Rivista Anarchica Online
Aria nuova in facoltà
di AA. VV.
Questo dossier, costruito nel pieno delle agitazioni, fornisce dalla viva voce dei protagonisti, alcuni spunti sulle caratteristiche del movimento e sulle speranze degli studenti, con qualche excursus esistenziale.
Milano / Biologia: la rana rapita
E anche Milano ha
finalmente fatto sentire la sua voce: chiara, scandita, apertamente
solidale con lo spirito di una contestazione decisa e ben mirata, che
negli ultimi mesi ha risvegliato un colorito coro di proteste e ha,
come un vento caldo proveniente dal sud, riscaldato gli animi di
studenti forse un po' troppo infreddoliti dal clima di raggelante
ingiustizia e generale intorpidimento mentale caratteristico di
questa stagione.
Anch'io mi lascio facilmente
ingrigire nella noncuranza diffusa, ma se solo mi si presenta una pur
debole possibilità di colorare il mio girovagare giornaliero,
la mente si dà una veloce sferzata di vitalità e
ricomincia a sognare. Così è stato.
A Biologia, dove appunto due
anni fa ho scelto di concentrare i miei pallidi sforzi mentali, di
solito la "politica" non genera né stupore, né
indignazione, semplicemente non genera; si corre da un'aula
all'altra, da una rana all'altra nell'indifferenza più totale,
facendosi ineluttabilmente cullare dal lavoro di fondo (degno delle
termiti più incallite) degli insaziabili "cielles"
che comunque "non fanno politica, non vi preoccupate".
E invece, nonostante questo
substrato apparentemente autonomo e ovattato nella sua freddezza, gli
studenti se lo sono preso a cuore questo maledetto affare del d.d.l.
Ruberti, organizzando assemblee e occupazioni temporanee tanto
improvvisate quanto efficaci.
In effetti, a voler ben
vedere, un consistente e diffuso rigetto a un certo tipo di
"precettazione" della scienza in senso lato, deve
necessariamente esplodere in facoltà scientifiche, luogo
prediletto dai famelici PRIVATI (gli ipernominati!) per addestrare
masse di giovani menti inesperte a lavorare instancabilmente e
soffocare ogni impulso vitale con la pretesa di "scientificità":
luogo dove veder con gusto perdere gradualmente la capacità di
fermare il cervello ogni tanto per riflettere con calma e critica sul
valore e l'importanza di quello che creano (o disfano) tali giovani
menti. Mi sembra evidente che molti non ci stanno in questo disegno,
disegno molto più ampio e preoccupante di quello di legge che
è assurto a simbolo del movimento.
Ma di ciò, quelli che
stanno dall'altra parte, obesamente seduti su sudate e comode
poltrone di potere, fanno finta di non accorgersene, riducendo il
movimento che unisce difficili speranze di ogni difficile e diversa
Italia, a qualche sparuto grido di violenza o, peggio, a strumento di
una subdola politica di opposizione. Chi sa se fa loro veramente
paura, lo desidererei come massimo augurio per questo nuovo anno: di
sicuro una così accalorata espressione di insofferenza
contiene in potenza elementi fortemente destabilizzanti. Con rabbia si grida da
Palermo a Torino (con espressioni di sincera solidarietà)
contro i fantocci che giocano con i ministeri, contro quel grande
insulto all'intelligenza umana che sono i mondiali (e tutto il marcio
che ci sta attorno), contro leggi reazionarie e criminali, contro
quella volontà che da tempo mira, sotto false spoglie, a
ristabilire l'ordine, la pulizia, l'ineccepibile perfezione da
maquillage di una facciata candida e ricca, marciando sul putrefatto
cadavere della LIBERTÀ.
Questi sono gli elementi più forti e belli di questo ampio
movimento che mi danno speranze e che fanno vibrare il cemento romano
sotto il passo euforico di centomila paia di scarpe, e fanno anche
vibrare le corde vocali di migliaia di gole dagli accenti più
disparati che individualmente urlano di disgusto come esseri umani e
non come membri di partiti o leghe o qualsiasi altra identità
politico-sociale, mossi dalla paura di vedersi pian piano
privatizzare e manovrare le proprie teste in nome del mostro
progresso.
Annalisa Bertolo
P.S. A proposito di
rane... è giusto che si citi un episodio curioso di
solidarietà con questi animali anch'essi giustamente
partecipi del grande smarrimento. Giovedì 1 febbraio è
stata occupata da un ristretto gruppo di studenti di Biologia l'aula
di laboratorio di fisiologia dove da anni si fanno inutili
sperimentazioni dimostrative su animaletti vari. La protesta oltre a
bloccare lo svolgimento di tali prepotenze umane è culminata
nel ratto della rana condannata al supplizio e nella profonda
incazzatura del professore.
Torino: modi
abbastanza libertari
È
uno strano movimento questo del '90: pragmatico e al contempo
idealista, disincantato e utopista, unitario e variegato. La protesta
contro il progetto di legge sull'autonomia universitaria del ministro
socialista Antonio Ruberti partita dagli atenei palermitani si è
presto estesa a tutt'Italia. Più di cento sono le facoltà
occupate e ormai l'agitazione si è allargata ai medi ed al
personale non-docente. Tuttavia, al di là della volontà
di opporsi a quella che è stata definita la berlusconizzazione
delle università, in virtù dell'entrata di finanziatori
privati nell'amministrazione degli atenei, il movimento si presenta
assai diversificato al proprio interno. Ufficialmente apolitico il
movimento si basa su un delicato equilibrio di forze fra figiciotti,
demo-proletari, verdi, autonomi e varie altre formazioni di sinistra. Convivono al suo interno spinte
meramente corporative e tensioni genuinamente utopiche: il mito di
un'università efficiente, neutrale, indipendente e il
desiderio di atenei quali fucine per l'incontro, lo scambio, la
creazione di culture diverse.
Probabilmente, se si volesse tracciare
un profilo comune per questi ragazzi del '90 lo si potrebbe
rintracciare in una certa moderazione, con quanto di positivo e di
negativo ciò implica; se da un lato, infatti, v'è il
rifiuto di ogni schematismo ideologizzante e quindi il rispetto per
la diversità, d'altro canto, tuttavia, scarsa è la
propensione a mettere in discussione l'università in quanto
tale.
Il dato comunque più rilevante è
la volontà diffusa di essere presenti, partecipare, contare
nelle scelte. V'è un netto rifiuto della delega, dei
parlamentini, dei rappresentanti nei consigli di facoltà.
A Torino gli studenti hanno sancito che
l'unico organo legittimato a rappresentarli è l'assemblea
generale e che le decisioni vengono prese a maggioranza. Tuttavia la
democrazia diretta non è facile e la difficoltà di
fissare procedure legittime si è tradotta nell'istituzione di
una miriade di commissioni, segreterie, comitati che da strumenti
tecnici rischiano di trasformarsi in strutture separate.
La situazione degli atenei torinesi è
peraltro atipica, poiché, contrariamente a quanto avvenuto
altrove, gli occupanti hanno sinora deciso di non attuare il blocco
delle lezioni e degli esami. Accade così che chi casualmente
entra a Palazzo Nuovo, sede delle facoltà umanistiche, si
trova di fronte uno strano spettacolo: quello di due università
che convivono sia pur faticosamente nello stesso luogo. Un'università
"normale" cui accedono studenti frettolosi e indifferenti,
preoccupati unicamente dei loro appunti, esami, lauree e l'università
della pantera che affolla le assemblee, discute, organizza seminari
autogestiti. Quelli del movimento tentano di comunicare con gli
"altri" ma spesso è il muro di gomma: ostilità
e silenzio. Anche i docenti sono divisi: qualcuno
collabora con il movimento, altri minacciano denunce e serrate. In
un'aula del 1° piano un gruppo di ragazze discute di condizione
femminile, aborto, contraccezione. In una delle ultime file siede la
loro insegnante: insieme si interrogano sul silenzio che ha diviso le
femministe degli anni '70 dalle giovani che oggi sono nel movimento.
A magistero un docente di latino
prosegue imperterrito a spiegare Seneca: gli si para innanzi uno
studente in abiti da antico romano e lo interroga: "cui
prodest?". Il docente, seccato, se ne va. I presidi di lettere e
magistero si dichiararono disponibili al dialogo, purché gli
studenti che occupano la "loro" presidenza, siedono sulla
"loro" poltrona, usano il "loro" telefono,
comunicano con il "loro" fax accettino di andarsene.
