Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 19 nr. 167
ottobre 1989


Rivista Anarchica Online

Il pregiudizio psichiatrico
di Giorgio Antonucci

Con questo titolo le Edizioni Eleuthera stanno per pubblicare un libro (pagg. 150, lire 15.000) di Giorgio Antonucci, direttore del Reparto Autogestito dell'Ospedale Psichiatrico "L'osservanza" di Imola. Ecco l'introduzione che lo stesso Antonucci ha scritto.

"Il cervello umano, - scrive il neurologo americano Richard Restak - una massa del peso di meno di 1600 grammi, non assomiglia nel suo stato naturale a nulla più che a una noce molle e rugosa. Eppure, nonostante questo aspetto modesto, che non lascia trasparire niente di straordinario, esso può contenere più informazioni di tutte le biblioteche del mondo. Al nostro cervello dobbiamo anche gli impulsi primitivi, gli ideali più elevati, il modo in cui pensiamo e persino la ragione per cui, a volte, anziché pensare, agiamo". Scrive ancora Restak: "Noi siamo il nostro cervello o, per usare le parole del ricercatore Eric Hart, il potere di determinare il proprio comportamento non è il potere di una entità (la mente) su un'altra (il corpo), bensì l'influenza che il cervello ha su se stesso" (Restak, 1986).
È compito di questo libro, nel riferirsi alla struttura e alle funzioni di tale organo, di respingere gli angusti limiti culturali di coloro che attribuiscono a disfunzioni del cervello tutte le scelte e tutti i comportamenti che non corrispondono ai pregiudizi sociali. Non voglio qui rispolverare i discorsi politico-sociali che negli ultimi 20 anni hanno alimentato la questione psichiatrica. A grandi linee ci sono state in Italia in rapporto alla psichiatria tre posizioni, che corrispondono a tre fasi storiche.
La prima, la più nota sia in Italia che all'estero, è la posizione antiistituzionale sostenuta a Gorizia da Franco Basaglia, con il quale ho lavorato qualche mese, che si proponeva di trasformare ed aprire gli ospedali psichiatrici allo scopo di eliminarli e che ha portato alla legge 180, del maggio 1978.
La seconda posizione, che possiamo chiamare antipsichiatrica - in certo modo collegata con l'antipsichiatria inglese (Laing, Cooper) - è un tentativo di interpretare le concezioni psichiatriche in maniera diversa limitando la funzione repressiva dello psichiatra senza tuttavia negarne il ruolo professionale.
La terza posizione, quella che io sostengo, è rappresentata dal pensiero non-psichiatrico, che considera la psichiatria un'ideologia priva di contenuto scientifico, una non conoscenza, il cui scopo è di annientare le persone invece di provare a capire le difficoltà della vita sia individuale che sociale per poi difendere le persone, cambiare la società e dar vita a una cultura veramente nuova. Coloro che sono vittime della violenza sociale, e in particolare di quella psichiatrica, devono tornare ad essere persone libere di scegliersi la propria vita.
Sono d'accordo, come mi dicono molti, che è un'utopia se con questa parola si intende non ciò che è irrealizzabile ma ciò che ancora non è stato realizzato. Altri mi chiedono: ma che cosa pensi della legge 180? Come dovrebbe essere chiamata? Quali sono le alternative al manicomio? I Centri di igiene mentale, le comunità terapeutiche o l'assistenza domiciliare sono una soluzione? Che cosa fare quando un parente o un amico "dà fuori"?
Sono domande alle quali non so dare una risposta nell'attuale sistema psichiatrico, che mi assegna il ruolo di carceriere. Non è un modo per sfuggire ai problemi del "qui e ora" (e infatti dal 1968 esercito la professione di non carceriere). La mia convinzione, convalidata dai fatti, è che - sia per i cambiamenti di struttura come per i casi di sofferenza personale - è necessario demolire la logica psichiatrica. Si prova stanchezza a leggere da 20 anni le stesse vuote affermazioni sulla ricerca di nuove tecniche e di nuove terapie psichiatriche mentre, al di là delle buone intenzioni, si torna inevitabilmente al controllo sociale e alla repressione normalizzatrice.
Questo libro vuol essere un'introduzione alla non psichiatria, un contributo alla diffusione della cultura e della pratica non psichiatrica. Ho pensato che la scelta di un linguaggio comprensibile potesse servire a profanare lo scrigno di parole difficili, tipico dei detentori di discipline specialistiche o di pensieri esoterici.
Soprattutto nella psichiatria, il linguaggio esclusivo da essa prodotto è un esempio di come la realtà dei fatti possa essere modificata già con l'uso di una parola invece di un'altra. Le parole complicate e astruse degli psichiatri come quelle dei giurati, e ancor più quelle dei politici e dei medici in genere, hanno la funzione di non far entrare facilmente gli altri nel loro mondo, dato che buona parte del potere passa per l'accesso alle parole e al loro significato.
Ma le ragioni di questa profanazione sono ancora più forti. Il potere della parola di uno psichiatra è paragonabile solo a quello di un giudice. Superiore, direi, perché il giudice è solo uno degli attori in un processo a più voci. Invece il giudizio di uno psichiatra può condannare un uomo direttamente alla segregazione senza bisogno di processo.
Il mio pensiero e il mio lavoro, critici nei riguardi della psichiatria, non hanno origine da convinzioni teoriche, elaborate a tavolino, ma sono il risultato di anni di esperienza diretta con uomini e donne, in un modo o nell'altro implicati in trattamenti psichiatrici (e spesso nel libro faranno sentire la loro voce). Il ricorso ad episodi della mia esperienza non risponde ad esigenze autobiografiche, ma all'obiettivo di portare il lettore a contatto diretto con i fatti.