Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 19 nr. 164
maggio 1989


Rivista Anarchica Online

Euroastensione perché
di Paolo Finzi

Anche in occasione del prossimo appuntamento elettorale gli anarchici confermano la propria scelta astensionista. Non si tratta di un'astratta coerenza con le posizioni espresse oltre un secolo fa da Bakunin, Malatesta e gli altri anarchici della prima generazione. Le ragioni del nostro astensionismo sono legate anche all'attualità, all'analisi della situazione odierna e dei metodi a nostro avviso più efficaci per far crescere la coscienza libertaria ed autogestionaria tra la gente

Il 18 giugno i cittadini della Comunità Europea sono chiamati alle urne per eleggere i membri del parlamento europeo, con sede a Strasburgo. Dieci anni dopo le prime euroelezioni (10 giugno 1979), si ripete dunque la solita storia.
A mano a mano che si avvicina la data, si fa sempre più intensa e martellante l'opera di "convincimento" dei cittadini da parte dell'intero sistema dell'informazione: giornali, partiti, movimenti, televisioni, intellettuali, chiese, ecc., tutti insistono sull'importanza che i bravi cittadini europei vadano a votare. Votate per questo o per quello, naturalmente. Ma soprattutto, votate. Comunque, andate a votare.
In questo sono - come sempre, come a tutti gli appuntamenti elettorali - tutti all'unisono: dalla destra alla sinistra, dal nord al sud, la musica è sempre la stessa: andate a votare.
E come sempre, come a tutti gli appuntamenti elettorali, il movimento anarchico si ritrova da solo a sostenere la posizione diametralmente opposta, quella del non-voto, dell'astensione. Per amore della precisione, c'è quasi sempre qualche formazione minore che, come noi, invita all'astensione: è successo, per esempio, qualche elezione fa con i radicali. Per queste formazioni, comunque, si tratta di un rifiuto tattico della scheda, motivato da considerazioni legate alla contingenza politica di quel momento. Spesso, anzi, questo tipo di astensione temporanea si configura come un tacito invito a far confluire i voti dei propri simpatizzanti su altre liste. Una forma certo anomala, ma nemmeno tanto, di partecipazione indiretta al sistema partitocratico.
L'astensionismo strategico (ci si perdoni il linguaggio militaresco) degli anarchici è tutt'altra cosa. È la logica conseguenza della nostra critica del sistema statale e della nostra denuncia dei suoi meccanismi - sottilmente perversi - di "costruzione" del consenso. Al contempo, il nostro astensionismo è una testimonianza - piccola quanto si vuole, ma significativa - della possibilità di rifiutare già oggi, concretamente, questo sistema, o perlomeno di non assicurargli anche il nostro avallo.
Le elezioni (politiche, amministrative, europee, ecc.) altro non sono che un gigantesco rito collettivo, una specie di messa natalizia alla quale anche i fedeli più tiepidi sono chiamati a partecipare per testimoniare così, nonostante tutto, la loro appartenenza al popolo del dio Stato. Nel momento in cui lo Stato si trova a dover affrontare sempre più acuti problemi sociali e si sforza di estendere sempre più capillarmente a tutta la società civile la sua capacità di controllo, il consenso della gente diventa sempre più importante. I cittadini devono sentirsi non solo partecipi, ma addirittura protagonisti della gestione del potere della macchina-Stato.
Del popolo del dio Stato, però, noi anarchici non ci sentiamo parte. Quel dio, anzi, noi rifiutiamo e cerchiamo di combattere. Il 18 giugno ce ne staremo a casa.