Se il dialogo con l'istituzione appare
difficile se non impossibile , tra gli studenti si è creata
una nuova rete di contatti, solidarietà, amicizie.
Durante un'assemblea uno studente
dichiara: "sono iscritto qui da tre anni e in tre anni non ho
conosciuto nessuno; adesso in pochi giorni ho incontrato, parlato con
un mucchio di persone. Questo palazzo di vetro, triste ed asettico è
divenuto un luogo vivo e bello".
Ogni giorno sorgono nuove aggregazioni,
nuovi interessi: v'è anche un gruppo di studenti anarchici che
raccoglie una trentina di persone. Alcuni sono assai attivi nel
movimento, altri se ne sono tenuti ai margini. Con due di loro,
Carmelo di lingue e Piero di agraria, abbiamo avuto un lungo
colloquio di cui riportiamo qui alcuni stralci. Un aspetto che ci
interessava chiarire è la pretesa apoliticità del
movimento.
II movimento - dice
Carmelo - al di là dell'opposizione alla legge
Ruberti, si pone per lo più scopi pragmatici e la
riproposizione di schemi marxisti operata da taluni, per lo più
autonomi, ha scarsissima eco. Tuttavia è ormai ben chiaro che
la gran parte degli occupanti ha precisi riferimenti politici se non
la dichiarata appartenenza ad un'organizzazione o gruppo. Quegli
stessi che hanno premuto affinché il movimento si dichiarasse
apolitico e democratico sono l'espressione di gruppi quali la FGCI,
DP, i verdi, preoccupati di arginare l'estremismo degli autonomi. Non
è casuale che gli argomenti più discussi siano inerenti
la decisionalità e la rappresentatività del movimento.
Io, come anarchico, mi sono spesso schierato con i così detti
moderati, nonostante le decisioni a maggioranza siano contrarie ai
miei principi, poiché mi pareva l'unico modo per contrastare i
colpi di mano degli stalinisti. Sono comunque convinto che il luogo
in cui più facilmente possono affermarsi pratiche libertarie
non sia tanto l'assemblea generale ma i piccoli gruppi di facoltà,
ove tutti si conoscono e le decisioni scaturiscono dal confronto.
Domandiamo quali possibilità vi
siano di moltiplicare la presenza libertaria nel movimento.
A mio avviso - dice
Piero - vi sono delle buone prospettive. Il movimento di
agraria di cui faccio parte si esprime in modi abbastanza libertari:
il confronto è continuo e spesso al termine di un'assemblea
non v'è neanche la necessità di votare, poiché
si finisce con il raggiungere una posizione comune.
In ogni caso - aggiunge
Carmelo - noi come anarchici dovremmo riuscire ad elaborare
una critica all'università che vada al di là
dell'opposizione alla riforma Ruberti. Io con altri ho distribuito un
volantino in tal senso sul quale ho già registrato numerosi
consensi.
In tale volantino si afferma: "...è
indispensabile non solo bloccare la riforma Ruberti, ma distruggere
l'università come istituzione che crea consenso verso una
società gerarchica, spesso con la promessa di occuparne i
livelli più alti. Non basta impedire che l'università
diventi il laboratorio di Agnelli e Berlusconi, occorre che cessi di
essere il laboratorio di Andreotti, Craxi , Dianzani; che
l'università sia dello stato o dei privati, gli interessi
prevalenti sarebbero quelli del controllo e del profitto.
L'università deve diventare un laboratorio per la collettività
aperto a tutti, non un dispensario di lauree ed attestati, un momento
di creazione e diffusione di molteplici culture, non un luogo di
trasmissione del sapere istituzionalizzato. La ricerca e la
formazione non devono essere lasciate nelle mani di burocrati di
stato o di manager d'assalto, ma rapportarsi con la collettività
e le sue realtà di base come: comitati di quartiere, gruppi
spontanei di cittadini, gruppi ecologisti, etc.. L'università
non deve creare docili servi del sistema, ma permettere la formazione
di individui liberi".
Maria Matteo
Milano / Scienze politiche: un fuoco da alimentare
Rieccoli, gli universitari! Dopo anni
di silenzio sono tornati a farsi sentire. Hanno ricominciato a
discutere e a lottare, occupando decine di atenei.
È stato il progetto di riforma
dell'università del ministro Ruberti a far scattare la molla
della protesta: gli studenti vi si oppongono perché
"metterebbe i privati nella condizione di poter pilotare la
ricerca secondo gli interessi della propria politica aziendale"
e perché sottometterebbe gli studenti ai baroni (negli organi
di gestione dell'università gli studenti avrebbero solo un
potere consultivo). Più in generale, ci si batte contro
un'università concepita come "una serra dove coltivare
cervelli che producano il frutto desiderato", per una cultura
libera che valorizzi la diversità e combatta l'omologazione.
Non c'è dubbio che quanto
succede nelle università vada valutato positivamente: anche se
la protesta non coinvolge tutti gli studenti, negli atenei italiani
si sono aperti dibattiti e confronti con venature antiautoritarie che
gli studenti anarchici dovrebbero valorizzare e rafforzare,
chiarendo, per esempio, che una cultura libera non può essere
garantita dall'università di stato (come qualcuno dice).
Tra università di stato e
università "sponsorizzata" cambierebbe solo il
padrone e, in entrambi i casi, servirebbe a (ri)produrre una cultura
funzionale alla conservazione di una società basata
sull'ineguaglianza e sullo sfruttamento. Se il progetto Ruberti verrà
approvato gli studenti non perderanno la loro autonomia: non ce
l'hanno mai avuta.
È l'università nel suo
complesso che va messa in discussione, non solo una legge. E questo è
possibile perché, nonostante il tentativo dei gruppi della
sinistra moderata (vedi FGCI) di ridurre la protesta a una specie di
petizione anti-Ruberti con cui influenzare il parlamento, c'è
chi non si accontenta e vuole andare oltre. Gli spazi di discussione
aperti dalle mobilitazioni contro la riforma possono servire per
ripensare, ridefinire il nostro ruolo di studenti, che è
sempre stato quello dei contenitori da riempire di nozioni da
ripetere a memoria, acriticamente: le occupazioni e le altre forme di
protesta possono essere l'occasione per sperimentare nuovi metodi di
studio, dimostrare che gli studenti sono in grado di autogestire il
sapere e di utilizzarlo per la propria crescita. Riappropriarsi
dell'università, viverla non subirla: è l'unico modo
per cambiare davvero. Qualcuno potrebbe trovare, in quanto
detto finora un eccesso di ottimismo e avrebbe ragione: il nuovo
movimento degli studenti potrebbe sgonfiarsi, senza aver ottenuto
nulla o quasi, magari in seguito a dispute tra chi se ne contende
l'egemonia; potrebbe essere sconfitto da chi comincia a protestare
contro la sospensione dell'attività didattica, criminalizzato
da Gava che vede terroristi dappertutto...
Quello che brucia nelle università
e un fuoco di paglia? Forse, comunque va alimentato!
Marco Serio (studente/lavoratore)
Urbino: una sfida politico/esistenziale
"Quando nel sociale si sviluppa
un movimento libertario che pone serie critiche alla gestione dello
Status Quo, le forze autoritarie e politiche gli si rivolgono contro
violentemente. L'allargamento di un certo tipo di coscienza, la
possibilità di una dimensione soggettiva e collettiva che
spazi nei territori materiali e mentali da sempre negati e ostacolati
dal potere, rappresentano seri pericoli per chi occupa e gestisce i
centri di dominio. Crescete con la vostra forza e non fatevi
strumentalizzare da nessuno"... sono più o meno le parole
che una docente ha detto nell'assemblea generale studentesca
convocata ad Urbino il 26 gennaio del 1990. Da questa assemblea si è
sviluppato un movimento studentesco che al momento in cui si scrive
ha occupato LA FACOLTÀ
DI MAGISTERO (la sede centrale, l'istituto di pedagogia) LA FACOLTÀ
DI LETTERE E FILOSOFIA (l'istituto di filosofia, di lettere, di
lingue, di archeologia, di lettere classiche, tutte con dislocazione
diversa). È stata occupata' anche L'ACCADEMIA DELLE BELLE
ARTI.
