Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 19 nr. 161
febbraio 1989


Rivista Anarchica Online

Il loro cortile ed il mio
di Agostino Manni

"In verità, se guardiamo le cose senza pregiudizi, siamo portati ad ammettere che non è vero che il servizio militare non serve proprio a niente. Un obiettivo lo realizza, quando ottiene da questi ragazzi che rinuncino ai loro sogni, alla loro speranza in un mondo migliore e li trasforma in tanti pupazzi senz'anima". In questa nuova lettera dal carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, dove sta scontando un anno per obiezione totale, Agostino Manni parla dei suoi carcerieri. E di altro ancora.

Avrei voluto scrivere un "pezzo" sulla proposta di una campagna per l'abolizione della coscrizione obbligatoria, che recentemente è stata discussa in una riunione antimilitarista organizzata dal giornale Senzapatria, tenutasi a Bologna agli inizi di novembre.
L'ultimo numero di questo giornale (n. 45, dicembre '88/gennaio '89) , tra l'altro, parla diffusamente di questo argomento e pubblica anche lo stralcio di una mia lettera, nella quale - in maniera, a dire il vero, piuttosto superficiale - motivavo la mia adesione a questo progetto.
Avrei voluto parlarne più diffusamente dalle pagine di questa rivista, ma - come ho già spiegato ai suoi redattori - le mie idee in proposito sono ancora troppo confuse e, più che raccontate, meritano di essere chiarite.
Ci sono altre cose, però, delle quali vorrei parlare e sarei grato a questa rivista se mi permettesse di comunicarle a quanta più gente è possibile.
Si tratta di questo.

La parabola del pastore
Io, che non ho fatto il servizio militare, dovrei essere la persona meno indicata a parlarne, a denunciarne la brutalità, a descriverne i meccanismi di controllo e di distruzione della personalità. Ma l'ambiente nel quale mi trovo (paradossalmente, proprio per aver rifiutato di essere un soldato) è, mio malgrado, un ambiente militare.
Il Comandante del carcere militare di Bari-Palese ebbe a definire questi luoghi, una volta, "caserme senza libera uscita"; e tali essi veramente sarebbero, se qualcuno ogni tanto non si ribellasse alla loro disciplina, se noi anarchici non opponessimo continue disobbedienze ai regolamenti che vi sono applicati, all'arroganza ed al paternalismo che vi dominano.
Ma un detenuto "comune", qui dentro - e, più ancora, un obiettore "testimone di Geova" - svolge anche lui un servizio, ed è un servizio essenziale al mantenimento dell'aspetto più totalitario di tutto il militarismo, e cioè al funzionamento del carcere militare stesso.
Ma, a parte queste contraddizioni nelle "scelte" di alcune persone (le quali, in realtà, se sono qui, non è per una qualche opposizione all'esercito e al militarismo, ma perché si considerano già soldati di un'altra "armata", il cui capo - Geova - è certamente il più sanguinario e vendicativo dei generali), a parte queste contraddizioni, dicevo, io vivo qui fianco a fianco con decine di militari di leva, con centinaia di giovani soldati.
Sono quasi tutti ragazzi sui vent'anni, costretti, per "servire la Patria", a fare il mestiere più schifoso del mondo, quello che, in una vecchia canzone di Claudio Lolli, veniva illustrato con la parabola del pastore che, piuttosto che diventare ladro, finiva col fare il "cane", messo a guardia dei suoi pari, di quelli che erano nati nella sua stessa miseria, che avevano alle spalle le stesse sofferenze, e davanti agli occhi lo stesso altissimo impressionante muro, ma che avevano scelto di scavalcarlo in un'altra maniera.
Che questi ragazzi siano "costretti" a fare questo "lavoro", nessuno lo mette in dubbio: a vent'anni difficilmente si è già così opportunisti, così menefreghisti , così "carogne" da mettersi a fare - per mestiere - il guardiano della libertà altrui, quello che ogni notte dà la doppia mandata alla gabbia dei ribelli.
Sono "costretti" a fare questo mestiere, è ovvio: sono "obbligati" dalla consuetudine, dal conformismo ("lo fanno tutti e, allora, perché non dovrei farlo anch'io?"), ma soprattutto dalla paura di finire "al posto di Manni", di essere sbattuti nella mia stessa cella (come promise che avrebbe fatto il Comandante del carcere militare di Bari al caporalmaggiore che era di servizio quel giorno, se avesse insistito nel non voler firmare la denuncia a mio carico, la prima volta che rifiutai di indossare la divisa).
Questo è ciò che li determina a comportarsi nel modo in cui tutti i loro coetanei si comportano, ciò che li spinge a partir soldati, a servire lo Stato, a farsi rubare quel tanto di ragionevolezza, di voglia di vivere, di entusiasmo nel cambiare le cose, quel tanto di speranza che nella loro adolescenza stava cominciando timidamente a venir fuori, come un seme sotto la neve.

