Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 19 nr. 161
febbraio 1989


Rivista Anarchica Online

Giù le mani dal jazz

Cari amici, ho letto con crescente stupore l'articolo di Pino Bertelli, Cinema e rock, apparso su "A" 160. Per un cultore di jazz come me è difficile digerire il discorso di Bertelli, sia sul piano squisitamente artistico che su quello dei risvolti sociali del rock. È assolutamente inconcepibile ravvisare le radici del rock, nato negli anni '50, nel blues di Jefferson, Leadbetter o addirittura di Ma Rainey o Bessy Smith.
Il rock nasce come fenomeno prettamente bianco ed è assurdo affermare che vi sia stato un rock nero, nato nei campi di cotone o ad Harlem. Siamo su terreni completamente diversi; e se è vero che il rock nasce dal country, si deve pur dire che il country è un fenomeno bianco. Ma Rainey e Bessy Smith non c'entrano assolutamente alcunché. Al massimo si può dire che alcuni mediocri cantanti neri, nel contesto del rock bianco degli anni '50, si adeguarono prontamente, attratti dai facili guadagni e dall'estrema facilità dell'approccio musicale. Tutto qui.
Sul piano artistico il discorso è estremamente semplice. Arrigo Polillo lo ha splendidamente riassunto così: "Si trattava, sia nel caso di Haley che in quello di Presley e di chi ne seguiva le orme, di un travestimento e di una degenerazione della musica afro-americana, e quindi di un sottoprodotto del jazz... La materia sonora veniva brutalizzata, primitivizzata... e presentata con furberia, facendo leva su trucchi di sicura presa sul grosso pubblico". Si trattava, cioè, per dirla ancora con Polillo, "di una musichetta sbracata e violenta, elementare e petulante...". Questa fu la "rivoluzione" del rock sul piano artistico: un colossale business fondato su una "musica" cialtrona e bassamente sensitiva. La vera rivoluzione nelle forme artistiche è solo nella qualità: non mi pare che si possa concludere diversamente.
Sul piano sociale, sostenere il valore liberatorio, trasgressivo (per usare un termine molto alla moda) del rock significa arrampicarsi sugli specchi. Fin da subito l'industria discografica, e non, si impossessò della nuova "musica" sfruttando abilmente la follia collettiva dei giovani: il nuovo "stile di vita" fu imposto dall'industria, non scelto dai giovani. Una scelta realmente liberatoria è una scelta di qualità, soprattutto sul piano delle forme artistiche. E da questo punto di vista, la crescita culturale, che alla fine è sempre individuale, è l'unico strumento di reale liberazione.
Con grande cordialità

Antonio Donno (Lecce)