Il movimento studentesco di Urbino è
nato sulla scia del movimento universitario nazionale che contesta
oramai da settimane il Progetto di legge Ruberti sull'autonomia delle
università, legge che in sintesi propone un'ulteriore forma di
razionalizzazione del rapporto tra imprenditoria ed Università
a favore di un'università messa al servizio del profitto
industriale e delle lobby politiche e burocratiche e a discapito di
quella poca e discutibile cultura umanistica e "critica"
presente nelle università.
Evitate tutta una serie di
strumentalizzazioni politiche, il movimento urbinate sta cercando di
crearsi una propria dimensione, di elaborare delle critiche sociali
che colleghino quello che sta succedendo nelle università in
un contesto più vasto. La legge Ruberti non è che una
delle sfaccettature di un progetto più globale tendente ad
accentuare in senso autoritario i rapporti sociali e di vita. Basta
pensare alla legge Jervolino-Vassalli sulle droghe, alla legge che
regolamenta il diritto di sciopero, alla regolazione del flusso
migratorio dai paesi extracomunitari, o allo pseudo dibattito
maschile che vuole rimettere in discussione, in senso reazionario,
una già discutibile legislazione in materia di aborto. Una
tendenza fin troppo chiara che esige una risposta consapevole perché
se gli anni '80 sono stati gli anni della normalizzazione, gli anni
'90 rischiano di essere gli anni del vuoto assoluto. Penso sia questa
in qualche modo l'esigenza che emerge dai vari documenti prodotti ad
Urbino: è questo il senso che anima il lavoro di Giuseppe,
studente di biologia, quando interviene nelle assemblee affermando
che la scienza non si può slegare da una dimensione
etico-filosofica per diventare un ibrido da utilizzare per la
costruzione di strumenti di morte da impiegare con profitto nelle
varie zone del mondo devastate dalla guerra. E sono chiare le parole
che aprono un documento elaborato da una nostra commissione di studio
sulla legge Ruberti e sull'istituzione del Ministero dell'Università
e della ricerca scientifica e tecnologica: "Riteniamo che il
tutto sia riconducibile ai concetti di bisogni sociali e di logica
del profitto industriale. Le leggi che andiamo a criticare si muovono
unicamente in direzione del secondo concetto, il nostro altro
privilegia il primo".
Accanto a questa dimensione critica si
sta cercando di affiancare una dimensione propositiva che vuole fare
delle nostre facoltà occupate un luogo dove si possa fare
altra cultura, un luogo dove tutte le esigenze negate trovino spazio.
Si stanno elaborando proposte di seminari e di gruppi di studio su
argomenti che vanno dalla Scuola di Francoforte, alla Bioetica, al
Situazionismo, all'Antimilitarismo, al femminismo, ecc. ecc. È sicuramente una sfida
politico-esistenziale che stiamo portando avanti nei confronti di un
potere che diventa sempre più omologante e repressivo, una
lotta non priva di contraddizioni ma con risvolti politici ed umani
veramente originali. Ad Urbino si sta lottando per non fare morire
questa possibilità.
Pasquale Ambrosino
Milano / Statale: riflessioni minime di un occupante
"Vedo la gente arare sul pendio
della collina. Sulla destra c'è gente che lavora ad una casa.
Ovunque c'è gente indaffarata e, John, non c'è luogo in
cui la gente faccia ciò che desidera". (W.B.Yeats)
Chissà se a qualcuno interessano
ancora i principi di una lotta...
Sono in questa aula magna da 9, forse
10 giorni e mi sembra sempre più un gigantesco paniere pieno a
metà di vecchie michette, con un po' di pane fresco gettato là
la mattina, poco: per ingannare i clienti.
Sono un "occupante", uno dei
più assidui probabilmente; sicuramente uno degli ingenui, che
lotta, se lotta, per dei principi, che nega l'assioma "il fine
giustifica i mezzi": semmai è vero il contrario. Ho
lavorato, sto lavorando, mi sono divertito: ho parlato per ore con
persone di cui non sapevo il nome, ho discusso fino a notte fonda. Ho
capito che noi, noi giovani non sappiamo più parlare,
confrontarci, discutere; quando in una riunione di quindici persone
c'è una lista degli interventi, vuol dire che qualcosa non va,
e non ci vuole un sociologo per capire di cosa si tratta: la
competizione è la sola dea ad uscire vittoriosa da qui. La
competizione che ti fa programmare un bel discorso mentre parlano gli
altri, che ti insegna la sottile arte di comunicare senza ascoltare,
che ti indica scorciatoie per salire. Salire dove? È
lei stessa a dirtelo, perché è lei che ti mette davanti
agli occhi il triangolo sociale, l'unico schema possibile per una
società che funzioni, quello che "qualcuno lassù
ci dovrà stare, o si sfascia tutto". E per stare lassù
si lotta, si lotta eccome: un'assemblea, una riunione, un
discorso...sono tutti corollari per l'esistenza di un parlamento di
ventenni, in cui per avere un ruolo bisogna coprire gli altri, magari
di vergogna.
Può sembrare uno sfogo il mio, e
in parte lo è; vorrei spiegare che non crollerebbe tutto se
cadesse il punto in alto, ma solo se a togliersi fosse la base (è
geometria questa); ma chi sono io per spiegare, me lo chiedo spesso.
E la risposta è che sono uno un po' scemo che solo oggi si è
accorto che nei suoi coetanei c'è un modello sociale, ben
radicato: gerarchia si chiama, per chi non lo sapesse, e non
organizzazione. Ma la gerarchia è la Giocasta della
burocrazia, sua madre e sposa; e la burocrazia è ciò
contro cui alcuni qui dentro vogliono lottare, magari perdendo
appelli d'esame, lezioni e nozioni.
Non è sfidare i mulini a vento,
come qualcuno mi ha detto in questi giorni: è lottare per dei
principi. Non si uscirà mai vittoriosi spodestando il re dal
trono, perché il trono rimarrà, qualcuno ci si siederà,
qualcuno regnerà. Per questo non mollo: non accetterò
la sfida di chi non dovrei combattere, non è nei miei
principi, e per me i principi contano ancora molto.
Non è nei miei principi nemmeno
dare lezioni, ma a tanta gente qui dentro consiglierei una sana
lettura di classici, primo fra tutti "Il processo" di F.
Kafka.
Paolo Marasca
Padova: in una fase critica
Fino a poco tempo fa, nessuno di noi
pensava che gli studenti di Padova si sarebbero mossi per qualcosa.
La cappa della normalizzazione,
l'indifferenza montata ad arte in questi anni, i fantasmi
dell'autonomia operaia, la paura di far politica, la disillusione, la
mancanza di punti di riferimento sembravano condannare quei pochi che
ancora avevano voglia di mettere in discussione valori e strutture
subiti dalla maggioranza degli studenti all'isolamento più
totale.
Eppure, sull'onda del movimento
nazionale, anche qui è scoppiata la protesta e la rabbia di
pochi è diventata la speranza di molti. Dopo assemblee di
facoltà roventi, dove si è consumato uno scontro netto
e insanabile tra i giovani di sinistra e i cattolici popolari, che
anche qui a Padova imperversano incamerando milioni su milioni e
gestendo mafiosamente i soldi di tutti, si è giunti alle
occupazioni di lettere, magistero, scienze politiche.
I motivi della protesta, in realtà,
non sono semplicemente riconducibili alla legge Ruberti sulla
"autonomia" universitaria. Dalla carenza di aule dove poter
studiare o trovarsi a discutere, agli appelli d'esame con centinaia
di iscritti, ai rapporti spersonalizzati con i docenti, alla
crescente selettività volta ad un produttivismo fine a se
stesso, alla sfiducia più totale verso gli organi di
rappresentanza studentesca, agli aumenti dei prezzi da parte di un
ente (l'ESU) con più di 15 miliardi di attivo, alle difficoltà
per gli studenti non padovani di trovare alloggi a prezzi
accessibili, al disagio e al senso di frustrazione verso un
insegnamento impartito come se fosse qualcosa di definito secondo
leggi immutabili e divine, necessariamente vere, e non invece
qualcosa da costruire, magari con il nostro contributo: motivi per
protestare ce ne sono tanti.
Noi vorremmo che l'università
diventasse un laboratorio di cultura, dove crescano menti critiche e
libere, non giovani burocrati e rampanti manager.
E questa voglia di creatività,
di partecipazione, finalmente si è liberata. Si è
liberata negli striscioni, nei colori dei manifesti, nella gioia di
stare insieme decidendo in prima persona come gestire l'università,
nella ritrovata voglia di discussione, di confronto e - perché
no - di scontro.
Il movimento qui presenta forti aspetti
libertari.
