università in lotta giunga un lamento di demonizzazione dell'industria e di santificazione dello stato. Questo lo vedono le penne giornalistiche sopra citate, forse perché da decenni osservano la realtà con questa ottica, contrabbandandola poi come l'unica veritiera. Volendo ammettere che siano in buona fede, questo è il senso che danno alla realtà. Ma non è scontato che sia l'unico, perché legittimamente ne esistono altri.
Per esempio quello degli studenti in lotta, che non sposano, mi sembra, né il pubblico né il privato,
bensì sottolineano la proposizione di una gestione collettiva, volendo, più o meno consapevolmente, riportare alla società ciò che le è stato espropriato dagli apparati economici, di stato e di partito. "La cultura è della collettività", dicono. Mi sembra un po' grossolano confondere un'ipotesi collettiva con la rivendicazione di voler rimanere sotto le poco amabili braccia di mamma stato. Non è un caso che tra le richieste principali vi sia quella di una presenza deliberante degli stessi studenti all'interno degli organi decisionali dell'università. Una simile richiesta non avrebbe senso se volessero soltanto la pregnanza della burocrazia kafkiana dello stato.
Il "movanta" pone anche un'altra istanza fondamentale: una forte politicizzazione apartitica, accompagnata da una pratica di democrazia di base che rivendica come vera democrazia, contrapposta alla partitocrazia che vorrebbe omologarlo. Uno studente palermitano, durante la diretta di Samarcanda, ha detto a chiare lettere che si tratta di "un movimento fortemente politico e perciò fortemente apartitico", mentre un altro di Roma che è "non violento e veramente democratico". Questo bisogno di democrazia gestita dal basso, contrapposta a quella mistificante gerarchica e verticale in auge, è per me un chiaro bisogno di vera libertà.
Noi non possiamo sapere dove approderà questo movimento, né ci interessa tentare un'assurda previsione. Non siamo maghi. Non è da escludere che venga fagocitato, sgretolato, riassorbito. Ma non è questo il punto. È importante invece recepire che un'altra volta viene posto in modo radicale il bisogno di una diversa qualità della vita, e viene posto tentando di delegittimare gli organismi di gestione politica dominanti. Al di là di individuabili contraddizioni o insensatezze, c'è in ciò una indiscutibile coerenza, che dovrebbe riguardare da vicino tutti coloro che hanno a cuore l'emancipazione verso una libertà sociale fattiva. In particolare gli anarchici.

Andrea Papi