Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 18 nr. 160
dicembre 1988 - gennaio 1989


Rivista Anarchica Online

Gli artigli della medicina
di Paolo Finzi

Il sistema sanitario, si sa, fa schifo. Uso questo eufemismo perché al momento non mi viene alcuna definizione più appropriata - e necessariamente molto più drastica.
Basta andarsi a leggere i risultati della documentatissima indagine "sul campo" svolta recentemente dal Tribunale per i diritti del malato (ne ha riferito ampiamente anche la trasmissione di RAI 2 "Diogene"), per trovare innumerevoli conferme e sempre nuovi spunti per un simile giudizio.
Francamente, penso che basti l'esperienza diretta o indiretta di ciascuno di noi, a contatto con le strutture istituzionali (pubbliche e private) della Medicina con la "M" maiuscola, per comprendere il cinismo e l'assurdità del sistema sanitario in Italia (ma non solo qui).
Alla faccia di riforme promesse, roboanti dichiarazioni e via discorrendo, la situazione di fondo è sempre la stessa. Il cittadino "malato" (e già su questa definizione ci sarebbe tanto su cui discutere) formalmente al centro di un sistema che si fonda - a parole - sulla soddisfazione dei suoi bisogni, è l'ultima ruota di un ingranaggio mastodontico, farraginoso, kafkiano: certamente assurdo e spesso patogeno, quando non assassino, ma altrettanto certamente non assurdo - anzi, perfettamente logico e funzionale - se visto dalla parte della classe medica, dei baroni-primari, della lobby dell'industria farmaceutica, ecc.: di chi, insomma, sulla Medicina ci marcia, eccome.
Le responsabilità di questa situazione sono molteplici, tra loro intrecciate, incancrenite nel tempo. Si va dalla politica sanitaria dei vari governi che si sono succeduti, al ruolo particolarmente pesante giocato in questo settore dalle istituzioni religiose (con tutto il peso condizionante dell'ideologia cattolica), dal menefreghismo di molti a pesanti retaggi culturali.
È facilissimo - e più che legittimo - parlare male del sistema sanitario. Più complesso, come sempre, è cercare di approfondire la conoscenza di suoi singoli aspetti, metterne in luce mentalità abominevoli e pratiche conseguenti, e soprattutto operare concretamente per contribuire a cambiare le cose.
Spunti decisamente interessanti per riflessioni di questo tipo li ho colti assistendo ai lavori del convegno internazionale "Prima le donne e i bambini. Nascita e parto, cosa cambiare", promosso dal Centro Studi e Ricerche sulla Maternità (via Bagutta 12, 20121 Milano) e tenutosi presso l'ospedale milanese San Carlo il 19 ed il 20 novembre.
Decine di relazioni, proiezioni di diapositive, tabelle, ecc... presentate da operatrici ed operatori del "settore", hanno affrontato la questione gravidanza/parto, una volta tanto sottratta agli artigli della Medicina e restituita a chi di questo processo assolutamente "naturale" dovrebbe essere protagonista ed invece - una volta entrato nel mondo della Medicina - ne diviene solo un oggetto, a volte una vittima: la donna (gestante, puerpera) ed il bambino.
È stata proprio l'ineluttabilità della medicalizzazione della gravidanza ad essere al centro dell'approccio critico di molte delle intervenute. Sull'argomento vi sono numerosi saggi, ricerche, studi scientifici: impossibile riassumerne in questa sede nemmeno le tesi principali. Ci si accontenti - per intendere la portata del problema - della constatazione che da tempo, in Italia, praticamente il 100% dei parti (con pochissime eccezioni) avviene in ospedale. E che in ospedale, diciamo nel 95% dei casi, la donna è sottoposta ad un trattamento di routine, che di tutto tiene conto fuorché delle necessità sue e del nascituro/neonato.
Grazia Colombo, sociologa presso la USSL 67 di Garbagnate Milanese, ha presentato i risultati di un'indagine condotta estensivamente negli ospedali lombardi (regione, si badi bene, considerata all'avanguardia in Italia in questo campo), da cui risulta che - per esempio - praticamente mai medici e ostetriche "si presentano" alla partoriente (dicendo il proprio nome), né le spiegano che cosa le stanno per fare o le stanno facendo né il perché, tantomeno le chiedono se è d'accordo. Da questa e da altre relazioni emerge la realtà di una vera e propria "catena di montaggio", tarata sulle necessità e le comodità degli "operatori sanitari": da più parti si è sottolineato che tutta una serie di interventi anche di tipo "chirurgico" (quindi per niente irrilevanti per la donna) - quali il taglio cesareo o l'episiotomia (un'incisione tra vagina ed ano "per evitare lacerazioni") - vengono effettuati in modo sistematico solo per rendere più rapido il parto, senza alcuna attenzione alle opinioni della donna e alle conseguenze sulla sua pelle.