Nelle facoltà occupate ogni
decisione viene presa dall'assemblea; vi è un rifiuto totale
della delega e viene praticato il metodo della democrazia
partecipativa e diretta. Prima di ogni decisione si attua una
discussione - la cui durata dipende dall'importanza della decisione
stessa - e poi si effettua la votazione; quando non si raggiunge
l'unanimità vince la maggioranza. Le commissione tecniche di
studio formate dagli studenti per approfondire determinati aspetti
delle ricerche non hanno alcun potere decisionale: ad esse spetta il
compito di fornire la base, le fondamenta della discussione per
l'assemblea, al cui vaglio passa ogni decisione.
Sembrerebbe una vera rivoluzione
nell'università, ma bisogna esser molto cauti. Anzitutto ci sono stati imbarazzanti
problemi organizzativi. Molte giornate sono andate perdute in
discussioni interminabili per approvare statuti di regolamentazione
molto rigidi che per fortuna non vengono rispettati. Un altro
problema che si va delineando è la contrapposizione tra sfera
politica e sfera culturale, con la tendenza della prima a dominare la
seconda. Noi, invece, differenziandoci da questo schema tipicamente
marxista, vorremmo che fosse la sfera culturale a farsi portavoce di
istanze politiche, non viceversa.
Per molti degli studenti politicizzati,
poi, quella della democrazia diretta e dell'autogestione è
solo una scelta contingente, non una questione di principio. Basti
pensare alla politica della FGCI, pronta a sostenere l'autogestione
nei momenti caldi e di lotta per poi ritornare, raffreddatesi le
acque, ad un'azione filopartitica, legalitaria e riformista.
Ma ci sono altri e ben più gravi
problemi: bisogna infatti dire che il movimento rappresenta una netta
minoranza anche rispetto agli studenti delle facoltà occupate,
e per ora non sembra riuscire ad aggregare moltissime persone. È
pur vero che tanti studenti non frequentano, ma non si riesce ancora
a capire se l'indifferenza generale si potrà tramutare in
adesione o manifesto scontro. Perché di fronte ad un'eventuale
volontà della maggioranza di riprendere la normale attività
universitaria, come potremmo arrogarci il diritto di impedire le
lezioni e gli esami?
Ancora: sapremo diventare un
laboratorio di propositività e d'utopia, superando così
il primo momento di semplice contrapposizione? Come reagirà il
movimento a futuri tentativi di sgombero? Quanto peso riusciranno a
conquistarsi i loschi individui pronti a rispolverare vecchi miti
della sinistra autoritaria, leninista dogmatica e avanguardista?
Quanto riusciremo ad incidere noi con il nostro libertarismo?
Siamo in una fase critica, dove tutto è
ancora possibile. Per adesso preferiamo agire individualmente nelle
discussioni e nelle commissioni di studio, ma la rete di collegamenti
che siamo riusciti a creare porterà probabilmente alla
costituzione di un gruppo anarchico a Padova, che si andrà ad
affiancare all'altro gruppo libertario, il Laboratorio di ricerche
sociali, che ha promosso l'occupazione di scienze politiche.
Francesco, Roberto, Antonio, Stefano
Milano / Ingegneria: dibattito in movimento
Livio - Siamo qui per far luce
sul pregiudizio diffuso di incompatibilità tra lo studio di
ingegneria e la maturazione di idee libere .
Alessandra L. - L'etimologia
stessa della parola "tecnica" deriva del termine greco
TECHNE, che se originariamente significava ARTE, nella Grecia
classica viene ad assumere una sfumatura diversa: tant'è che
l'uomo TECHNIKOS rappresentava la figura dell'ingegnere.
Livio - Infatti per riuscire a
superare tale pregiudizio è necessario rivedere il concetto
stesso di TECNICA, mettendo in evidenza come sia sostanzialmente uno
strumento per incidere sul reale.
Dario - Il recupero di questo
concetto è importante per il fatto che ora la tecnica è
vista esclusivamente come specializzazione, mentre alle materie
umanistiche è affidato il compito di guardare ai fini di
questo strumento. Questa spaccatura porta a un imbuto, nel senso che
aumenta la separazione, necessaria al sistema, tra chi conosce i
mezzi e chi i fini.
Livio - Questo è frutto
della struttura odierna dell'Università, non più
considerata come luogo di produzione e scambio di cultura, ma come
luogo di trasmissione unilaterale della stessa, il pregiudizio di cui
si è parlato è in fondo comprensibile se si considera
la situazione qua dentro; se si considera che questa è un po'
una prigione tecnocratica, visto che quello che si insegna è
l'uso della tecnologia come strumento di dominio. Si può però
fare piazza pulita di questo pregiudizio alla luce delle teorie
suggerite dall'ecologia sociale, vedendo come il problema ecologico
sia sostanzialmente un problema di dominio dell'uomo sull'uomo.
Alessandra L. - Homo homini
lupus.
Dario - È giusto quindi
che ci sia un giudizio etico sul modo in cui vengono insegnate le
cose, sull'educazione che dicevi, ma non deve trasformarsi in
pregiudizio sugli studenti, perché proprio questo favorisce
l'aumento di indifferenza globale che è il male peggiore che
ci sta intorno. In realtà è proprio da questo ambito
che nasce la possibilità di ripensare in modo nuovo al
concetto di tecnica, mezzo indispensabile per poter costruire i
fondamenti di una società ecologica.
Fabio - ...ma tu pensi che ci
sia davvero questa possibilità di non integrarsi quando esci
dall'università e vai a fare l'ingegnere. Io lo so già
che non lo faccio l'ingegnere.
Livio - Questa è un po'
la conseguenza della prigione tecnocratica. Se parliamo di riforma
Ruberti poi... dove ci porterà?
Dario - Al modello americano.
Livio - Sì, a rendere le
sbarre ancora più fitte...
Dario - È questo
l'inquadramento educativo, è un concetto importante, che verrà
dato come presupposto dopo, nell'ambito del lavoro. Il fatto che
siamo qui prova che può non essere vero.
Franco - Un movimento
alternativo, o anche un solo embrione qua ad ingegneria del
Politecnico di Milano può fare paura, può rompere gli
schemi più consolidati
Fabio - Ma ci sono gli spazi di
manovra perché l'ingegnere si trovi a fare cose diverse da
quelle per cui è stato fabbricato?
Dario - Sì, secondo me ci
sono dei punti di fuga; le stesse tecniche moderne alla loro nascita
non sono totalmente controllate: se infatti c'è qualcuno che
le conosce e nello stesso tempo ha la mente aperta può
rivoltarle a fini liberi: se diventano armi è perché le
lasciamo diventare con la nostra mente. Ci sono addirittura spazi di
conoscenza enormi e aperti come l'intelligenza artificiale che
possono dimostrare (così come l'antropologia) che la mentalità
simbolica gerarchizzata è un'enorme forzatura. Oppure le
tecniche di decentramento energetico e informatico che possono
dimostrare la reale possibilità di cambiare il sistema senza
fuggire in un mistico ritorno alle origini pretecnologiche.
Fabio - Sì, va bene i
grandi discorsi, poi però devi andare a fare l'ingegnere da
qualche parte, ti devi confrontare con la bruta realtà...
Dario - La bruta realtà
ce l'abbiamo davanti già qui dal primo anno, è evidente
la somiglianza con una fabbrica di cui noi siamo i prodotti, non
abbiamo l'illusione che sia una parentesi dopo di che c'è lo
scontro, l'illusione che si nutre più facilmente nelle facoltà
più vicine a quell'ideale di "luogo universitario".
Franco - Forse questa è
la differenza tra facoltà scientifiche e umanistiche: in
quelle umanistiche c'è un primo periodo in cui uno spazia con
la mente, sei ancora indipendente, nel momento in cui ti laurei
cambia tutto: mentre qui già subito l'accento è
sull'acquisire un modo di ragionare o comunque di entrare a far parte
di questa grossa macchina. Per cui ha già rinunciato a
qualsiasi velleità e userà il bastone come gli hanno
insegnato. La carota, invece, nascerà (anzi è già
nata) con l'ecoingegneria (Monteco, gruppo Ferruzzi...).
Livio - La scienza è
neutrale mentre la tecnologia può essere una potente arma di
dominio della realtà. Abbiamo la possibilità di
elaborare una tecnologia alternativa.
Franco - La tecnologia è
neutrale allora, mentre il modo con cui vengono usati questi
strumenti è da colpevolizzare, cioè i fini della
ricerca dati dalla scienza.