Con studiata cattiveria
Tutto questo, invece, finisce sotto la violenza degli scarponi, dietro l'anonimo grigio e il verde uguale di queste mura e di queste divise, schiacciato dalla paura di esser diversi, di esser "notati" da qualche tenente, di essere antipatici (non dico "ribelli", ma anche solo antipatici) a qualche "nonno" o a qualche superiore che poi - possono starne certi - in un modo o nell'altro gliela farà pagare.
E tutto questo, questo continuo inevitabile stillicidio di offese, di umiliazioni, di minacce (neanche tanto velate: "devi morire, spina", "ti faccio fare i vermi!", "muto e stecca!"), questa ossessionante interminabile "saponata" sul loro cervello viene condotta con studiata cattiveria (o con un'indifferenza altrettanto voluta, altrettanto calcolata), nella solitudine più mortificante, all'interno di rapporti umani degradati, insinceri, dove sole leggi sono la competitività e la consorteria, l'arroganza verso i più giovani e il servilismo verso i superiori.
Ciononostante, questi ragazzi hanno paura di finire al mio posto. . .
Vedeste le loro facce quando, per sbaglio, ne chiudono qualcuno nella cella: taluni hanno il terrore, negli occhi. Oh, non dico che la galera sia una bella esperienza; ma la libertà, per me, è qualcosa di più che potersene andare in giro, la sera, a respirare un po' d'aria, vedere un film e mangiare una pizza, prima di tornare sotto la frusta del comandante di reparto.
Il loro "cortile", in fin dei conti, è soltanto un po' più grande del nostro; ma, in compenso, io non scatto sull'attenti e non ho mai detto un "signorsì" in vita mia.

Pupazzi senz'anima
"La rinuncia alla lotta per la vita - ha scritto Emile Armand - alla Nostra lotta per conquistare la Nostra vita, conduce alla rassegnazione, vale a dire ad uno stato d'animo mille volte peggiore della prigionia, che dopotutto non è che una limitazione dell'attività corporale". Ecco, se una parola esiste, che possa definire lo stato d'animo di ognuno di quei 200.000 ragazzi che ogni anno regalano un pezzo della loro vita alla superbia dello Stato, io penso che sia proprio questa: RASSEGNAZIONE.
Ed è la stessa con la quale possiamo definire lo scopo di questa esperienza, il risultato finale che lo Stato cerca di realizzare (e che il più delle volte, purtroppo, ottiene).
Ogni parola, ogni gesto di questi ragazzi lo conferma: tutti - nessuno escluso - odiano il servizio, ne riconoscono tranquillamente l'inutilità sociale, la negatività, ne disprezzano i meccanismi autoritari; ma nessuno, nessuno di loro scommetterebbe cinque lire sulla possibilità di eliminarlo, di trasformare il sistema di cose nel quale vive, di realizzare per sé e per gli altri un'esistenza più giusta, rapporti umani più solidali, un mondo più libero.
In verità, se guardiamo le cose senza pregiudizi, siamo portati ad ammettere che non è vero che il servizio militare non serve proprio a niente, che non è vero che è perfettamente inutile. Giacché invece un obiettivo lo realizza, e pure molto importante, quando ottiene da questi ragazzi che rinuncino ai loro sogni, alla loro speranza in una vita migliore, quando li obbliga a buttare alle ortiche il meglio di se stessi - la solidarietà, il rispetto, l'amore per la libertà - e li trasforma in tanti pupazzi senza anima, in tante scimmie addestrate a saltare allo schiocco della frusta.
Anche per questo, io credo che la leva dovrebbe essere abolita, e dovrebbe essere stabilito una volta per tutte che lo Stato non ha alcun diritto di rubare a nessuno una sola ora della sua vita, che si tratta di un abuso, di una violenza, di un atto autoritario al quale ognuno di noi ha il diritto di disobbedire.
Certe volte, immagino il giorno in cui saranno in tanti ad opporre questo rifiuto; e mi vien da ridere, al pensiero che non ci saranno posti sufficienti in nessuna galera, per rinchiudere tutti questi ribelli.
Quello - non ne ho alcun dubbio - sarà il giorno più bello di tutta la mia vita.