Per analoghe ragioni, c'è chi ha evidenziato che negli ospedali spesso si interviene in vario modo per far anticipare o ritardare l'evento-parto, in modo che non avvenga quando è "scomodo" per i medici (di notte, per esempio).
Lo stesso uso e abuso di pratiche dolorose (la visita interna "invasiva") o in varia misura "a rischio" (dall'ecografia all'amniocentesi), così come la raccomandazione alla gestante di frequenti visite ginecologiche (che, anche quando fatte nell'ambito della struttura pubblica, vengono fatte passare come visita privata, quindi profumatamente pagata... "a meno che Lei voglia mettersi in lista, tenga presente che per i prossimi due mesi però il dottore e impegnato"), tutto ciò viene fatto passare per il "progresso della scienza" mentre incrementa solo il portafogli dei ginecologi e soprattutto - quel che è ancora peggio - perpetua quel sistema di delega totale della propria vita, salute e dignità che è la cornice - e la base di legittimazione - dell'attuale sistema assurdo e disumano.
Le resistenze al cambiamento, in questo come in molti altri campi, sono fortissime. Ne è un esempio il sostanziale naufragio della legge regionale lombarda n. 16/1987, "legge di iniziativa popolare" è stato sottolineato, che ha fissato sulla carta tutta una serie di principi e di provvedimenti in netta controtendenza con la sempre più accentuata medicalizzazione della maternità. Ed anche dove il personale medico e paramedico si è impegnato a fondo in questa direzione, senza aspettare - per quanto possibile - l'aiuto delle strutture sanitarie ufficiali e ristrutturando in senso più umano i luoghi ed i tempi dell'evento-parto (come nell'ospedale pubblico di Zevio - Verona), la struttura ospedaliera si è confermata in sé ostacolo per certi aspetti insuperabile per una sua umanizzazione.
Se interessante è apparsa l'esperienza delle "case di maternità" diffuse ormai a centinaia negli Stati Uniti e presentate al convegno dall'ostetrica newyorkese Ruth Watson Lubik, indubbiamente l'iniziativa più stimolante anche da un punto di vista libertario è quella portata avanti a Milano da alcuni anni dal gruppo della Lunanuova.
Si tratta di un gruppo composto (attualmente) da sei ostetriche, tutte con esperienza di lavoro nelle strutture pubbliche, impegnate - come si legge nel loro statuto - a "diffondere informazioni sull'evoluzione della gravidanza, del parto, del puerperio, per consentire alla donna una gestione maggiore della propria salute, per contribuire alla demedicalizzazione dell'evento nascita". In pratica, questo gruppo - oltre ad organizzare gruppi di incontro settimanali durante la gravidanza e periodici durante il primo anno del bambino - assicura consulenze e visite ostetriche, assistenza durante il travaglio ed il parto in ospedale e soprattutto assistenza al parto in casa (hanno "realizzato" a tutt'oggi 29 parti in casa) ed al puerperio dopo dimissione precoce dall'ospedale.
Niente di sovversivo, certo. Eppure dalla lucida relazione al convegno di una di loro (Rossana Schejola) e, in parallelo, dalle mille denunce della situazione ospedaliera, è emersa la carica dirompente - innanzitutto sul piano culturale - delle proposte e dei metodi di lavoro della Lunanuova (per contatti: Clara Chiodini).
Contrastare concretamente la medicalizzazione del parto e addirittura impegnarsi per sottrarlo ai luoghi della Medicina (simboleggiati dall'Ospedale) e riportarlo nel suo ambito naturale - la casa - senza per questo rinunciare a quanto di positivo può assicurare la scienza, non è cosa di poco conto. Il fatto che i Baroni e la Medicina ufficiale guardino alla loro esperienza con un misto di sufficienza e di derisione non può che essere fonte di conforto e di impegno a proseguire.
Prima le donne e i bambini, dunque. E fuori i baroni.