Livio - Rispetto alla scienza la
tecnologia è lo strumento, gli attrezzi, e quindi si vede
subito se è buona o cattiva, mentre la scienza, la ricerca di
per sé è neutrale...
Franco - ... oppure a monte sia
della tecnologia sia della scienza ci sono determinati atteggiamenti
scientifici già di per sé antiumanistici.
Dario - Anche in questo non
dovremmo avere alla luce della evidenza l'illusione che la scienza
sia neutrale, un conoscere per conoscere, al di sopra della reale
incidenza sul mondo. Si conosce per fare.
Franco - Se comunque il fisico
si illudeva di essere indipendente e neutrale, con la legge Ruberti
non si illude più, dato che vedrebbe subito finalizzata la sua
ricerca.
Livio - La deculturizzazione e
la privatizzazione vanno insieme in questo momento, questo va detto,
le restrizioni che vogliono far passare qui (numero chiuso,
catenaccio , riduzione degli appelli, semestralizzazione) con la
logica della specializzazione e della selezione vanno di pari passo
con la privatizzazione e le ingerenze delle corporazioni.
Franco - ..verso il modello
americano dove le università sono di élite e
l'ignoranza di fondo, l'analfabetismo sono diffusissimi.
Livio - Comunque ritagliarci un
ghetto dorato, una professionalità conciliabile con le nostre
idee è in fondo una ricerca sbagliata.
Dario - Dobbiamo crearlo noi
invece, o anche soltanto recuperare, dato che vediamo come è
degenerata la tecnica, il filo che c'è di fianco: una tecnica
direttamente collegata al fine etico. Che si possa creare una società
diversa in questo modo è una cosa a cui non crede nessuno
perché rimane ancora troppo forte l'idea che progresso e
tecnologia siano da un lato, mentre rinuncia e scarsità
dall'altro.
Livio - È innegabile però
che la tecnologia sia uno strumento di progresso, sia progresso come
vorremmo intenderlo noi sia come aumento del dominio.
Franco - Però allora
bisogna ridefinire anche l'idea di progresso visto che il progresso
delle centrali nucleari è in realtà un regresso. Il
vero progresso è la possibilità di andare avanti.
Dario - Ed è una
ridefinizione che si può fondare sull'idea di evoluzione
naturale-culturale-sociale, ed in questa ottica può essere
compreso pienamente.
Alessandra B. - Però
intanto il progresso va fermato; io posso avere i mezzi, le capacità
per recuperare quello che stanno distruggendo, ma se di fianco
moltiplicano le fabbriche non serve a niente, combatto contro i
mulini a vento.
Franco - Infatti la prima
debolezza è proprio il sentirsi isolati.
Dario - Già combattere
contro i mulini a vento serve per dimostrare che si può
collegare i mezzi ai fini, combattere quella spaccatura tra
tecnologia e mistica...
(a cura di Dario Sabbadini)
Palermo / Scienze politiche: la primavera inizia adesso
In una città difficile come
Palermo, le facoltà occupate rappresentano un momento di
crescita individuale e collettiva che da tempo non si vedeva in
questa città. Una città dove lo strapotere mafioso e la
militarizzazione statale rappresentano entità ben presenti nel
tessuto sociale cittadino. Una città dove fare politica
significa appartenere a determinati schieramenti e dove "false
primavere" condizionano ed ipotecano i destini dei movimenti
cittadini, dove costruire spazi di libertà non omologabili e
antagonisti risulta estremamente difficile.
È
in questo panorama estremamente impervio che nasce e si sviluppa la
rivolta studentesca che infiamma gli atenei italiani. Finalmente un
qualcosa rompe con la logica degli schieramenti precostituiti, con le
anomalie e con le primavere calate dall'alto.
La primavera, quella vera, inizia
adesso, sì! adesso si è veramente sviluppato un
movimento dal basso, che rifiuta deleghe e vuole contare e decidere
in prima persona.
In una delle tante facoltà
occupate, si legge su di uno striscione "occupiamo gli spazi,
liberiamo le coscienze". Sì, questa occupazione - piaccia
o no - libera, alla faccia di tutti quelli che in questa città,
tra bacchettoni, benpensanti e pentiti di turno (sono tanti i pentiti
in questa città), ritenevano immutabile qualsiasi scenario di
vita cittadina.
Ci siamo presi l'università che
da molto tempo c'è stata negata, ci siamo ripresi un momento
della nostra esistenza e lo vogliamo vivere senza mediazione alcuna.
Ma tutto ciò non è facile: c'è già chi
sta lavorando per recuperarci, per addomesticarci, e c'è chi
ci vorrebbe annientare, perché noi siamo le loro cattive
coscienze: le cattive coscienze di tutti coloro che da sempre
perpetuano e riproducono lo stato attuale dei fatti.
Lo scontro è duro, ma vale la
pena scontrarsi. Le occupazioni che durano ormai da più di 60
giorni rappresentano un importante momento di azione diretta, che si
sviluppa attraverso la pratica dell'autogestione: seminari
autogestiti, didattica alternativa, lezioni gestite in prima persona
da studenti, docenti e ricercatori e da tutti quelli che simpatizzano
per il Movimento dimostrano che è possibile gestire la cultura
ed il sapere in modo diverso, in modo critico e alternativo.
Colori, sì, tanti colori che
modificano e riscrivono la struttura e la memoria dei luoghi fisici,
che prima sentivi come estranei e spersonalizzanti, che adesso
diventano parte di te stesso.
La voglia di essere e di contare
l'abbiamo ribadita ancora una volta con più rabbia e con più
forza, quando il ceto politico di sempre cercava senza riuscirci di
definire l'Assemblea Nazionale (tenutasi a fine gennaio a Palermo) a
sua immagine e somiglianza. D'ora in poi bisognerà
consolidare e diffondere le pratiche di autogestione e rifiuto della
delega, perché solo queste garantiscono la vitalità e
la corrosività del movimento.
Ci criminalizzano perché
vogliamo conoscere la storia del nostro paese senza le tante veline
che da sempre ci propinano.
Sì, siamo tutti terroristi
perché vi abbiamo terrorizzato con la nostra creatività,
la nostra gioia, con il rifiuto di qualsiasi mediazione e con la
nostra volontà di autogestione e tutto ciò vi
terrorizza, lo vogliate o no.
Qualche cosa si è rimessa in
cammino e, al di là di come finirà, il vostro futuro lo
stiamo già rovesciando.
Antonio Rampolla
Milano / Lettere: il movimento è tutto
I colori dell'occupazione riempiono in
fretta l'aula magna troppo austera della Statale. Per me è la
prima volta, e per una causa davvero giusta. Il movimento fiorisce
nei prati grigi delle metropoli universitarie e ricopre i muri.
La cosa più bella: le porte
sempre aperte a dire avanti che ci siamo, ad aspettarci per fare
insieme mille piccole rivoluzioni, un cartellone, una riunione della
commissione didattica, una ripulita, una colletta. Ci manca qualcosa
per essere davvero quelli del novanta, a noi di via Festa del
Perdono: un telefono e soprattutto il fax; l'occupazione della
presidenza però provoca il blocco della didattica senza
metterci in possesso degli agognati strumenti di rivolta; ci
chiediamo tutti dove sono i famosi cinque fax della facoltà.
In sala fax... Il brivido di sentire due squilli e veder spuntare
fuori la carta ancora calda con le intestazioni più strane e i
messaggi più disparati, non ci è riservato. Ma
campeggia, in mancanza d'altro, in alto sul palco, un contestato
striscione. Fax ergo sum, in eleganti lettere nere, ed un gentile
adattamento che suona così: "fuck ergo sudo".
Ebbene sì, il movimento è
anche blasfemo. Il movimento è tutto. In una settimana di
occupazione ho conosciuto più gente che in un anno di
università, e i rapporti si fanno amichevoli e ammiccanti e
importanti e litigiosi e discorsivi ad ogni incontro degli occhi.
Perché siamo in tanti, e davvero uno all'altro differente.
