Rivista Anarchica Online
Isola, non ghetto
di Giuseppe Gessa
Che cosa rappresentano oggi i
centri sociali autogestiti nell'universo delle forme di ribellione
giovanile? In che termini si pone il problema dell'autoemarginazione
di questi centri dal contesto sociale? Ne parliamo con un giovane
anarchico, attivo nel movimento delle occupazioni a Milano.
L'esigenza di una nuova progettualità.
Quali sono le caratteristiche
salienti dei centri sociali attualmente attivi nella realtà
milanese? Quali le differenze rispetto ai movimenti giovanili degli
anni scorsi e da chi sono frequentati? Ne parliamo con Pietro, 21
anni, anarchico del Circolo Ponte della Ghisolfa, da anni attivo
all'interno del movimento dei centri sociali e dell'occupazione di
case.
I centri sociali occupati attualmente
attivi a Milano sono tre - il centro Leoncavallo, che funziona ancora
nonostante la demolizione delle scorse settimane, il centro di piazza
Bonomelli e l'Acquario di porta Genova. Esistono inoltre altre realtà
di aggregazione frutto di occupazioni passate o di assegnazioni da
parte del comune; tra queste si possono segnalare, per l'impegno nel
proseguire l'attività sociale, il centro sociale anarchico di
via Torricelli e il centro di via Scaldasole. Altri centri operanti
nelle città hanno però abbandonato un'attività
di tipo politico.
I centri sociali milanesi fungono da
punto di aggregazione di gruppi particolari di persone, che
frequentano una particolare sede o sono un punto di riferimento
comune per una certa area giovanile?
Si tratta di un'area giovanile
abbastanza omogenea; costituita da studenti, persone che vivono
generalmente di lavoro nero o comunque in situazioni di precarietà,
con occupazioni come quelle dei pony-express o nei traslochi; mi
riferisco ai frequentatori abituali dei centri, che non hanno un
ruolo attivo nella gestione delle attività più
specificatamente politiche.
Non si può parlare di
aggregazioni giovanili come quelle della fine degli anni '70 in
quanto solo una minoranza, legata a precise aree politiche,
l'Autonomia nel caso del Leoncavallo o, per il centro sociale
Acquario, una varietà di esperienze che vanno dall'ex-Virus a
una parte del coordinamento delle case occupate, si fa promotrice
della gestione politica dei centri.
Su un piano generale, la presenza di
una minoranza politicizzata di fronte a un'area di persone che
trovano nei centri sociali, e nella musica che vi si suona, solo un
punto di aggregazione, può fare affermare che, in sé,
questi centri non esprimono una volontà politica di
cambiamento, ma un malessere generale, generico, che però non
sfocia nella ricerca di una società diversa e in una volontà
concreta di trasformazione, esprimono solo un rifiuto del presente.
Se questo rifiuto può anche essere positivo, la mancanza di
una progettualità e di una volontà propositiva per un
ideale di società migliore rischia di trasformare questi
centri in una sorta di ghetto, nei quali ci si rinchiude a consumare
la propria incazzatura, senza riuscire ad uscire all'esterno e
proiettare una volontà reale in qualcosa di diverso.
La critica più corrente ai
giovani frequentatori dei centri è quella di porsi in
antagonismo non solo nei rapporti con le autorità ma di
chiudersi anche al contatto con gli abitanti dei quartieri dove i
centri si trovano. Cosa puoi dire su questo?
Tra i centri sociali attuali, un lavoro
attivo di contatto con il quartiere è stato fatto al centro
Leoncavallo - che, bisogna ricordarlo, è attivo da più
di dieci anni - grazie anche alle esperienze dell'asilo, dei gruppi
di teatro, la palestra e altro.
In realtà questo non accade
sempre e la stessa dizione di centro sociale per questi spazi non è
molto appropriata: un centro sociale dovrebbe essere un posto dove si
esprime la socialità del quartiere, un posto aperto almeno ai
giovani che lo abitano. Oggi tutto questo ancora non c'è anche
se nel passato ci sono state molte esperienze più positive.
Tu hai partecipato all'occupazione
del centro la Villetta che, sia pure per pochi mesi, aveva
rappresentato un'esperienza interessante di contatto della gente con
i giovani occupanti.
La "villetta" era una villa
situata all'interno di un parco in via Litta Modigliani, un lungo
stradone che congiunge i quartieri Comasina e Quarto Oggiaro.
Si tratta di un classico
quartiere-dormitorio che non offre prospettive di aggregazione di
nessun tipo. Il parco in cui era inserita la villa era diventato un
luogo di spaccio di eroina, dove i ragazzi andavano a bucarsi;
ricordo che quando entrammo trovammo i prati trasformati in un
tappeto di siringhe.
Il parco venne ripulito ed aperto alla
gente del quartiere, la quale, forse perché lo conosceva come
luogo di spaccio, vedendo i giovani impegnati a lavorarci, prese a
frequentarlo con i bambini, che potevano finalmente giocare nel
parco. La gente veniva e parlava con noi e, anche se per poco tempo,
eravamo riusciti ad avviare un contatto con la popolazione. Il centro
venne sgomberato dopo pochi mesi.
Tornando per un momento all'origine, al
significato di centro sociale, dovrebbe emergere nei centri una
volontà precisa di instaurare un rapporto con la gente del
quartiere; questo significa anche una sorta di autocontrollo rispetto
alle iniziative, dai concerti a tutta una serie di manifestazioni di
rabbia a volte anche gratuita, al fine di essere comprensibili alle
persone esterne alla realtà dei centri. Occupare un posto,
aprirlo, per poi limitarsi ad organizzare concerti o pitturare la
facciata, pone gli occupanti, nei confronti di una popolazione già
restia ad esprimere volontà di cambiamento nella vita
quotidiana, con le note difficoltà nell'accettare la presenza
della diversità, nella condizione di non essere capiti e
accettati.
