Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 18 nr. 160
dicembre 1988 - gennaio 1989


Rivista Anarchica Online

La loro droga
di Carlo Oliva

Si può dire quello che si vuole, sull'ottimo Craxi, ma non che non abbia il genio di far parlare di sé. Sarà un pessimo ideologo, non lo nego, un politico discutibile, uno statista dalle dimensioni drammaticamente inferiori a quelle che afferma di avere, ma come protagonista di questa nostra società dello spettacolo è grande. Dategli un cavallo bianco da cavalcare, o, fuor di metafora, un argomento capace di far presa sull'immaginario popolare e su quello dei media, e vedrete che dalla luce dei riflettori non riuscirà più ad allontanarlo nessuno.
Così, da un paio di mesi ci sta facendo discutere tutti, con notevole vantaggio della sua immagine pubblica, e, suppongo, del suo ego, sulla proposta di "risolvere" il problema della droga bastonando ben bene i tossici. Una proposta tipicamente spettacolare, che affronta un problema drammatico con un piglio ad effetto, secondo le regole di quella che una volta si definiva strategia da caffè ("saprei io come metterli tutti a posto, quelli..."), senza tenere in gran conto i dati disponibili sull'argomento e le opinioni degli operatori qualificati. Non gli importa, a quanto pare, se la bella pensata ha spiazzato il suo partito, che l'ha fatta propria dopo molte esitazioni e in forma variamente attenuata, e ha permesso di darsi un tono libertario e permissivista con poca spesa ai suoi concorrenti diretti (persino ai democristiani): quello che conta, evidentemente, al di là della stessa dialettica politica, è la capacità di tenere il campo delle comunicazioni pubbliche. E si sa che le condizioni del circuito dell'informazione in Italia danno a questo riguardo ogni desiderabile garanzia.

Come l'araba fenice
Sul merito, in fondo, non c'è molto da dire. Si è già detto molto (vi ho accennato anch'io, in altra sede) sull'insita immoralità di un progetto che intende trasformare in colpevoli di una certa situazione coloro che ne sono evidentemente le vittime. È un'immoralità che fa parte della peggior tradizione politica italiana, e risale, in ultima analisi, a una concezione dell'uomo che, in quanto peccatore, si procura da sé i propri mali, che risale per lo meno alla Controriforma, se non direttamente ad Agostino: nulla a che fare, naturalmente, con il pensiero laico, per non dire di quello socialista, ma comodo per chi governa, perché gli affida il compito di impedire ai sudditi-cittadini di farsi del male, generalmente mediante una serie di divieti e di punizioni.
Vietare e punire, naturalmente, è molto più facile che non organizzare una società complessa, disomogenea e ideologicamente disorientata, in cui, fra l'altro, i propositi di severità, quando dichiarati, raccolgono, proprio perché facili da comprendere, un appagante consenso.
Naturalmente decidere che è vietato drogarsi, e che chi si droga sarà punito è una cosa, e dettagliare il principio e il relativo divieto in norme positive è un'altra. La definizione scientifica di che cosa è una droga è come l'araba fenice, soprattutto quando si vuole comprendervi a priori i derivati dalla cannabis ed escludere l'alcool e il tabacco, che fanno altrettanto male, ma hanno uno stato giuridico e commerciale notoriamente diverso.
La polemica tradizionale sulla distinzione tra "droghe leggere" e "droghe pesanti" è ingenua, e per di più risolve in partenza il problema, perché unifica con il sostantivo ciò che distingue con l'aggettivo, il che praticamente impone di stabilire il principio, così caro a tutti i proibizionisti, per cui chi comincia con le une finisce irrimediabilmente con le altre (e sarà vero, forse, nelle condizioni attuali del mercato, ma è cosa che da queste condizioni dipende, e del resto aspettiamo con ansia un'analisi su cosa succede a chi comincia con il barbera o con le emme esse). D'altronde, si sa che quella di "droga pesante" è una categoria, al più, merceologica, che gli oppiacei e la cocaina hanno effetti diversi e rispondono a modalità di commercializzazione e di consumo diverse, che tutti i prodotti che si trovano in farmacia con o senza ricetta sono un'altra cosa ancora. In generale, la situazione è tale per cui è lecito aspettarsi un provvedimento che irrigidisca la situazione, lasciando tutto come sta, ma introducendo il principio della punibilità dei consumatori, che sono l'anello più debole della catena e quindi le vittime designate, oltre che della loro personale scelta di morte, di un sistema che ha sempre trovato assai confacente ai propri interessi il mostrarsi forte con i deboli.
Quella di definire a norma di legge un principio morale concernente un comportamento privato è certamente una bella pretesa. Ma fatto sta che, al di là delle statuizioni morali, si è anche detto che l'abolizione del principio della "modica quantità" (un altro dei portati della cultura di quegli anni '70 cui oggi è uso attribuire ogni possibile nocività), deve servire soprattutto a permettere una repressione adeguata dell'attività degli spacciatori. E qui la proposta, da semplicemente ineffabile, comincia a farsi pericolosa, perché incorpora e afferma implicitamente il principio per cui il problema principale è quello del piccolo spaccio, a quel livello, diciamo così, terminale a cui consumatore e spacciatore si identificano.

Un grande bla bla
Con il che, saremmo davvero a posto. La nuova normativa assegnerebbe definitivamente alla malavita un intero settore sociale che oggi si colloca piuttosto ai suoi margini, affidandolo alle amorevoli cure delle forze dell'ordine e a quelle degli staff carcerari (sulle cui potenzialità come strumento di recupero sociale abbiamo tutti qualche idea), proprio quando aumenterebbe la sua dipendenza dalle strutture della grande criminalità, cui non si vede, d'altronde, quale gran danno dal provvedimento potrebbe derivare.
Il tutto, naturalmente, sarà condito da un grande bla bla, sulla necessità di garantire il recupero, prescrivendo magari l'affidamento del tossicodipendente a comunità che non esistono (e quando esistono escludono, in genere, come non efficace l'internamento coatto), sull'opportunità che la scuola ammonisca i giovinetti su quanti rischi comporti l'assunzione di certe sostanze, come se non lo sapessero già tutti benissimo, e via dicendo. Di chiacchiere vane la classe dirigente italiana è prodiga quasi quanto di divieti. Il principio secondo cui dell'assoluta efficienza delle strutture messe a disposizione dei cittadini non si deve mai dubitare, per quanto universalmente nota sia la loro inefficienza effettiva, ha per i suoi esponenti valore di dogma.
Il fatto è che i bisogni della gente, per costoro, sono qualcosa di ignoto e remoto, che non giunge fino al mondo chiuso in cui giocano, a nostre spese, la loro partita. Nessuno di loro saprà mai dell'infelicità che spinge tanti esseri umani a percorrere fino in fondo la via della droga, delle sue cause e delle relative responsabilità collettive. D'altronde, perché dovrebbero curarsene? Non certo per agire: ad agire, per lo più, non pensano affatto. Vietare e punire è molto, ma molto più facile. E molto più appagante. È la loro vera droga.