Rivista Anarchica Online
Euroastensione perché
di Paolo Finzi
Anche in occasione del prossimo
appuntamento elettorale gli anarchici confermano la propria scelta
astensionista. Non si tratta di un'astratta coerenza con le posizioni
espresse oltre un secolo fa da Bakunin, Malatesta e gli altri
anarchici della prima generazione. Le ragioni del nostro astensionismo
sono legate anche all'attualità, all'analisi della situazione
odierna e dei metodi a nostro avviso più efficaci per far
crescere la coscienza libertaria ed autogestionaria tra la gente
Il 18 giugno i cittadini della Comunità
Europea sono chiamati alle urne per eleggere i membri del parlamento
europeo, con sede a Strasburgo. Dieci anni dopo le prime euroelezioni
(10 giugno 1979), si ripete dunque la solita storia.
A mano a mano che si avvicina la data,
si fa sempre più intensa e martellante l'opera di
"convincimento" dei cittadini da parte dell'intero sistema
dell'informazione: giornali, partiti, movimenti, televisioni,
intellettuali, chiese, ecc., tutti insistono sull'importanza che i
bravi cittadini europei vadano a votare. Votate per questo o per
quello, naturalmente. Ma soprattutto, votate. Comunque, andate a
votare. In questo sono - come sempre, come a
tutti gli appuntamenti elettorali - tutti all'unisono: dalla destra
alla sinistra, dal nord al sud, la musica è sempre la stessa:
andate a votare.
E come sempre, come a tutti gli
appuntamenti elettorali, il movimento anarchico si ritrova da solo a
sostenere la posizione diametralmente opposta, quella del non-voto,
dell'astensione. Per amore della precisione, c'è quasi sempre
qualche formazione minore che, come noi, invita all'astensione: è
successo, per esempio, qualche elezione fa con i radicali. Per queste
formazioni, comunque, si tratta di un rifiuto tattico della
scheda, motivato da considerazioni legate alla contingenza politica
di quel momento. Spesso, anzi, questo tipo di astensione temporanea
si configura come un tacito invito a far confluire i voti dei propri
simpatizzanti su altre liste. Una forma certo anomala, ma nemmeno
tanto, di partecipazione indiretta al sistema partitocratico.
L'astensionismo strategico (ci
si perdoni il linguaggio militaresco) degli anarchici è
tutt'altra cosa. È
la logica conseguenza della nostra critica del sistema statale e
della nostra denuncia dei suoi meccanismi - sottilmente perversi - di
"costruzione" del consenso. Al contempo, il nostro
astensionismo è una testimonianza - piccola quanto si vuole,
ma significativa - della possibilità di rifiutare già
oggi, concretamente, questo sistema, o perlomeno di non assicurargli
anche il nostro avallo.
Le elezioni (politiche, amministrative,
europee, ecc.) altro non sono che un gigantesco rito collettivo, una
specie di messa natalizia alla quale anche i fedeli più
tiepidi sono chiamati a partecipare per testimoniare così,
nonostante tutto, la loro appartenenza al popolo del dio Stato. Nel
momento in cui lo Stato si trova a dover affrontare sempre più
acuti problemi sociali e si sforza di estendere sempre più
capillarmente a tutta la società civile la sua capacità
di controllo, il consenso della gente diventa sempre più
importante. I cittadini devono sentirsi non solo partecipi, ma
addirittura protagonisti della gestione del potere della
macchina-Stato.
Del popolo del dio Stato, però,
noi anarchici non ci sentiamo parte. Quel dio, anzi, noi rifiutiamo e
cerchiamo di combattere. Il 18 giugno ce ne staremo a casa.
Per tradizione per convinzione
Il nostro astensionismo affonda le sue
radici in motivazioni che vanno ben aldilà del rifiuto di
partecipare ad un rito collettivo del quale rifiutiamo il significato
e del quale denunciamo con forza l'uso strumentale che ne viene
fatto.
