Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 18 nr. 158
ottobre 1988


Rivista Anarchica Online

A teatro con Sylvia Plath
di Alessandra Calanchi

A ormai venticinque anni dal suo suicidio, Sylvia Plath è assurta a simbolo del movimento di liberazione della donna. Uno spettacolo teatrale allestito dal laboratorio Teatro 4 ne ripropone il pensiero e la sensibilità.

I.- "Mi sento lenta come la terra. Sono molto paziente, girando intorno al mio tempo, i soli e le stelle mi considerano con attenzione".

(Tre donne: prima voce)

Chi ricorda Sylvia Plath, poetessa americana suicidatasi nel 1963 all'età di trent'anni, ricorderà anche il carattere essenzialmente drammatico della sua poetica, sempre in bilico fra confessional poetry e monologo - o dialogo - tragico. Mi ero chiesta, in passato, se il suo linguaggio spezzato e le sue immagini metaforiche e quasi metafisiche non potessero trovare una espressione sul palcoscenico; e per questo ho seguito con interesse lo spettacolo "Sylvia" allestito da una modesta compagnia di provincia - il Laboratorio Teatro 4 - che si è esibita in prima nazionale a Castello d'Argile (Bologna) il 31 ottobre scorso.
Il testo ricalca fedelmente Tre donne. Poema per tre voci, un radiodramma in versi trasmesso per la prima volta dalla BBC il 19 agosto 1962 (lo stesso anno in cui Sylvia Plath ebbe il secondo figlio, Nicholas); ma ad esso sono aggiunti e sovrapposti elementi tratti da varie poesie e una serie di "quadri" che vogliono spezzare il ritmo della narrazione sottolineando l'irruenza dell'"incalcolabile malignità del quotidiano" nella vita così come in quella che è la rappresentazione della vita stessa: il passaggio del tempo, la marcia dei militari, Sylvia bambina e il padre nazista immaginario, Hiroshima e l'uccisione dei coniugi Rosenberg sulla sedia elettrica, il boogie-woogie dei tempi del college, lo sterminio ebraico sono tutti "flash" che colpiscono con violenza la vista e l'udito degli spettatori, sono altrettanti buchi nella mente di Sylvia, "mancanze", occasioni di sofferenza o di memoria. La maternità - è questo il tema di Tre donne - viene vista da tre angolazioni (la madre che tiene il figlio, quella che abortisce e quella che lascia il proprio figlio in adozione), ma la regista - Daniela Nicosia - vuole suggerire che "le tre voci... divengono in realtà tre proiezioni di un unico pensiero, che si frantuma nell'esperienza di ritrovarsi riflesso nello specchio in cui forse giace nascosta la verità dell'individuo e della vita".

2.- "È questo dunque il mio peccato, questo vecchio morto amore della morte?"

(Tre donne, seconda voce)

