Rivista Anarchica Online
Se sei mesi vi sembran pochi...
di Carlo Oliva
"Beh - dice il mio interlocutore,
che è una persona sensata - è una cosa spiacevole,
certo, ma che altro si poteva fare? E poi, via, sei mesi, dopo la
sentenza di primo grado, non sono un gran che. Non potevano lasciarli
uscire tutti".
Stiamo parlando del decreto Vassalli,
quello che allunga a sorpresa i termini della carcerazione
preventiva. Io mi arrabbio un po', poi decido di lasciar perdere.
Sono anni che seguo i problemi della giustizia e del carcere e ormai
comincio ad abituarmi all'indifferenza che la gente normale, quella
che sta fuori, e non ha dentro né un parente né un
amico, dimostra per queste questioni. Chi è dentro è
dentro, e sicuramente lo merita: la pulsione a punire che sonnecchia
nel profondo di tutti noi si manifesta anche in forma ideologica,
nell'adesione alle verità che chi detiene il potere vuol farci
credere. E negli ultimi mesi, per motivi loro, magistrati, poliziotti
e ministri hanno ripetuto in coro che il problema principale della
giustizia italiana era il pericolo di troppe scarcerazioni per
decorrenza di termini. Onde la necessità di allungare,
appunto, quei termini, come puntualmente si è fatto.
L'operazione, a ben vedere, è
stata condotta a termine con una certa consumata maestria. Hanno
cominciato, in agosto, a tribunali chiusi e processi sospesi, a far
circolare sui giornali e in televisione un po' di notizie
catastrofiche, sfruttando il clima da ultima spiaggia che le più
recenti imprese della mafia (e dei magistrati addetti) avevano
creato. Una grave minaccia incombe. Stanno per uscire tutti. Liberi
tra poco i boss della mafia. Esodo dalle carceri. La gente, che ai
giornali e alla televisione continua a credere, tende a preoccuparsi.
L'idea di una folla di malfattori liberi come l'aria non fa piacere a
nessuno.
Seconda puntata. L'ottimo Andreotti
dichiara in pubblico che, anche a costo di cambiare la costituzione
(e chi ha detto, alla fin fine, che non si può cambiare la
costituzione?) si può anche abolire la presunzione
d'innocenza. Come a dire, rinunciare al principio per cui l'imputato
è innocente fino alla condanna definitiva. Se non è
innocente è colpevole, non ci sono santi, e allora lo si può
tener dentro a tempo indefinito, senza problemi. È
un'enormità, naturalmente: la presunzione d'innocenza più
che una norma positiva, è un principio cardine del diritto e
della civiltà giuridica. Né ad Andreotti né ai
suoi, veramente, della civiltà giuridica importa un gran che,
ma sanno anche loro che per cambiare i principi serve per lo meno del
tempo. Ma tanto non è questo il punto.
Terza puntata. Intervengono in coro i
democratici ragionevoli, ministro guardasigilli in testa. La
presunzione d'innocenza non si tocca. È un cardine della
civiltà giuridica, appunto. Però... però bisogna
ammettere che il problema esiste. In qualche modo va risolto.
Come infine sia stato risolto, lo
sappiamo. E lo potevamo prevedere da subito: negli ultimi vent'anni è
sempre andata a finire così.
Tra corvi e talpe
Altri sei mesi, dopo il primo grado,
non sono un gran che. È convinzione diffusa, anche se tutti
sappiamo che - nel complesso - i tempi della giustizia, in Italia,
sono i più lenti del mondo occidentale (il che credo sia stato
rilevato anche in qualche sede internazionale autorevole). Devono
esserne convinti anche a livello di governo, perché - in
realtà - il decreto non si limita affatto a comminare questo
"modesto" supplemento d'attesa (e suppongo che per
definirlo modesto bisognerebbe aver sperimentato sulla propria pelle
la prospettiva di aspettare altri sei mesi dentro, ma questa è
una cosa che non si augura a nessuno). Stabilisce che in quei termini
non sono computabili né i giorni del processo né quelli
necessari alla stesura della sentenza.