I muri sono tappezzati di fogli e
messaggi, i disegni raccontano le angosce, i cartelloni denunciano le
quotidiane angherie che l'università del potere, pure male
organizzata, ci fa subire senza che nulla sia possibile fare per
ribellarsi: ma anche traboccano di speranze per un mondo diverso da
quello in cui siamo cresciuti. E se Pasolini scriveva nel 1975 che
c'è una colpa dei padri che devono pagare i figli (ed essa è
l'accettazione, tanto più colpevole quanto più
inconsapevole, della violenza degradante e dei veri, immensi genocidi
del nuovo fascismo, cioè il capitalismo), in questi giorni ho
incontrato tanti visi che non sono disposti, ancora una volta, a
diventare i burattini di padri senza cuore, che tengono tutto il
mondo tra le dita. E dentro alle parole, ai discorsi delle tante
assemblee, alle discussioni che la vita sociale sviluppa
inesorabilmente non c'è solo rabbia, ma pure una gran
decisione, la voglia bella di non lasciare che tutto finisca. La
voglia che la sera passi senza televisione.
Nessuno capisce quello che vogliamo e
in tanti sono davvero stupiti, perché si crede che la nostra
generazione cresciuta al calduccio degli anni ottanta abbia tutto tra
le mani. Proprio non è chiaro ciò su cui ci stiamo
lamentando; e, in mancanza d'occhi per vedere, s'usa la memoria per
spiegare, risalendo ad anni che non sono i nostri. Ma più
ancora di prima oggi noi dobbiamo lottare, perché la Ruberti
non passi, perché, quando tra vent'anni saremo noi dall'altra
parte, le cose siano diverse.
Io mi sento intorno un'aria di rispetto
e tolleranza che permette davvero a tutti di parlare e proporre,
sento la voglia di coinvolgere ogni persona che passa, fermando il
mondo, scendendo per guardarlo da fuori. A Scienze Politiche capeggia
una riflessione di Gramsci sugli indifferenti, e sono in tanti ad
arrestarsi e perdere qualche minuto del tempo, che sembra sempre così
prezioso, per leggere che non bisogna stare dietro ai vetri o
lasciare che sia.
Forse hanno ragione i giornali a dire
che siamo terroristi: parliamo di rivoluzione, di lotta, facciamo
nostre cause lontane di gente oppressa; siamo per una cultura
multicolore, democratica, libera, positiva e vogliamo costruirla noi,
con le nostre mani, coi nostri cervelli; e lasciamo parlare chiunque
abbia qualcosa da dire, e lo ascoltiamo; e dormiamo per terra e
mangiamo poco e facciamo le feste nell'aula magna liberata; siamo un
movimento e dentro, a fare la nostra forza e la debolezza assieme è
il crogiolo di "minoranze etniche" a cui la nostra
difformità con tutto ciò che esiste dà luogo.
Abbiamo la musica e facciamo la musica.
Abbiamo l'amore e facciamo l'amore. Vogliamo i professori dalla
nostra parte. Parliamo con gli studenti di Praga e accogliamo con
gioia le notizie di agitazioni universitarie a Londra, Berlino,
Atene.
All'entrata dell'aula magna, la
commissione creativa ha appeso un enorme quadro, fatto di giornali,
pennelli e carta colorata. Sopra si legge a grandi lettere "fiorisce
il movimento". Noi tutti speriamo che esploda in una primavera
folle e splendida con l'arrivo di Marzo.
Francesca Tondi
Milano / Statale: non solo "scopa e paletta"
Venerdì 2 febbraio ore 21.30
entro nell'Università Statale, l'atrio è deserto, i
muri sono ricoperti da manifesti scritti a mano. Nell'aula magna si
nota subito uno striscione con la scritta "FAX ERGO SUM",
gli studenti presenti non sono molti, qualche gruppetto sparso che
parlano tra loro.
Mi avvicino, riconosco due nostri
compagni e con loro ci sono gli studenti che probabilmente devo
intervistare. Sì, sono proprio loro: Sara, 21 anni, Filosofia;
Paolo, 22 anni, Lettere; Alberto, 2l anni, Filosofia; Cesare, 20
anni, Filosofia. Decidiamo di spostarci in una delle aule occupate
per poter parlare più tranquillamente.
Sara inizia a raccontare come si
è arrivati all'occupazione dell'Aula Magna. Racconta che tutto
ha avuto inizio (a Milano) in un assemblea della facoltà di
Veterinaria, qui si decise di lasciare l'iniziativa alle singole
facoltà. Così a Filosofia venne organizzata
un'assemblea a cui parteciparono circa 500 persone. In questa
assemblea si organizzarono quattro commissioni di lavoro: sulla
didattica, sullo studio della legge Ruberti, sul come organizzarsi,
sul diritto allo studio. Nel giro di tre giorni veniva organizzata
un'assemblea cittadina nell'Aula Magna della Statale che veniva
concessa dal Rettore. "L'assemblea si dimostrò
ingestibile, poiché ci fu un'invasione dei Cattolici Popolari,
continua Sara, l'assemblea veniva quindi aggiornata specificando che
avrebbero potuto partecipare solo gli scritti alla Statale
presentando il libretto universitario in quanto si temeva l'invasione
di studenti della Cattolica e della Bocconi. L'assemblea durò
circa 7 ore e venne deciso di mantenerla permanente come collegamento
fra le facoltà milanesi. Questa occupazione creò un
contrasto tra chi voleva continuare l'occupazione e chi sosteneva che
l'assemblea non si era pronunciata in merito. L'occupazione comunque
continuava e in un'assemblea successiva veniva deciso non solo di
continuare l'occupazione ma anche di occupare la presidenza e tre
aule. L'occupazione della presidenza avvenne in maniera movimentata
in quanto i docenti si barricarono dentro. Il risultato fu il blocco
dell'attività didattica da parte dei docenti. Consapevoli
della necessità di coinvolgere altri studenti, che il blocco
delle attività avrebbe impedito, venne deciso di sgombrare la
presidenza anche perché le decisioni assembleari avevano
stabilito che l'occupazione non doveva minare lo svolgersi
dell'attività didattica.
Che ruolo personale avete avuto
nell'occupazione? (nel frattempo nell'auletta del nostro
incontro/ intervista sono entrati altri studenti e compagni, s'è
trasformata in una riunione informale).
Paolo "Il nostro ruolo è
cambiato nel tempo, perché all'inizio quando le commissioni
non erano ancora state stabilite per organizzare le cose abbiamo
lavorato insieme a pochi altri. Una volta stabilite le commissioni,
personalmente ne sono rimasto fuori, ero sempre in giro a fare
banchetti ed ho scoperto una sera di far parte della commissione
informazione e rapporti con gli studenti". Alberto "Ho
iniziato a lavorare nella commissione stampa più o meno sin
dall'inizio anche se i ruoli non erano ben definiti. Con i banchetti
diffondiamo il testo della legge Ruberti e le mozioni dell'assemblea,
ogni mattina facciamo la rassegna stampa ritagliando dai giornali gli
articoli che ci riguardano e li attacchiamo fuori dall'Aula Magna".
Alberto continua dicendo che dopo aver
disoccupato la presidenza ci fu un attimo di sbandamento psicologico
e disorganizzativo in quanto i membri della commissione erano
favorevoli a continuarla.
"...abbiamo deciso di ritornare
nelle commissioni affinché i più politicizzati e i vari
appartenenti ai partitini non prendessero il predominio della
situazione. Siamo tornati dentro un po' per controllare i lavori un
po' perché ormai era stupido perdere altro tempo e
l'occasione...". La distribuzione della legge Ruberti
trovava gli studenti molto interessati.
Infatti Alberto aggiunge che le copie
sono andate a ruba, "Ma pur essendo interessati, vengono e ci
dicono - Mi raccomando andate avanti - poi se ne vanno a casa".
Dopo una settimana di occupazione il gruppo iniziale si è più
o meno allargato, sono circa un centinaio che si alternano anche a
dormire in Università.
Cesare "Io mi son sempre
rifiutato di avere un ruolo ben definito in questo movimento perché
ho sempre rifiutato il concetto di fissarsi in un posto, il mio ruolo
è stato quello di privilegiare, nei confronti della
burocratizzazione e dell'organizzazione eccessiva di alcuni,
l'iniziativa del singolo, ho invitato gli altri studenti a fermarsi
nell'Aula Magna per lavorare insieme, prendendoci tutte le
responsabilità delle nostre decisioni senza pretendere di
rappresentare Assemblee degli Studenti.
Ho sempre deciso di rapportarmi non
come assemblea, né come Nucleo Studenti Lettere ma come Cesare
che cerca di fare un certo tipo di iniziativa, che porta avanti con
chi si trova d'accordo senza disperdere o accavallare le iniziative.