Esso nasce innanzitutto dal rifiuto
della delega di potere che lo Stato pretende comunque dai suoi
sudditi per legittimare il suo ruolo e la sua esistenza. Da sempre,
infatti, gli anarchici hanno denunciato nel momento elettorale una
sostanziale truffa, dato che i cittadini vengono chiamati a
"scegliere i loro rappresentanti" - e di conseguenza i loro
governanti - in una struttura comunque di potere, cioè di
netta separazione tra chi comanda e chi deve ubbidire, tra chi
sfrutta e chi è sfruttato. In altri termini, le elezioni
vengono presentate come il momento di massima libertà
decisionale da parte del popolo, mentre è evidente - tutta
l'esperienza storica dei regimi democratici è qui a
testimoniarlo - che niente di essenziale può essere modificato
dal responso delle urne.
Certo, cento/centoventi anni fa, ai
tempi della Prima Internazionale, quando Bakunin, Malatesta e gli
altri anarchici della prima generazione sostenevano l'astensionismo
in polemica con le correnti "politiche" del socialismo
(Marx in testa), allora i sostenitori dell'opportunità di
partecipare alle elezioni potevano (forse) basarsi su qualche ipotesi
credibile nell'accusare gli anarchici di non volere comprendere le
potenzialità insite nella partecipazione popolare alle
elezioni e di sostenere un astensionismo aprioristico, di principio,
frutto di settarismo, incapacità di comprendere il nuovo,
ecc..
Oggi, però, dopo decine di
elezioni sempre più democratiche, tutte le volte presentate da
destra e da manca come decisive per il nostro futuro, nessuno può
negare l'evidenza, che cioè niente di sostanziale le elezioni
hanno mai modificato.
Ma quale Europa?
Ecco dunque che il nostro astensionismo
si presenta in tutta la sua chiarezza non - come vorrebbero far
credere i nostri detrattori - come astratta coerenza con una scelta
ottocentesca, dalla quale non sapremo distaccarci perché
paralizzati dalla volontà di restare comunque fedeli ai "sacri
principi". Certo - l'abbiamo ripetuto più volte su queste
colonne - il nostro astensionismo si collega naturalmente, senza
soluzione di continuità, al tradizionale astensionismo che
tutti gli anarchici hanno sempre opposto alle chiamate alle urne da
parte dello Stato. Noi, però, non siamo astensionisti per
tradizione, anche se di fatto con il ripetersi ad ogni
appuntamento elettorale della nostra scelta astensionistica facciamo
"proseguire" una tradizione.
Siamo astensionisti per convinzione,
per una scelta razionale che consegue anche all'analisi della
situazione attuale e dei metodi a nostro avviso più efficaci
per far crescere la coscienza libertaria ed autogestionaria della
gente.
D'accordo, ma voi anarchici - ci siamo
già sentiti contestare da persone a noi non pregiudizialmente
avverse - siete proprio incontentabili. Vi dite internazionalisti, vi
considerate cosmopoliti, sognate l'abolizione di tutte le frontiere,
ma quando poi si compiono dei passi concreti in questa direzione, vi
rifiutate di prenderne atto e vi abbarbicate al vostro
antistatalismo, tanto "puro" quanto astratto. Chi ci muove
questa obiezione si riferisce evidentemente al processo di
unificazione europea, che iniziato all'indomani della seconda guerra
mondiale (dapprima limitatamente ad alcuni settori economici) sta per
giungere, il 1° gennaio 1993, se non al proprio compimento, certo
ad un passaggio decisivo.
Rinunciare a dare il proprio contributo
(in questo caso, il proprio voto) alla costruzione della "casa
comune" europea, significherebbe - di fatto - rinunciare a
dare una spallata alle vecchie strutture ed alle grette mentalità
nazionali. In altre parole, significherebbe chiamarsi fuori da quel
processo di superamento degli stati nazionali e di costruzione di una
realtà sovranazionale, frutto di oltre un secolo di idee e di
azione di quei settori progressisti rifacentisi a Proudhon, Cattaneo,
Mazzini, i Rosselli, ecc.. Se le cose stessero così, se
cioè l'Europa che si sta costruendo fosse davvero - o
perlomeno si volesse che fosse - qualcosa di diverso dalla
forma-Stato, se non ci si limitasse a spostare "un po' più
in là" i confini, se... allora potremmo ascoltare con
attenzione queste rimostranze dei nostri critici, riesaminare il
nostro atteggiamento, cercare di operare con metodologia e finalità
libertarie all'interno di questo processo di costruzione di una nuova
realtà sociale prima ancora che geografica.