Ora, sapete quanto può durare in
Italia un processo, specie se è un maxiprocesso (come ormai
sono tutti i processi importanti)? E quanto ci mette, un giudice, a
stendere una sentenza? Tanto, tantissimo, ve l'assicuro. Migliaia e
migliaia di giorni. Per non dire che, a questo punto, basta non
concludere un processo o non stendere una sentenza per tener dentro
chiunque si voglia, ad arbitrio. Non che si debba supporre che i
magistrati italiani siano intenzionati, in massa, a servirsi di
simili mezzucci, ma, in fondo, le vicende dei corvi e delle talpe di
quest'estate ci dovrebbero aver fatto capire che qualche problema di
etica esiste anche a quel livello. E poi, l'importanza delle garanzie
legali si misura appunto sulla loro capacità di fungere da
garanzia, al di là delle intenzioni e delle capacità
dei singoli.
Il problema della giustizia non è,
evidentemente, una questione emotiva. L'idea del colpevole impunito e
giulivo suscita in tutti un moto di rabbia, di paura e di
frustrazione . La preoccupazione di chi teme che un innocente faccia
un solo giorno di carcere non dovuto, o che in nulla si deroghi alle
norme che tutelano i diritti del cittadino, è di natura
piuttosto intellettuale. La prima fa premio sulla seconda, il che
permette d'imbastire queste antipatiche sceneggiate.
Nessuno, nella campagna di stampa che
ha preceduto il decreto Vassalli, ha specificato quanti, in
definitiva, sarebbero stati i criminali destinati a tornare in
libertà: si è detto soltanto che erano in tanti.
Nessuno ha chiesto com'era possibile definirli criminali, visto che,
se in libertà dovevano tornare, è evidente che in via
definitiva non li ha condannati nessuno: la condanna in primo grado,
nel nostro sistema, non è determinante né definitiva e
se si vuole abolire l'appello, almeno bisogna dirlo.
Nessuno ha fatto notare che è
altamente improbabile che i boss mafiosi siano davvero in galera (e
del resto, se ci fossero, potrebbero dirigere le loro organizzazioni
da dentro come da fuori). Nessuno ha osservato che la lunghezza
estenuante delle procedure giudiziarie è solo una conseguenza
dell'abuso dei maxiprocessi; e che i maxiprocessi sono a loro volta
una conseguenza inevitabile dell'uso di ricorrere sempre e comunque
ai pentiti, e d'accusare in via preliminare di un qualche reato
associativo tutti coloro che ai pentiti capita di nominare. Nessuno
ha ricordato come essi rappresentino una prassi scandalosa, in cui è
impossibile vagliare le posizioni individuali e verificare i
riscontri alle chiamate in correità. Insomma, nessuno si è
accorto che la tremenda débacle cui la società
civile è andata incontro nella lotta alla criminalità
organizzata va in buona parte imputata ai guasti introdotti nel
sistema giudiziario dalla legislazione straordinaria degli anni
dell'emergenza, come a suo tempo era stato ampiamente previsto.
Il ruolo della stampa
Il decreto sui termini della custodia
cautelare non è soltanto una vergogna in sé:
rappresenta un incentivo a chi conduce le indagini e celebra i
processi perché continui ad agire come ha agito. Lo Stato si
autoassolve delle sue colpe e delle sue incapacità
(l'incapacità di celebrare i processi, che è una delle
sue funzioni) a spese di qualcun altro e dei suoi diritti: il che,
non lo si vorrà negare, è moralmente piuttosto
ripugnante.
La grande stampa indipendente asseconda
l'opera con le sue campagne d'allarme. Ma il discorso sul ruolo che
la stampa ha ormai assunto nel rapporto tra cittadini e potere è
molto più ampio e bisognerebbe decidersi a farlo. Non avete
letto, negli stessi giorni in cui usciva il decreto Vassalli, la
storia di quei fabbricanti iracheni di bombe atomiche che trovandosi
per caso ad Atlanta, in Georgia (probabilmente erano lì per il
cinquantenario della prima di Via col vento) passarono
a bussar quattrini alla filiale di una banca italiana e del direttore
cattivo che senza dir niente a nessuno gli allungò la
bazzecola di tre miliardi di dollari? Chi ha il coraggio di spacciare
favolette del genere, ai suoi affezionati lettori può
raccontare veramente di tutto. Ma questa è un'altra storia.
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