Questo è un discorso che
andrebbe sviluppato anche all'interno del coordinamento nazionale dei
centri sociali, cosa che non viene fatta, in quanto sono privilegiate
le tematiche portate avanti da specifici gruppi politici, tra i quali
anche gli anarchici, tematiche che passano sopra una discussione, più
concreta, sui centri sociali e sul modo di vivere questi spazi.
Nemmeno sul bollettino di collegamento è emerso finora un
dibattito aperto al di là di casi isolati.
La lotta all'eroina, fin dai circoli
giovanili degli anni '70 sempre al centro delle iniziative dei centri
sociali, è una presenza che continua ancora oggi?
Certamente, la lotta all'eroina riveste
tuttora un grande interesse ed è al centro di molte iniziative
dei centri sociali.
Esiste però, secondo me, un
limite nel modo in cui questa battaglia viene condotta, privilegiando
quella che è la piattaforma portata avanti dagli autonomi a
livello nazionale e cioè la lotta alla legge Craxi sulle
tossicodipendenze. Si tratta di un punto sicuramente importante,
anche perché la legge Craxi, o meglio la volontà
repressiva che le sta dietro, viene già ad essere applicata
quotidianamente dalle forze dell'ordine nel controllo e in operazioni
di fermo di polizia nei confronti di tutti quelli che hanno un
aspetto diverso della norma. L'analisi della realtà della
tossicodipendenza dovrebbe però andare oltre la critica alla
legge Craxi o alla condanna degli spacciatori, proprio perché
il fenomeno dell'eroina ha assunto proporzioni così vaste che
necessita di capacità di comprensione più profonde. È
dalla domanda sul perché la gente si fa di eroina che
bisognerebbe partire e i centri sociali dovrebbero essere in grado di
porsi come un luogo in cui trovare stimoli a vivere e progettare
qualcosa di diverso. Se si lascia allo stato il monopolio delle
risposte a questi problemi, si deve ammettere una capacità
davvero minima di intervento e presenza nel tessuto sociale.
Negli ultimi mesi abbiamo assistito
nelle città più grosse, scelte come sede per i
campionati del '90, ad un intensificarsi delle operazioni repressive
nei confronti delle fasce marginali della popolazione, dagli zingari
ai "barboni". Si tratta di una strategia che coinvolge
anche la realtà dei centri sociali, come lo sgombero del
Leoncavallo sembra dimostrare?
Sicuramente un obiettivo che lo stato
italiano si sta ponendo è quello di arrivare ai mondiali '90,
che hanno poco a che fare con un campionato di calcio, realizzando
una vetrina che consenta anche all'Italia di esprimere il proprio
benessere, le proprie ricchezze e la propria tranquillità
sociale. Ricordiamo che, dopo il terremoto di Città del
Messico, in occasione degli ultimi mondiali, accanto alle baracche la
strada che portava dall'aeroporto all'albergo era interamente
ricostruita.
Il tentativo in atto non è solo
quello di eliminare quelle realtà che si pongono in
opposizione allo stato di cose vigenti ma, attraverso una soluzione
più sottile, quella di creare una divisione tra i centri
"buoni" e quelli "cattivi", quelli che dimostrano
la propria disponibilità a trattare e quelli, come il
Leoncavallo, che si sono difesi dallo sgombero della polizia,
opponendo resistenza.
Il rischio connesso a questa politica,
in particolare riguardo a quelle realtà che riceveranno in
assegnazione uno stabile, è quello di perdere via via quella
carica di opposizione che avevano nel momento in cui il centro
sociale era attivo grazie a una occupazione.
Per concludere quali sono le
motivazioni che, come anarchico, ti hanno portato ad agire nei centri
sociali e quali sono le possibilità perché essi possano
evitare il bivio tra una condizione marginale e l'integrazione?
Bisogna in primo luogo evitare di
categorizzare rigidamente l'area dei giovani frequentatori dei centri
sociali. Possiamo trovare affinità con l'esperienza dei
circoli giovanili o con le bande metropolitane, fino alla non esigua
presenza di giovani che oltre a frequentare i centri si recano allo
stadio la domenica.
È
vero che molti elementi portano il centro sociale verso il rischio di
trasformarsi in un ghetto - esiste una comunicazione molto
stereotipata, una musica, in genere l'hard core, ossessionante, quasi
incomprensibile, che esprime però a pieno la carica di rabbia
che cova in queste persone.
Non mi sento comunque di condannare una
realtà che, sia pure con i difetti di cui parlavo, rappresenta
un momento molto importante di aggregazione giovanile, in una società
in cui l'aggregazione e il lavoro collettivo stanno sempre più
scomparendo, anche in realtà collettive come il lavoro, dove
l'attività è sempre più suddivisa in
compartimenti che non consentono nemmeno di vedere la realizzazione
del prodotto.
Per chiudere con un discorso e
un'immagine che racchiuda in sé la critica ma anche il
progetto di come i centri sociali potrebbero proporsi, potremmo
parlare di una progettualità, una voglia di essere, anziché
il ghetto, un'isola. Non si tratta solo di un gioco di parole, un
ghetto è una cosa cupa, l'isola è verde, colorata,
esprime una voglia di vivere, di crescere, una voglia di vivere
assieme e che, soprattutto, può essere raggiunta da altri, sia
pure con qualche sforzo.
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