Ma così non è. La
Comunità Europea, per com'è nata, per quanto finora ne
è stato realizzato, per quel che si prevede di fare prima e
dopo il fatidico '92, non è altro che un super-stato. Super
per territorio amministrato, super per il numero dei sudditi, super
per la sua potenza economica e per tante altre ragioni. Ma, per
quanto super, pur sempre stato: con la sua impalcatura
burocratico-amministrativa (anzi, per ora, le sue impalcature
burocratico-amministrative), il suo esercito e la sua polizia (anzi,
per ora, i suoi eserciti e le sue polizie), e così via.
Altro che ideali dei "padri del
Risorgimento"! Altro che "carta di Ventotene"! A monte
del processo di unificazione europea - di questa realmente esistente,
s'intende - ci sono le incontenibili esigenze poste dall'economia di
mercato, dalle leggi spietate della concorrenza su scala mondiale,
dall'esigenza di razionalizzazione del sistema di dominio - cioè
dello stato. C'è più il "miracolo nipponico"
da contrastare che le idee federaliste di un Carlo Cattaneo, più
la volontà di creare uno "spazio giuridico europeo"
(condizione indispensabile per la razionalizzazione della repressione
su scala continentale) che l'adesione a generosi progetti di
cosmopolitismo.
Senza trionfalismi
Questa Europa non ci interessa, anzi ci
preoccupa. Non siamo disponibili a sostenere il processo di
costruzione, anzi vogliamo denunciarne le ambiguità, svelarne
la vera identità super-statale.
Una ragione di più, per noi, per
confermare il prossimo 18 giugno il nostro astensionismo. O meglio,
il nostro euro-astensionismo.
Non saremo certo noi, comunque, a
sopravvalutare il significato ed i possibili effetti della nostra
scelta astensionista. Non nutriamo alcuna illusione di poter cambiare
il mondo in quattro e quattr'otto, tantomeno con una scelta "di
rimessa", intrinsecamente "negativa", qual'è
appunto quella del nostro astensionismo.
Evidenziamo bene l'aggettivo nostro,
dal momento che pur considerandolo un significativo indicatore del
grado di scollamento tra i cittadini/elettori ed il rito elettorale,
siamo ben lungi dal giudicare il successo o meno del nostro impegno
astensionista dal tasso di astensioni che si registreranno il 18
giugno. Tra l'astensione di chi - come noi -
rifiuta il voto in favore di altre vie più dirette, di maggior
impegno anche personale, alla vita sociale, e l'astensionismo di "chi
se ne frega (e basta)", corre evidentemente un abisso. Non ci
interessa, in sé, l'aumento delle astensioni, né magari
anche delle schede bianche e di quelle nulle. Non è questo il
nostro obiettivo. Non siamo il movimento dell'astensione e degli
astenuti.
Certo, forse mai come in occasione
delle elezioni tante nostre parole (di sfiducia verso lo stato, i
politici, ecc.) si trovano in immediata sintonia con quanto dice (o
meglio, generalmente, mugugna) tanta gente. Forse mai come nelle
nostre iniziative astensionistiche raccogliamo consensi, pacche
sulle spalle, incoraggiamenti.
Ma alla fine la grande maggioranza -
pur mugugnando, pur turandosi il naso - si reca alle urne e fornisce
così una nuova delega (tutto sommato, in bianco) al sistema.
Salvo poi, dal giorno dopo le elezioni, riprendere il solito mugugno
contro "quelli lassù" ecc. ecc.