Per tradizione per convinzione
Il nostro astensionismo affonda le sue radici in motivazioni che vanno ben aldilà del rifiuto di partecipare ad un rito collettivo del quale rifiutiamo il significato e del quale denunciamo con forza l'uso strumentale che ne viene fatto.
Esso nasce innanzitutto dal rifiuto della delega di potere che lo Stato pretende comunque dai suoi sudditi per legittimare il suo ruolo e la sua esistenza. Da sempre, infatti, gli anarchici hanno denunciato nel momento elettorale una sostanziale truffa, dato che i cittadini vengono chiamati a "scegliere i loro rappresentanti" - e di conseguenza i loro governanti - in una struttura comunque di potere, cioè di netta separazione tra chi comanda e chi deve ubbidire, tra chi sfrutta e chi è sfruttato. In altri termini, le elezioni vengono presentate come il momento di massima libertà decisionale da parte del popolo, mentre è evidente - tutta l'esperienza storica dei regimi democratici è qui a testimoniarlo - che niente di essenziale può essere modificato dal responso delle urne.
Certo, cento/centoventi anni fa, ai tempi della Prima Internazionale, quando Bakunin, Malatesta e gli altri anarchici della prima generazione sostenevano l'astensionismo in polemica con le correnti "politiche" del socialismo (Marx in testa), allora i sostenitori dell'opportunità di partecipare alle elezioni potevano (forse) basarsi su qualche ipotesi credibile nell'accusare gli anarchici di non volere comprendere le potenzialità insite nella partecipazione popolare alle elezioni e di sostenere un astensionismo aprioristico, di principio, frutto di settarismo, incapacità di comprendere il nuovo, ecc..
Oggi, però, dopo decine di elezioni sempre più democratiche, tutte le volte presentate da destra e da manca come decisive per il nostro futuro, nessuno può negare l'evidenza, che cioè niente di sostanziale le elezioni hanno mai modificato.

Ma quale Europa?
Ecco dunque che il nostro astensionismo si presenta in tutta la sua chiarezza non - come vorrebbero far credere i nostri detrattori - come astratta coerenza con una scelta ottocentesca, dalla quale non sapremo distaccarci perché paralizzati dalla volontà di restare comunque fedeli ai "sacri principi". Certo - l'abbiamo ripetuto più volte su queste colonne - il nostro astensionismo si collega naturalmente, senza soluzione di continuità, al tradizionale astensionismo che tutti gli anarchici hanno sempre opposto alle chiamate alle urne da parte dello Stato. Noi, però, non siamo astensionisti per tradizione, anche se di fatto con il ripetersi ad ogni appuntamento elettorale della nostra scelta astensionistica facciamo "proseguire" una tradizione.
Siamo astensionisti per convinzione, per una scelta razionale che consegue anche all'analisi della situazione attuale e dei metodi a nostro avviso più efficaci per far crescere la coscienza libertaria ed autogestionaria della gente.
D'accordo, ma voi anarchici - ci siamo già sentiti contestare da persone a noi non pregiudizialmente avverse - siete proprio incontentabili. Vi dite internazionalisti, vi considerate cosmopoliti, sognate l'abolizione di tutte le frontiere, ma quando poi si compiono dei passi concreti in questa direzione, vi rifiutate di prenderne atto e vi abbarbicate al vostro antistatalismo, tanto "puro" quanto astratto. Chi ci muove questa obiezione si riferisce evidentemente al processo di unificazione europea, che iniziato all'indomani della seconda guerra mondiale (dapprima limitatamente ad alcuni settori economici) sta per giungere, il 1° gennaio 1993, se non al proprio compimento, certo ad un passaggio decisivo.
Rinunciare a dare il proprio contributo (in questo caso, il proprio voto) alla costruzione della "casa comune" europea, significherebbe - di fatto - rinunciare a dare una spallata alle vecchie strutture ed alle grette mentalità nazionali. In altre parole, significherebbe chiamarsi fuori da quel processo di superamento degli stati nazionali e di costruzione di una realtà sovranazionale, frutto di oltre un secolo di idee e di azione di quei settori progressisti rifacentisi a Proudhon, Cattaneo, Mazzini, i Rosselli, ecc..
Se le cose stessero così, se cioè l'Europa che si sta costruendo fosse davvero - o perlomeno si volesse che fosse - qualcosa di diverso dalla forma-Stato, se non ci si limitasse a spostare "un po' più in là" i confini, se... allora potremmo ascoltare con attenzione queste rimostranze dei nostri critici, riesaminare il nostro atteggiamento, cercare di operare con metodologia e finalità libertarie all'interno di questo processo di costruzione di una nuova realtà sociale prima ancora che geografica.
Ma così non è. La Comunità Europea, per com'è nata, per quanto finora ne è stato realizzato, per quel che si prevede di fare prima e dopo il fatidico '92, non è altro che un super-stato. Super per territorio amministrato, super per il numero dei sudditi, super per la sua potenza economica e per tante altre ragioni. Ma, per quanto super, pur sempre stato: con la sua impalcatura burocratico-amministrativa (anzi, per ora, le sue impalcature burocratico-amministrative), il suo esercito e la sua polizia (anzi, per ora, i suoi eserciti e le sue polizie), e così via.
Altro che ideali dei "padri del Risorgimento"! Altro che "carta di Ventotene"! A monte del processo di unificazione europea - di questa realmente esistente, s'intende - ci sono le incontenibili esigenze poste dall'economia di mercato, dalle leggi spietate della concorrenza su scala mondiale, dall'esigenza di razionalizzazione del sistema di dominio - cioè dello stato. C'è più il "miracolo nipponico" da contrastare che le idee federaliste di un Carlo Cattaneo, più la volontà di creare uno "spazio giuridico europeo" (condizione indispensabile per la razionalizzazione della repressione su scala continentale) che l'adesione a generosi progetti di cosmopolitismo.