Il tema della maternità acquista un'importanza particolare se pensiamo al suicidio di Sylvia Plath, convinta di uccidere il male che era dentro di lei, e quindi spiegabile - pure nella sua ottica distorta - con un ardente desiderio di vita. La nascita diventa simbolo di questa stessa vita, è la prova del continuo passaggio fra concepimento, distruzione e rigenerazione. Questo ci fa capire la "consuetudine" di Sylvia con la morte e la sua visione del suicidio come punto di passaggio. Il suicidio, per la Plath, rientra nei gesti liberatori: "La morte vera è quella inflitta dalle istituzioni (...), si chiami esecuzione dei Rosenberg sulla sedia elettrica o elettroshock".
In secondo luogo, i neonati rispecchiano l'innocenza del mondo, come gli ebrei torturati dalle SS, come i deboli sopraffatti dai più potenti. E una madre è ancora più fragile, se si pensa all'enorme compito e responsabilità che le vengono affidate; per questo motivo all'inizio della versione teatrale di Tre donne il verso "non era pronta" viene ripetuto in un'eco infinita, viene frantumato in molteplici voci che si rincorrono e si rispondono l'un l'altra. A questo proposito è molto importante il gioco delle ombre e delle luci sul palcoscenico; luci violente e improvvise che ricalcano la violenza di una sala parto, o viceversa oscurità assolute che avvolgono palcoscenico e spettatori in una morsa inquietante eppure, nello stesso tempo, rassicurante come quella del feto, dell'embrione. Scrive Sylvia Plath ne La campana di vetro: "Pensavo che la cosa più bella al mondo fosse l'ombra, tutte le forme che si muovevano a milioni e i vicoli ciechi d'ombra". All'oscurità Sylvia associa il movimento, la vita, il brulichio di forme e cose; al contrario la luce smaschera l'illusione, scopre l'immobilità e la piattezza, che è morte. Le facce, illuminate dalla luce, sono "flat", piatte e senza volto (le "faceless faces").
La maternità è insieme gioia e sofferenza, fa parte dei doveri verso la società, è momento che cessa di essere individuale per diventare collettivo e spersonalizzante; e questa collettività è di peso alla donna, circondata com'è da uomini e specchi che le sottraggono la propria identità. Gli uomini giocano un ruolo importante nella rappresentazione: alle tre "madri" (le attrici sono Piera Dattoli, Renata Mazzanti e Clara Libertini) si aggiungono il padre di Sylvia (l'"uomo nero, (...) scarpa nera in cui trent'anni ho vissuto", amato e perduto all'età di dieci anni, tanto da far scrivere alla Plath ne La campana di vetro: "ero vissuta pienamente felice solo all'età di nove anni"), il marito Ted Hughes (che sottolinea il momento felice in cui "le parole respirano", ma che lascerà poi sola Sylvia col suo inferno di visioni), i militari (simbolo di potere e violenza; la Plath, contro la guerra, aveva già scritto un commento pubblicato sul "Christian Science Monitor" nel 1950), e infine c'è il Tempo, figura anch'essa simbolicamente personificata in un personaggio maschile, che "dirige la grande orchestra dei destini dell'uomo. Scavalca la sofferenza, inghiotte la gioia, avvolge la memoria".
Sono tutti volti maschili rappresentati da un solo attore (Labros'Mangeras), a indicare che si tratta di tanti aspetti dello stesso potere e della stessa violenza. Il" Tempo" in particolare, in apertura e chiusura della rappresentazione, inizialmente singolo e alla fine duplicato all'infinito in una serie di specchi labirintici, è una interessante chiave di lettura di tutta la rappresentazione. È il Tempo che accende e spegne le luci (simboleggiate dalla luna), che "ricompone i frammenti, unifica e rivela"; è il Tempo il padrone dei nostri destini, è il Tempo che unisce le tre donne in una donna sola, che dà unità alla rappresentazione stessa. Come Prospero ne La tempesta di Shakespeare, è il Tempo, metà uomo e metà dio, che stabilisce la fine e l'inizio della rappresentazione così come della vita.

3.- "Non ero pronta. Le bianche nuvole alzandosi ai lati mi trascinavano in quattro direzioni. Non ero pronta".

(Tre donne, terza voce)

Sylvia Plath, assurta in seguito a uno dei simboli del "women's lib.", espresse più volte il suo distacco dall'America nelle sue forme di violenza (le esecuzioni capitali, le istituzioni come i manicomi, il sesso come violenza carnale, l'etica del successo ad ogni costo). Ne La campana di vetro, la maternità è qualcosa che si impara anch'essa in maniera violenta.
C'è una scena in cui il fidanzato, Buddy - studente di medicina e arrampicatore sociale, del tutto privo di sensibilità - fa vedere a Esther, in ospedale, "i bambini morti prima di nascere", e poi la porta ad assistere ad un parto. Penso che la regista avesse in mente anche questo brano quando ha portato sulla scena Tre donne:
"Voi ragazze non dovreste vedere queste cose - sussurrò Will al mio orecchio. - Se le vedete non desidererete più avere bambini". (…) entrammo nella sala. Fui così colpita dalla vista del tavolo (...) che non dissi una parola. Pareva una specie di orrenda tavola di tortura (...) il ventre le si era sollevato al punto che non le scorgevo né la faccia né la parte superiore del corpo. Pareva che non avesse altro che un ventre enorme, come un grosso ragno (...) Bene, ella se ne sarebbe tornata a casa a fabbricare subito un altro bambino, perché la narcosi le avrebbe fatto dimenticare quanto mostruoso fosse il dolore passato, e invece tutto il tempo, in qualche parte segreta di lei, quel lungo e cieco corridoio del dolore, senza porte e finestre, stava là in agguato aspettando di aprirsi un varco per chiudercela dentro di nuovo (...)".
Essere "pronta", allora, significa per la donna essere consapevole di tutto questo, accettare questo "corridoio del dolore" che è tanto simile come immagine al "braccio della morte" dei condannati, e che riporta in realtà alla raffigurazione simbolica dell'utero, da cui inizia la vita. Le suggestive voci fuori campo di Alberta Tosi, specialmente quando il palcoscenico non è illuminato, ci giungono come "un grido, la cosa nera che dorme dentro di me"; un'eco senza volto di immagini sospese in un cerchio di morte, ma in cui giace forse la verità della vita.