Rivista Anarchica Online
Il pregiudizio psichiatrico
di Giorgio Antonucci
Con questo titolo le Edizioni
Eleuthera stanno per pubblicare un libro (pagg. 150, lire 15.000) di
Giorgio Antonucci, direttore del Reparto Autogestito dell'Ospedale
Psichiatrico "L'osservanza" di Imola. Ecco l'introduzione che lo stesso
Antonucci ha scritto.
"Il cervello umano, - scrive il
neurologo americano Richard Restak - una massa del peso di meno di
1600 grammi, non assomiglia nel suo stato naturale a nulla più
che a una noce molle e rugosa. Eppure, nonostante questo aspetto
modesto, che non lascia trasparire niente di straordinario, esso può
contenere più informazioni di tutte le biblioteche del mondo.
Al nostro cervello dobbiamo anche gli impulsi primitivi, gli ideali
più elevati, il modo in cui pensiamo e persino la ragione per
cui, a volte, anziché pensare, agiamo". Scrive ancora
Restak: "Noi siamo il nostro cervello o, per usare le
parole del ricercatore Eric Hart, il potere di determinare il proprio
comportamento non è il potere di una entità (la mente)
su un'altra (il corpo), bensì l'influenza che il cervello ha
su se stesso" (Restak, 1986).
È
compito di questo libro, nel riferirsi alla struttura e alle funzioni
di tale organo, di respingere gli angusti limiti culturali di coloro
che attribuiscono a disfunzioni del cervello tutte le scelte e tutti
i comportamenti che non corrispondono ai pregiudizi sociali. Non
voglio qui rispolverare i discorsi politico-sociali che negli ultimi
20 anni hanno alimentato la questione psichiatrica. A grandi linee ci
sono state in Italia in rapporto alla psichiatria tre posizioni, che
corrispondono a tre fasi storiche.
La prima, la più nota sia in
Italia che all'estero, è la posizione antiistituzionale
sostenuta a Gorizia da Franco Basaglia, con il quale ho lavorato
qualche mese, che si proponeva di trasformare ed aprire gli ospedali
psichiatrici allo scopo di eliminarli e che ha portato alla legge
180, del maggio 1978.
La seconda posizione, che possiamo
chiamare antipsichiatrica - in certo modo collegata con
l'antipsichiatria inglese (Laing, Cooper) - è un tentativo di
interpretare le concezioni psichiatriche in maniera diversa limitando
la funzione repressiva dello psichiatra senza tuttavia negarne il
ruolo professionale.
La terza posizione, quella che io
sostengo, è rappresentata dal pensiero non-psichiatrico, che
considera la psichiatria un'ideologia priva di contenuto scientifico,
una non conoscenza, il cui scopo è di annientare le persone
invece di provare a capire le difficoltà della vita sia
individuale che sociale per poi difendere le persone, cambiare la
società e dar vita a una cultura veramente nuova. Coloro che
sono vittime della violenza sociale, e in particolare di quella
psichiatrica, devono tornare ad essere persone libere di scegliersi
la propria vita.
Sono d'accordo, come mi dicono molti,
che è un'utopia se con questa parola si intende non ciò
che è irrealizzabile ma ciò che ancora non è
stato realizzato. Altri mi chiedono: ma che cosa pensi della legge
180? Come dovrebbe essere chiamata? Quali sono le alternative al
manicomio? I Centri di igiene mentale, le comunità
terapeutiche o l'assistenza domiciliare sono una soluzione? Che cosa
fare quando un parente o un amico "dà fuori"?
Sono domande alle quali non so dare una
risposta nell'attuale sistema psichiatrico, che mi assegna il ruolo
di carceriere. Non è un modo per sfuggire ai problemi del "qui
e ora" (e infatti dal 1968 esercito la professione di non
carceriere). La mia convinzione, convalidata dai fatti, è che -
sia per i cambiamenti di struttura come per i casi di sofferenza
personale - è necessario demolire la logica psichiatrica. Si
prova stanchezza a leggere da 20 anni le stesse vuote affermazioni
sulla ricerca di nuove tecniche e di nuove terapie psichiatriche
mentre, al di là delle buone intenzioni, si torna
inevitabilmente al controllo sociale e alla repressione
normalizzatrice. Questo libro vuol essere
un'introduzione alla non psichiatria, un contributo alla diffusione
della cultura e della pratica non psichiatrica. Ho pensato che la
scelta di un linguaggio comprensibile potesse servire a profanare lo
scrigno di parole difficili, tipico dei detentori di discipline
specialistiche o di pensieri esoterici.
Soprattutto nella psichiatria, il
linguaggio esclusivo da essa prodotto è un esempio di come la
realtà dei fatti possa essere modificata già con l'uso
di una parola invece di un'altra. Le parole complicate e astruse
degli psichiatri come quelle dei giurati, e ancor più quelle
dei politici e dei medici in genere, hanno la funzione di non far
entrare facilmente gli altri nel loro mondo, dato che buona parte del
potere passa per l'accesso alle parole e al loro significato.
Ma le ragioni di questa profanazione
sono ancora più forti. Il potere della parola di uno
psichiatra è paragonabile solo a quello di un giudice.
Superiore, direi, perché il giudice è solo uno degli
attori in un processo a più voci. Invece il giudizio di uno
psichiatra può condannare un uomo direttamente alla
segregazione senza bisogno di processo.
Il mio pensiero e il mio lavoro,
critici nei riguardi della psichiatria, non hanno origine da
convinzioni teoriche, elaborate a tavolino, ma sono il risultato di
anni di esperienza diretta con uomini e donne, in un modo o
nell'altro implicati in trattamenti psichiatrici (e spesso nel libro
faranno sentire la loro voce). Il ricorso ad episodi della mia
esperienza non risponde ad esigenze autobiografiche, ma all'obiettivo
di portare il lettore a contatto diretto con i fatti.
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