Sono stato al di fuori delle commissioni pensando a dei punti che
potessero coinvolgere e interessare propositivamente gli altri.
L'obiettivo è quello di discutere, comunicare, proporre idee
senza pensare ad un'ideologia di movimento, l'unico obiettivo comune
dovrebbe essere la libertà di ciascuno di esprimersi
all'interno dell' università.
Sara "Io ho scelto di
lavorare nelle commissioni, non mi ci sono trovata per caso, penso
che nonostante le divisioni e contrapposizioni anche forti che
possono esserci, ritengo utile andare avanti insieme trovando gli
elementi comuni su cui lavorare... perché se c'è
dibattito c'è crescita se non c'è dibattito c'è
stasi, questa è la forza del nostro movimento e queste sono le
motivazioni che mi spingono ad andare avanti".
Parliamo sulla legge Ruberti e il
concetto essenziale è che si contesta la legge in sé,
non alcuni articoli di essa, in quanto introduce in maniera furba i
privati nell'università senza alcun vincolo da parte loro, non
c'è niente che permetta una regolamentazione dell'intervento
privato. Il discorso di abrogazione completa della legge coinvolge
l'istituzione universitaria in quanto tale che vede lo studente solo
come soggetto passivo.
Il problema a loro parere non è
di scegliere il privato o lo Stato ma di coinvolgere gli studenti
nelle decisioni che li riguardano di prenderne coscienza
riappropriandosi di un atteggiamento attivo e propositivo dimostrando
che gli studenti possano imparare ad autogestirsi anche le singole
lezioni e i programmi di esame.
Com'è il vostro rapporto con
i docenti?
Cesare "È molto
difficile perché la maggior parte dei docenti di questa
università è contraria a questa contestazione per due
motivi primo perché la legge Ruberti in se stessa li
favorisce, secondo perché non accettano un dialogo con noi in
quanto a mio parere non hanno mai avuto la concezione dell'università
come luogo per creare una cultura e trasmetterla affinché gli
studenti da soli possano collaborare e costruire un loro modo di
vedere e pensare. Prendono posizione molto dure e decise come quando
si è occupata la presidenza, quando si è toccato
simbolicamente un luogo gestito da loro... il nostro discorso Signori
Docenti è che voi siete in università per permetterci
di capire come si utilizzano certi strumenti per poi noi creare la
nostra cultura, il nostro modo di essere.
Alberto "Parlando con
alcuni docenti del consiglio di Facoltà, risulta che non
esiste una spaccatura fra di loro come negli anni 70, però i
più moderati ci hanno lanciato l'avviso di continuare perché
i più reazionari si sono rifatti vivi, per riaffermare la loro
linea di autoritarismo contro gli studenti. Quindi se noi riuscissimo
ad allargarci ad uscire dall'aula Magna ormai ghettizzata, a occupare
nuovi spazi nevralgici, scatterebbe secondo il messaggio di questi
docenti una presa di posizione netta che creerebbe una spaccatura
anche tra di loro e si verrebbe così a creare una vera e
propria controparte". Il discorso prosegue sui professori di
sinistra che oggi, specie a lettere e filosofia, hanno avuto cattedre
e sono diventati assistenti, e nonostante molti di loro abbiano
partecipato al movimento studentesco del '68, oggi non prendono
posizione e contrastano duramente il movimento, come il prof.
Rambaldi che ha addirittura cacciato dai colloqui gli studenti perché
arrabbiato con il movimento.
Ci sono naturalmente le dovute
eccezioni di chi si è già schierato con gli studenti ed
addirittura ha fatto lezione sul movimento. A scienze politiche
(secondo Tiziana , 20 anni) la situazione è un po'
diversa, i docenti hanno preso posizioni più chiare nei
confronti del movimento, hanno partecipato alle assemblee
solidarizzando e riportando le loro esperienze passate. L'intervista
man mano che si procede perde completamente di significato e si
trasforma in un vero e proprio dibattito, l'auletta occupata è
ormai una vera e propria riunione sul movimento.
Viene messo in evidenza il fatto che i
docenti della Sinistra istituzionale contrastano gli studenti, mentre
la stampa continua a parlare di un movimento influenzato dalla FGCI
su linee democratiche, un movimento politico, pacifico che vuole
studiare. Così come vengono messi in evidenza i tentativi da
parte dei partiti costituzionali giovanili di egemonizzare e
strumentalizzare il movimento, ma la contestazione alla legge non
rimane legata alle influenze del PCI, infatti bisogna tener conto che
Luigi Berlinguer è collaboratore di Ruberti. Il movimento di
oggi lo si vede legato alle tematiche del movimento dell'85, alle
assemblee c'è più un malessere diffuso, che non ha
contenuti, che esprime delle condanne, più che un progetto di
trasformazione.
Alberto "Mi considero un
esterno al movimento dell'85, nel senso che vi ho partecipato pur
restandone un po' al di fuori. Questo movimento non ha le prerogative
del discorso sulle strutture che invece ha caratterizzato e fatto
morire l'85. C'è il rischio che dalla legge Ruberti ci si
possa arenare sulle strutture che effettivamente mancano in questa
università, ma noi siamo nati nel 68, e tutta la coscienza
politica che abbiamo ce la siamo fatto leggendo libri, vedendo
trasmissioni, sentendone parlare e discutere ora trovandoci di fronte
al movimento siamo disorientati perché tutto ciò che
sembrava molto facile, che la rivoluzione potesse essere una cosa
così tangibile, in effetti ha bisogno di un organizzazione e
una coscienza profondissima, non mi sono neanche stupito che a
Palermo non siamo neanche riusciti ad organizzare un assemblea che
poi arrivasse ad un fine. Si son trovati in 3000 studenti da tutte le
parti d'Italia con chissà quante mozioni, critiche, mi sono
reso conto che era ovvio che non uscisse una linea chiara da seguire
e diramare in tutta Italia.
La discussione non si è
incanalata solamente sulla legge Ruberti e sulle strutture, ma anche
se in maniera caotica, nelle assemblee e nella mozione conclusiva
abbiamo cercato di andare oltre discutendo della legge sulle
tossicodipendenze, sul problema meridionale della mafia, abbiamo
cercato di allargare i nostri discorsi in maniera più
costruttiva".
Paolo "Io per quello che ho
visto, ho fiducia che gli studenti vogliano portare avanti discorsi e
contenuti che vanno aldilà dei giochi istituzionali, ed è
per questo che nelle assemblee si sono votate cose allucinanti come:
votare come votare. C'è un problema anche di educazione, non
si sa più comunicare, parlare, discutere; è indicativo
che in un gruppo di 15 persone si prenda la lista degli interventi,
non c'è più di una minima capacità di controllo
nel discutere, non si sa più parlare in gruppo ed è
così più facile cadere nella burocratizzazione e nel
grottesco e cedere quindi ad un'organizzazione".
Cesare "Finora non c'è
la gestione di un certo numero di studenti che incanala e indirizza
tutti gli altri. L'impossibilità e l'incapacità di
discutere non è stata castrata da un gruppo dirigente, ognuno
di noi ha potuto esprimersi, anche se sul fare i problemi diventano
più difficili".
Paolo "Nessun gruppo ha
preso l'egemonia. Bene o male gli stessi studenti lo hanno impedito e
noi stessi abbiamo lavorato in tal senso, tanto che posso arrivare ad
una contraddizione personale, quella di mettermi al tavolo della
presidenza". La discussione prosegue insistendo
sulla necessità di allargare il movimento, sulla necessità
di uscire all'esterno, sul carattere pluralistico anche nei confronti
dei fascisti. Ma questo problema non esiste in quanto i fascisti
stessi non hanno alcuna intenzione di far parte di questo movimento e
quando parlano come a Scienze Politiche vengono letteralmente
fischiati in assemblea. Si parla dell'uso dei fax come di un semplice
divertimento tecnologico così come si può usare un
telefono o in tempi precedenti il ciclostile.
Ci si arrabbia sul fatto che questo
movimento è considerato il movimento della "scopa e della
paletta", che viene caratterizzato come non violento, ci tengono
a questa loro esperienza e cercano di mantenere pulito il posto che
hanno occupato, fanno notare che se a Palermo gli studenti fossero
sgombrati con la forza, i giornali non parlerebbero più di non
violenza.
Sono stufi di essere considerati e
confrontati con il movimento del '68 e del '77 , si considerano
un'altra cosa completamente diversa anche se da questi movimenti
passati possono trarne utili insegnamenti.