Per noi è diverso. Il nostro
astensionismo, infatti, si colloca all'interno del nostro più
generale modo di essere, di pensare, di vivere e di lottare. Senza
trionfalismi, dicevamo, ma al contempo senza cedimenti alle sirene di
un potere che oggi si presenta per molti aspetti più
allettante e meno brutale di quello di cent'anni fa, ma che nella sua
sostanza ci appare estraneo ed antagonista alle esigenze ed alle
speranze di una vita sociale ed individuale migliore.
Il sistema di potere che noi rifiutiamo
non è solo un sistema di valori e di idee, un modo
(totalizzante) di concepire la vita associata, non è solo
un'idea quasi mitica. Lo stato di cui ci dichiariamo nemici è
una "cosa" terribilmente concreta, fatta di
quotidianità oppressiva, di alienazione, di assurdi
burocratismi, di ingenti sperperi di ricchezza sociale, di continui
tagli alle spese sociali, di progressiva militarizzazione, di
privilegi al clero, di barriere architettoniche e di altro tipo
contro gli handicappati, ecc.. Chi davvero punta al pieno dispiegarsi
delle potenzialità individuali e sociali, ad un'organizzazione
della vita associata non più dominata dal profitto e dal
cinismo, chi anche nel suo piccolo vuole costruire rapporti di
solidarietà e di non-emarginazione, abbattendo barriere
fisiche e psicologiche, chi insomma vuole utilizzare metodi di
libertà per fini di libertà (e i fini, si sa, stanno
già nei metodi), troverà nello stato - anche in quello
democratico, anche in quello sociale - un ostacolo strutturale, un
nemico da combattere. Perché, il 18 giugno, dovremmo
dargli il nostro avallo?
Astenersi non è reato
Votare non è assolutamente un
obbligo. E astenersi non è un reato. Questa piccola, semplice
verità viene regolarmente sottaciuta dai mass-media, che in
tutte le campagne elettorali hanno sempre fatto sì che molti
credessero e continuino a credere che votare sia in effetti un
obbligo di legge, contravvenendo il quale succederebbe chissà
cosa (anche l'arresto, credono molti). Questo mancato chiarimento da
parte dei mass-media non è casuale: fa parte della campagna
intensa (ed a tratti isterica) per spingere la gente alle urne. In pratica le cose non stanno così.
La Costituzione (art. 48) parla dell'esercizio del voto come di un
"dovere civico", auspicando così che la gente senta
dentro di sé la spinta a compiere questo che appunto viene
definito un dovere civico, non un obbligo legale. Non c'è
nessuna legge che imponga di votare, non c'è nessuna pena per
chi si astiene. È
solo prevista – odiosa come tutte le schedature, ma
sostanzialmente ininfluente – la segnalazione sul "certificato
di buona condotta" per cinque anni, della dicitura, "non ha
votato". L'astensionista per convinzione, tra l'altro, si trova
così accomunato a chi il giorno delle elezioni era ammalato,
fuori città o comunque impossibilitato a recarsi alle urne:
dunque, anche nel caso che i Comuni fossero in grado di applicare
concretamente questa disposizione e di trascrivere quanto previsto
sul certificato di buona condotta (il che non avviene quasi mai, per
la cronica inefficienza degli enti locali e, in qualche caso, per
dichiarato disinteresse alla questione), tale "schedatura"
non potrebbe avere alcun significato politico. C'è stato, è vero,
qualche Comune che, anche dopo le elezioni dello scorso giugno, si è
preso la briga di convocare i cittadini che non avevano votato,
chiedendo loro di giustificarsi. Si tratta di pochi casi. Ma ben
vengano, perché per noi assenteisti per convinzione –
e non per generico qualunquismo o altro – ciò costituirà
un'ulteriore possibilità per denunciare l'inganno delle
elezioni e per spiegare pubblicamente la nostra scelta. Invitiamo
pertanto fin d'ora chi ricevesse la convocazione in tal senso dal
Comune a farcene avere fotocopia ed a mettersi in contatto con la
nostra redazione.
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