Senza trionfalismi
Questa Europa non ci interessa, anzi ci preoccupa. Non siamo disponibili a sostenere il processo di costruzione, anzi vogliamo denunciarne le ambiguità, svelarne la vera identità super-statale.
Una ragione di più, per noi, per confermare il prossimo 18 giugno il nostro astensionismo. O meglio, il nostro euro-astensionismo.
Non saremo certo noi, comunque, a sopravvalutare il significato ed i possibili effetti della nostra scelta astensionista. Non nutriamo alcuna illusione di poter cambiare il mondo in quattro e quattr'otto, tantomeno con una scelta "di rimessa", intrinsecamente "negativa", qual'è appunto quella del nostro astensionismo.
Evidenziamo bene l'aggettivo nostro, dal momento che pur considerandolo un significativo indicatore del grado di scollamento tra i cittadini/elettori ed il rito elettorale, siamo ben lungi dal giudicare il successo o meno del nostro impegno astensionista dal tasso di astensioni che si registreranno il 18 giugno.
Tra l'astensione di chi - come noi - rifiuta il voto in favore di altre vie più dirette, di maggior impegno anche personale, alla vita sociale, e l'astensionismo di "chi se ne frega (e basta)", corre evidentemente un abisso. Non ci interessa, in sé, l'aumento delle astensioni, né magari anche delle schede bianche e di quelle nulle. Non è questo il nostro obiettivo. Non siamo il movimento dell'astensione e degli astenuti.
Certo, forse mai come in occasione delle elezioni tante nostre parole (di sfiducia verso lo stato, i politici, ecc.) si trovano in immediata sintonia con quanto dice (o meglio, generalmente, mugugna) tanta gente. Forse mai come nelle nostre iniziative astensionistiche raccogliamo consensi, pacche sulle spalle, incoraggiamenti.
Ma alla fine la grande maggioranza - pur mugugnando, pur turandosi il naso - si reca alle urne e fornisce così una nuova delega (tutto sommato, in bianco) al sistema. Salvo poi, dal giorno dopo le elezioni, riprendere il solito mugugno contro "quelli lassù" ecc. ecc.
Per noi è diverso. Il nostro astensionismo, infatti, si colloca all'interno del nostro più generale modo di essere, di pensare, di vivere e di lottare. Senza trionfalismi, dicevamo, ma al contempo senza cedimenti alle sirene di un potere che oggi si presenta per molti aspetti più allettante e meno brutale di quello di cent'anni fa, ma che nella sua sostanza ci appare estraneo ed antagonista alle esigenze ed alle speranze di una vita sociale ed individuale migliore.
Il sistema di potere che noi rifiutiamo non è solo un sistema di valori e di idee, un modo (totalizzante) di concepire la vita associata, non è solo un'idea quasi mitica. Lo stato di cui ci dichiariamo nemici è una "cosa" terribilmente concreta, fatta di quotidianità oppressiva, di alienazione, di assurdi burocratismi, di ingenti sperperi di ricchezza sociale, di continui tagli alle spese sociali, di progressiva militarizzazione, di privilegi al clero, di barriere architettoniche e di altro tipo contro gli handicappati, ecc..
Chi davvero punta al pieno dispiegarsi delle potenzialità individuali e sociali, ad un'organizzazione della vita associata non più dominata dal profitto e dal cinismo, chi anche nel suo piccolo vuole costruire rapporti di solidarietà e di non-emarginazione, abbattendo barriere fisiche e psicologiche, chi insomma vuole utilizzare metodi di libertà per fini di libertà (e i fini, si sa, stanno già nei metodi), troverà nello stato - anche in quello democratico, anche in quello sociale - un ostacolo strutturale, un nemico da combattere.
Perché, il 18 giugno, dovremmo dargli il nostro avallo?