Si accenna al ruolo della donna, ruolo
molto pratico e trascinante, al problema coi genitori che ad alcuni
può impedire di partecipare all'occupazione ma il fatto di
essere veri e propri figli del '68 porta i genitori ad atteggiamenti
benevoli e di appoggio.
Roberto Gimmi
Movimento '90: un'indiscutibile coerenza
"Il sogno è segno"
preveggeva nel maggio '88 il numero zero del mensile universitario
"Ridere", in contemporanea con la rivolta di Tienanmen.
Dopo circa sei mesi, si può affermare che i sogni stanno
veramente lasciando il segno. Forse perché è affiorato
il bisogno di sperimentare cose che sentiamo nuove e autentiche,
capaci di superare lo squallore di un presente sempre più
contrassegnato dalla sensazione di essere immersi in un oceano di
mediocrità inquinata, caratterizzato da una diffusa mancanza
di qualità. È
anche un'ironica risposta a chi considera irrealistica l'utopia. Permettetemi di sentirmi riportato
alle sensazioni che provai nel sessantotto, quando mi lasciai
immergere, totalmente, in quel clima ebbro di rivolta contro un
presente che sentivamo troppo stretto. Non sto facendo un paragone
tra due eventi distanti l'uno dall'altro circa vent'anni; il primo
ampiamente concluso e l'altro in atto. Simili paragoni sono
facilmente cerebrali e, quasi sicuramente, sono forzati
dall'interpretazione del soggetto che li fa, al di là di un
effettivo riscontro nella realtà cui vorrebbero riferirsi.
Poi, in fondo, non servono a comprendere cosa sta avvenendo. Più
semplicemente mi sto invece cullando perché mi illudo di
rirespirare un'aria che in qualche modo mi è familiare ed ho
interiorizzato.
Percepisco la medesima spinta, direi
viscerale, che noi quarantenni di oggi avemmo allora ventenni a
buttarci in un vaghissimo e ineffabile nuovo, patrimonio dei nostri
sogni. Una spinta riscontrabile e palpabile nella ventata di
occupazioni di aule universitarie, più o meno fatiscenti, che
sta attraversando la penisola da più di un mese. "Vista
la miseria del possibile, proviamo l'impossibile" ci suggerisce
uno slogan di queste occupazioni, collegabile in modo evidente a
quello sessantottino "siamo realisti, chiediamo l'impossibile".
Sarà pure un fatto generazionale, o giovanilista come pretende
saccentemente qualcuno, ma è veramente godibile questa ondata
di critica radicale agli orientamenti governativi che, da sempre,
continuano a pretendere di imporre la loro gestione del sapere, della
cultura e degli eventi, senza curarsi delle masse di cui vogliono
decidere la sorte, a meno che non vi siano costretti.
È riemerso il bisogno di non
lasciarsi imbrogliare più di tanto, fortunatamente ricorrente
nel divenire storico, diventando uno dei sensi fondanti di questo
movimento studentesco del novanta, "il movanta" com'è
già stato battezzato dai suoi stessi interpreti, coagulatosi
attorno alla contestazione della proposta di legge Ruberti. È
una rivolta, né minoritaria né d'avanguardia, contro
l'opprimente cappa di piombo del cosiddetto privato e del cosiddetto
pubblico, che la fanno da padroni e si stanno spartendo, a suon di
leggi e di miliardi, il possesso e la gestione delle università,
della scuola, dello sfruttamento, della vita. Ben venga allora, e
speriamo si radicalizzi e si estenda ad altri strati sociali, questa
sacrosanta ribellione, di cui ora mi rifiuto di giudicare la
giustezza o la sensatezza dei contenuti. Pur avendone molta, non mi
interessa parlare dell'importanza dei contenuti espressi dagli
studenti in lotta, bensì della spinta e del senso che mi
illudo di intravvedervi. E il senso è quello che ha sempre
animato le generazioni che si ribellano in nome di una nuova qualità
della vita: il rifiuto sano di essere omologati a un presente malato,
che ci droga con la sua patologica cultura del dominio.
In questa ottica è giustissimo
l'appellativo ironico dato al ministro Ruberti, stigmatizzato con un
chiaro "rubertescu". Non tanto perché sia possibile
paragonare il ministro liberal-socialista ad un macellaio bolscevico
quale è stato Ceausescu. Quanto perché, con la legge di
cui è l'artefice, rappresenta qui ed ora il potere
dell'apparato burocratico dominante, che si unisce in un abbraccio
illibertario e asfissiante al potere degli apparati capitalistici e
finanziari dominanti. Anche se tra la dittatura bolscevica rumena
appena abbattuta dall'insurrezione popolare e il regime parlamentare
italiano le differenze sono tante e sostanziali, l'ironia
dell'epiteto coglie e manifesta simbolicamente bisogno e desiderio di
non essere inglobati né da apparati totalitari né da
apparati burocratici o finanziari. Appare allora oltremodo strumentale e
cieca la polemica condotta in questi giorni sui quotidiani che fanno
opinione, dai vari Montanelli, Bocca, Alberoni, Ronchey, Sylos
Labini, i quali sostanzialmente rimproverano agli studenti occupanti
di essere dei conservatori, perché rifiutano il rapporto
strutturale tra l'industria e l'università, rivendicando un
obsoleto e inefficiente assistenzialismo di un impossibile
welfare-state. A sostegno delle loro ragioni, non assurde ma di
parte, citano i vari paesi del conclamato occidente del benessere
che, a loro dire, già da tempo avrebbero strutturato con
successo questo rapporto tra pubblico e privato. Aggiungono poi
superficialmente che le ingerenze delle potenze industriali sarebbero
evitate con una buona regolamentazione legislativa, come appunto
pretende la contestata legge. Ne deducono che una gestione unicamente
statale impedirebbe la realizzazione di una vera e sana autonomia
della cultura, come starebbero a dimostrare i decenni di inefficienza
che caratterizzano la scuola italiana.
Mi sembra del tutto falso che dalle
università in lotta giunga un lamento di demonizzazione
dell'industria e di santificazione dello stato. Questo lo vedono le
penne giornalistiche sopra citate, forse perché da decenni
osservano la realtà con questa ottica, contrabbandandola poi
come l'unica veritiera. Volendo ammettere che siano in buona fede,
questo è il senso che danno alla realtà. Ma non è
scontato che sia l'unico, perché legittimamente ne esistono
altri.
Per esempio quello degli studenti in
lotta, che non sposano, mi sembra, né il pubblico né il
privato,
bensì sottolineano la
proposizione di una gestione collettiva, volendo, più o meno
consapevolmente, riportare alla società ciò che le è
stato espropriato dagli apparati economici, di stato e di partito.
"La cultura è della collettività", dicono. Mi
sembra un po' grossolano confondere un'ipotesi collettiva con la
rivendicazione di voler rimanere sotto le poco amabili braccia di
mamma stato. Non è un caso che tra le richieste principali vi
sia quella di una presenza deliberante degli stessi studenti
all'interno degli organi decisionali dell'università. Una
simile richiesta non avrebbe senso se volessero soltanto la pregnanza
della burocrazia kafkiana dello stato.
Il "movanta" pone anche
un'altra istanza fondamentale: una forte politicizzazione apartitica,
accompagnata da una pratica di democrazia di base che rivendica come
vera democrazia, contrapposta alla partitocrazia che vorrebbe
omologarlo. Uno studente palermitano, durante la diretta di
Samarcanda, ha detto a chiare lettere che si tratta di "un
movimento fortemente politico e perciò fortemente apartitico",
mentre un altro di Roma che è "non violento e veramente
democratico". Questo bisogno di democrazia gestita dal basso,
contrapposta a quella mistificante gerarchica e verticale in auge, è
per me un chiaro bisogno di vera libertà.
Noi non possiamo sapere dove approderà
questo movimento, né ci interessa tentare un'assurda
previsione. Non siamo maghi. Non è da escludere che venga
fagocitato, sgretolato, riassorbito. Ma non è questo il punto.
È importante invece
recepire che un'altra volta viene posto in modo radicale il bisogno
di una diversa qualità della vita, e viene posto tentando di
delegittimare gli organismi di gestione politica dominanti. Al di là
di individuabili contraddizioni o insensatezze, c'è in ciò
una indiscutibile coerenza, che dovrebbe riguardare da vicino tutti
coloro che hanno a cuore l'emancipazione verso una libertà
sociale fattiva. In particolare gli anarchici.
Andrea Papi
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