Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 19 nr. 161
febbraio 1989


Rivista Anarchica Online

Vivere da anarchici
di Vittorio Emiliani

Per oltre mezzo secolo - dai primi del '900 alla fine degli anni '60 - Armando Borghi è stato una delle figure più note del movimento anarchico di lingua italiana. Scrittore, oratore, sindacalista, profugo, la sua vita ha coinciso - come recita il titolo della sua vivace autobiografia - con "mezzo secolo di anarchia". Lo scorso dicembre si è tenuto nel suo paese natio - Castelbolognese - un interessante convegno di studi sulla sua figura, promosso dalla locale biblioteca libertaria a lui intestata. Pubblichiamo qui la testimonianza fatta pervenire al convegno da Vittorio Emiliani, giornalista e saggista (curò, tra l'altro, l'antologia di scritti di Borghi "Vivere da anarchici").

"Sono io, Armando. Cosa vuoi noi vecchi ci svegliamo presto...". Il telefono squilla alle sette, sette e mezza. Per me che tornavo dal giornale a notte fonda era davvero l'alba. Ma cosa avrei potuto dire ad un adorabile, indomabile vecchio come Armando Borghi? "Sai, per noi anziani, il tempo corre più veloce che non per voi", aggiungeva per scusarsi di quelle telefonate così mattutine.
Avevamo lavorato insieme, lui a Roma, io al Nord, ad una sua antologia di scritti. Molti noti, altri meno, alcuni inediti. E tra di noi si era stabilita, nonostante il mezzo secolo abbondante che ci divideva, un'amicizia vera, calda, piena. Anche se ci eravamo incontrati poche volte. Ci legava indubbiamente il fatto di venire dalla stessa terra, la Romagna, dalla stessa cultura in fondo, cosa che ci aveva consentito di intenderci a prima vista: bastava un nome, un luogo, una data "fatidica" a far scattare la memoria, le coordinate storiche, il senso di un contesto politico-culturale.
E poi gli piaceva che io mi chiamassi Emiliani, come Giovanni, garibaldino, uno dei settanta di Villa Glori, poi libertario, anche lui di "Castello" (ora posso confessare di aver quasi mentito a qualche vecchio anarchico romagnolo lasciando intendere che sì, insomma, una parentela con Giovanni Emiliani non era poi impossibile, e invece mio bisnonno Nicola, faentino, era ahimè così clericale da essere sbeffeggiato col nomignolo di "papalone"). Quello che mi colpì in Armando Borghi, sin dalle prime volte che lo lessi, su "Umanità Nova" ma soprattutto su "Mezzo secolo d'anarchia", fu la sua straordinaria predisposizione narrativa, una capacità di racconto non rara fra gli uomini della sua generazione, comunque fra quelli nati a cavallo dei due secoli, ma in lui speciale, forte, colorita, mai bozzettistica però, mai affetta da "romagnolismo", cioè da facili patetismi o da un eccesso di "colore locale".
La sua era una prosa densa, asciutta, tesa, specie nel dialogato (alcuni suoi "incontri" sono "letterariamente" fulminanti, per esempio quello con Benito Mussolini a Milano, dopo il "tradimento" interventista del futuro duce).

Abitudine affabulatoria
Armando Borghi scrittore nativo, naturale? Mi par proprio di sì. Come del resto un altro romagnolo che però aveva fatto del giornalismo una professione, a lungo, e con brillanti successi: parlo di Pietro Nenni i cui scritti autobiografici, pochi purtroppo, sono di forte e intensa bellezza narrativa (penso soprattutto a quelli sull'infanzia e sull'adolescenza, povere di pane e di affetto).
In fondo c'è un certo parallelismo fra i due, dal punto di vista culturale: entrambi figli di un ceto sociale povero, entrambi autodidatti, entrambi cultori di un mondo, quello francese, che allora era il riferimento inevitabile per ogni giovane "sovversivo" o comunque impegnato a sinistra (con Zola, Hugo, Sue, probabilmente, a campeggiare), entrambi romagnoli, nati a pochi chilometri e a non moltissimi anni di distanza, e cresciuti in un clima politico non troppo diverso (anche se Borghi era già ben consapevole quando accaddero, ad esempio, i fatti del '98, mentre per Nenni bambino fu il primo choc politico la carica di cavalleria seguita dalle finestre dell'orfanotrofio-collegio, in piazza a Faenza), entrambi figli di una cultura più agraria che urbana, con effetti diretti sul modo e sul gusto di narrare.
Perché dico questo? Perché, specie in Romagna, esisteva allora (l'ho potuto riscontrare direttamente in mio padre, che era nato nel '96, e in altri parenti cresciuti in quel periodo) una diffusa, radicatissima abitudine affabulatoria, una pratica serale molto mal vista da preti e benpensanti perché metteva assieme uomini e donne, anche di giovane età, che consisteva nel riunirsi, nelle cucine o nelle stalle "a filò" , a raccontare storie, vere e inventate, tramandate oralmente. Lì emergeva già un "leader", il narratore, l'affabulatore: l'uomo, o la donna, capace di narrare con più gusto, con più colore, con più incisività. Sono sempre più convinto che quell'esercizio, che quella tradizione di racconto orale (magari col concorso dei melodrammi, dei libretti d'opera allora notissimi) abbia inciso profondamente sulla formazione e sulla predisposizione a raccontare, in prosa stavolta, di ragazzi senza molti studi e senza molti libri, come Borghi e Nenni. E sulla loro immaginosità oratoria, l'oratoria a braccio, senza microfoni di sorta, magari in contraddittorio con avversari politici non meno agguerriti. Nonché sulle capacità di essere efficaci giornalisti e polemisti politici, secondo una tradizione che veniva dritta dal Risorgimento e dalle varie Gazzette, dai vari giornali e giornaletti locali (in Romagna dai titoli più fantasiosi, come "La Marmaglia", "La Poveraglia", "La Gentaglia" e così via) e dalla Francia naturalmente.
Armando poi aveva tratto un evidente profitto anche dal soggiorno bolognese e dalla frequentazione di un gruppo politico che era fatto pure di intellettuali, di gente dell'Università. Come Samaja o Bidone. Lui stesso ricorda nelle sue memorie di aver frequentato, da uditore, certe lezioni universitarie. Là dove si era formato il Costa anarchico, allievo di Carducci , capace di trascinare, per pochissimo, in politica lo stesso Pascoli, col risultato di fargli passare (per un articolo sul "Nettuno") una notte in gattabuia e di provocargli con la fifa di quelle ore un rigetto pressoché totale della politica stessa.

