Rivista Anarchica Online
A nous la libertè diario a cura di Felice Accame
La coda dell'implicito
Una vedova allegra...ma non troppo,
come titolo, ha più di un merito per rivelare la più
completa insipienza del film cui si riferisce. C'è la formula
usurata del "x... ma non troppo", ci sono i puntini di
sospensione (alzi la mano chi si ricorda un buon film nel cui
titolo allignino puntini di sospensione: è come se ci fossero
"regole" non scritte sulla capacità di un titolo nei
confronti della qualità del prodotto che designa) e, come
primo impatto, c'è la "vedova allegra", figura ormai
canonica di quella nequizia ideologica che ha rappresentato
l'operetta - come genere artistico presso certi paesi e certe
generazioni ove l'ipocrisia l'ha fatta da padrone.
Che questa "Vedova allegra etc."
ennesima l'abbia diretta un tal Jonathan Demme e l'abbia interpretata
una sempre più muteggiante (da "Muti Ornella")
Michelle Pfeiffer - ogni suo sguardo sembra testimoniare un bagno di
endorfine per le cellule gliali..., nonché un caricaturale
Matthew Modine, non ha fatto sì che il film migliorasse di un
baffo ciò che il titolo italiano garantisce. E infatti il film
è rimasto poco più di una porcheriuola: l'avrei potuto
dirigere anch'io con pari destrezza e avrei potuto affidare la parte
della vedova allegra a Pippo Baudo con risultati non peggiori.
Detto di passaggio, la vedova in
questione è tutto fuori che allegra: le hanno tolto di mezzo
il marito mafioso e fedifrago e, mentre l'FBI cerca di coinvolgerla
per incastrarne i soci, lei cerca la fuga verso una vita libera,
felice, lontana dalle "famiglie" e rispettabile.
Ovvio che siamo in America e ovvio che
siamo rigorosamente fra italo-americani, dei cui tic più italo
che americani dovremmo ridere come matti (sì, perché
traspare qua e là il tentativo vano di sollazzare l'incauto
spettatore). Orbene, se la miseria è costì ed è
così, perché parlarne? Che c'è da discuterne?
Per quale fortuita circostanza rifletterci sopra?
Presto detto: per i titoli di coda. Fra
le sciocchezzuole, una sciocchezzuola simpatica e istruttiva. Mentre
scorrono i nomi di comprimari e di tecnici, infatti, il regista ha
pensato di proiettare sequenze che nel film non s'erano viste,
sequenze che - badate - non spostano di una virgola la vicenda
narrativa, ma che, diciamo al momento del montaggio, sono state
tagliate via come superflue. Più che altro, è curioso
come esperimento mentale: praticamente allo spettatore è dato
di ricostruire le fasi fondamentali del film tramite immagini che
"non ha visto" ma che ora gli tocca porre in relazione con
ciò che "ha visto" ricostruendone la reciproca
congruenza.
All'esplicito del racconto, per una
volta, viene aggiunto - così, più per sfizio che per
interesse specifico perché nulla ci vien detto che già
non "sapessimo" - una porzione di implicito, una porzione
tra le tante o, meglio, tra le infinite che governano silenziosamente
qualsiasi racconto (non solo cinematografico, anche quello che
possiamo fare a nostro figlio tornando a casa dal lavoro).
Un esempio: se nel film abbiamo visto
un personaggio prendere l'ascensore nell'albergo in cui sappiamo
esserci un altro personaggio a noi noto, e poi vediamo il primo nella
stanza del secondo, ecco che, nei titoli di coda della Vedova
allegra-etc., vediamo quel primo personaggio nell'ascensore che
presumibilmente sale. La sequenza "rivelata" dopo è
più plausibile, anzi del tutto ovvia, e tuttavia - nella
percezione del racconto - non ha trovato posto neppure sotto forma di
pura rappresentazione. In altre parole: per "capire" non ne
abbiamo avuto bisogno; il "non detto" svolge un ruolo
essenziale, come il "detto".
Morale della favola: per scemo che un
film sia, c'è sempre qualcosa da imparare. Se ci lascia del
tutto indifferenti per quanto il racconto ci vuole raccontare, può
invece interessarci il come questo racconto ci viene raccontato; e
questa "tecnica" - tutta da appuntare - può dirci
molto sull'evoluzione della trasmissione di conoscenze fra le
comunità umane nell'epoca della riproduzione artificiale delle
narrazioni.
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