 

Astenersi non è reato

Votare non è assolutamente un obbligo. E astenersi non è un reato. Questa piccola, semplice verità viene regolarmente sottaciuta dai mass-media, che in tutte le campagne elettorali hanno sempre fatto sì che molti credessero e continuino a credere che votare sia in effetti un obbligo di legge, contravvenendo il quale succederebbe chissà cosa (anche l'arresto, credono molti). Questo mancato chiarimento da parte dei mass-media non è casuale: fa parte della campagna intensa (ed a tratti isterica) per spingere la gente alle urne.
In pratica le cose non stanno così. La Costituzione (art. 48) parla dell'esercizio del voto come di un "dovere civico", auspicando così che la gente senta dentro di sé la spinta a compiere questo che appunto viene definito un dovere civico, non un obbligo legale. Non c'è nessuna legge che imponga di votare, non c'è nessuna pena per chi si astiene. È solo prevista – odiosa come tutte le schedature, ma sostanzialmente ininfluente – la segnalazione sul "certificato di buona condotta" per cinque anni, della dicitura, "non ha votato". L'astensionista per convinzione, tra l'altro, si trova così accomunato a chi il giorno delle elezioni era ammalato, fuori città o comunque impossibilitato a recarsi alle urne: dunque, anche nel caso che i Comuni fossero in grado di applicare concretamente questa disposizione e di trascrivere quanto previsto sul certificato di buona condotta (il che non avviene quasi mai, per la cronica inefficienza degli enti locali e, in qualche caso, per dichiarato disinteresse alla questione), tale "schedatura" non potrebbe avere alcun significato politico.
C'è stato, è vero, qualche Comune che, anche dopo le elezioni dello scorso giugno, si è preso la briga di convocare i cittadini che non avevano votato, chiedendo loro di giustificarsi.
Si tratta di pochi casi. Ma ben vengano, perché per noi assenteisti per convinzione – e non per generico qualunquismo o altro – ciò costituirà un'ulteriore possibilità per denunciare l'inganno delle elezioni e per spiegare pubblicamente la nostra scelta. Invitiamo pertanto fin d'ora chi ricevesse la convocazione in tal senso dal Comune a farcene avere fotocopia ed a mettersi in contatto con la nostra redazione.