Breve, secco orgoglioso
Poi la grande palestra del giornalismo politico, esercitato da Borghi con fervore, con grande capacità professionale: nell'articolo diffuso, nel ritratto e nel corsivo breve, secco, orgoglioso o micidiale (per l'avversario politico, s'intende). Come la battuta che riserva sempre a Mussolini incontrato a Forlì nel periodo della "Lotta di classe": "Poco parlamentarista è come dire poco sifilitico".
Anche nelle lettere - ne conservo un pacchetto degli ultimi anni, a disposizione della Biblioteca Libertaria, naturalmente - uomini come Borghi sapevano essere pieni di vivacità narrativa: il telefono, purtroppo, ci ha privato di una grande risorsa, di un grande momento meditativo e narrativo come l'epistolario. Anche lì invece Armando sapeva essere allegro, paradossale, polemico: scrittore insomma.
Come quando, accompagnando ritagli di vecchie cose, annotava, agro e dolce insieme: "Mi par di frugare fra le rovine di Cartagine...".
Negli anni fra il 1966 e la morte, finita la fatica comune dell'antologia pubblicata dell'Alfa di Bologna col bel titolo di "Vivere da anarchici", Armando premeva molto per scrivere un ultimo libretto da dedicare ad Arturo Toscanini, il grande, generoso amico, con Salvemini, degli anni nuovayorkesi, gli anni di cui parlerà - vedo dal programma del convegno - il professor Luciano Bergonzini. Lo voleva fortemente perché sentiva di doverlo al coraggioso maestro di Parma, leader di un antifascismo, di un antimussolinismo così difficili da praticare nell'America di allora, fra gli italo-americani infatuati dal mito dell'ordine e del rispetto per l'Italia.
Non poté, oltre il proposito, oltre qualche appunto, oltre qualche lettera. Ma mi sembrò, mi sembra molto bello questo suo ostinato pensiero rivolto con ammirazione e riconoscenza all'irascibile, ineguagliabile, irripetibile Arturo Toscanini.


Armando Borghi, mezzo secolo d'anarchia

Nato a Castelbolognese (Ravenna) nel 1882, Borghi entrò giovanissimo nel movimento anarchico e nelle lotte operaie, ponendosi immediatamente in luce per le brillanti capacità di oratore e pubblicista autodidatta, e attirandosi anche numerose persecuzioni che lo accompagneranno per tutta la vita.
Trasferitosi nel 1900 a Bologna, vi svolse un'intensa attività antimilitarista e sindacale. Fin dalla sua fondazione, nel 1912, aderì all'Unione Sindacale Italiana, di cui divenne attivo organizzatore e di cui assunse nel 1914 la segreteria, dopo una lunga battaglia politica contro i sindacalisti rivoluzionari passati all'interventismo. Mantenne tale carica nel difficile periodo bellico (trascorso in internamento prima a Impruneta - Firenze - e poi ad Isernia) e negli anni della ventata rivoluzionaria del primo dopoguerra, il cosiddetto "biennio rosso" (1919-1920), quando l'USI arrivò ad avere mezzo milione di iscritti.
Nel 1920 con un viaggio avventuroso si recò a Mosca dove si incontrò con Zinoviev e con Lenin, ma ogni intesa si rivelò impossibile, e negli anni successivi Borghi accentuò sempre di più le sue critiche all'autoritario e dittatoriale regime sovietico.
Lasciata nel 1921 la segreteria dell'USI, fu costretto dall'avvento del fascismo ad emigrare prima in Francia e poi negli Stati Uniti, dove rimase dal 1926 al 1945, conducendo in condizioni di semiclandestinità una strenua lotta politica contro la dittatura di Mussolini.
Tornato in Italia dopo la Liberazione, rimase tra gli esponenti più in vista del movimento anarchico (diresse tra l'altro, dal 1953 al 1965, il settimanale "Umanità Nova", organo della Federazione Anarchica Italiana).
Autore di numerosi volumi, tra le sue opere si ricordano in particolare L'Italia tra due Crispi, Mussolini in camicia, Errico Malatesta e l'apprezzata autobiografia Mezzo secolo di anarchia.
Morì a Roma il 21 aprile 1968.