Rivista Anarchica Online
Dietro lo stupro
di Fausta Bizzozzero
Alla base c'è la concezione
della donna come essere inferiore ma pericoloso (perché
incomprensibile e "potente"). Una concezione dura a morire perché
stratificata nei meandri più profondi dell'immaginario
collettivo e dell'inconscio individuale. I casi sempre più
frequenti di stupro collettivo: il "coraggio" di fare nel
branco quello che da soli non si farebbe mai.
Martedì 29 marzo, pag. 18 del
quotidiano La Repubblica, titolo "Una bimba per divertirmi",
storia di Alessandro Moncini, stimatissimo vicepresidente della
Triestina calcio, membro del Rotary Club, massone, imprenditore, e di
un suo piccolo "vizietto": la pedofilia sadica. Stesso
giorno, pag. 19, titolo "Per due mesi violentata da sette
compagni di scuola": storia di una ragazzina acqua e sapone
torturata in ogni modo da sette "bravi ragazzi" della
borghesia monzese. Stesso giorno, stessa pagina, titolo "Stupro
alla clinica universitaria": storia di una allieva infermiera,
anch'essa acqua e sapone, violentata in uno sgabuzzino da un
infermiere anziano. Stesso giorno, stessa pagina, titolo "Sì,
abusò delle figlie ma non fece scandalo": storia di un
genitore quasi perfetto condannato a due anni di reclusione ma subito
rilasciato dietro il pagamento di un risarcimento danni alle figlie
di 10 milioni e 400 mila lire.
Una giornata neanche tanto eccezionale
nel triste panorama di questi ultimi anni che hanno registrato un
notevole aumento delle denunce per reati sessuali, per violenza
carnale e per atti di libidine violenti. Da una accurata ricerca
compiuta da Carmine Ventimiglia e pubblicata recentemente da Franco
Angeli col titolo significativo "La differenza negata",
risulta che nel 1986 le denunce sono aumentate del 13,44% rispetto al
1985 e del 16,10% rispetto al 1982. E i dati relativi alle denunce, è
ovvio, non sono esaustivi di una realtà ben più ampia
ma sommersa, quindi difficilmente quantificabile, per cui si stima
che esista un rapporto di incidenza tra il 5 e il 15% degli episodi
denunciati rispetto a quelli taciuti.
Dall'analisi dei dati conosciuti,
comunque, Carmine Ventimiglia evidenzia cinque caratteristiche: una
crescita esponenziale della violenza (nel 60% dei casi l'aggressione
sessuale è accompagnata da altre forme di violenza), una
maggiore incidenza degli stupri di gruppo (circa la metà vede
come autori più di una persona), un rapporto inversamente
proporzionale tra l'età dell'autore e quella della vittima
(più aumenta l'età dell'autore, più diminuisce
quella della vittima), un progressivo abbassamento dell'età
degli uni e delle altre, e infine un aumento delle denunce contro
ignoti.
La paura delle donne
Fin qui i dati asettici delle
statistiche che confermano, nel campo specifico, una tragica tendenza
che chiunque con un minimo di sensibilità può
verificare nella vita quotidiana in mille forme: dai fenomeni più
macroscopici come la violenza negli stadi, ai piccoli gesti violenti
o di sopraffazione contro persone o cose nella metropolitana, ai
mille episodi di razzismo verso i diversi di ogni tipo. Chiunque può
"sentire" questa violenza diffusa, chiunque può
sentire l'angoscia e l'impotenza di fronte alla degradazione dei
comportamenti umani. Infatti, se la violenza in genere, e quella
sessuale in particolare, appare ineliminabile in quanto elemento
costitutivo della nostra cultura, allora diventa leggibile e
comprensibile anche l'apparente contraddizione che si può
riassumere nell'equazione: maggiore "progresso", maggiore
sviluppo tecnologico-scientifico-economico-culturale=maggiore
aggressività, maggiore violenza sessuale, maggiore violenza
diffusa.
D'altro canto, se questo modello
culturale occidentale ha "vinto" su tutto il pianeta
cancellando sulla sua strada storica e geografica ogni cultura di
segno diverso, è proprio per questa sua essenza che
sembrerebbe immodificabile. Il panteon degli dei e degli eroi greci -
a cui risalgono tanti dei nostri archetipi culturali - rigurgita di
violenza e soprattutto di atti di violenza sessuale; addirittura si
può dire che lo stupro di dee o di mortali è lo sport
più praticato tra gli dei dell'Olimpo.
Cercare di capire perché questi
dei violenti, sopraffattori, vendicativi e misogini si siano imposti
spodestando altri culti precedenti (la Grande Madre, Iside, Istar,
ecc.) e abbiano quindi imposto la concezione della donna che sussiste
tutt'ora è un compito difficile ma che prima o poi dovrà
essere affrontato. Ora quello che forse possiamo/dobbiamo cercare di
capire è il senso della violenza sessuale, i meccanismi
psico-culturali che la producono, i meccanismi attraverso i quali si
tramanda da una generazione all'altra. E inoltre esiste una relazione
tra violenza sessuale e violenza in genere, e se esiste di che natura
è?
La paura delle donne in quanto legate
alla natura, ai cicli biologici, in quanto detentrici della capacità
di dare la vita, in quanto "altro" da sé,
inconoscibile e incomprensibile, è certamente alla base di
questi atroci comportamenti maschili. Secondo Carmine Ventimiglia è
proprio in questa paura la chiave della violenza sessuale: "La
relazione sessuale è il luogo del simbolico in cui il prodursi
della violenza segnala contemporaneamente l'intolleranza verso la
diversità e l'esercizio visibile del suo controllo in una
relazione di contrapposizione dove la differenza è assunta
solo come momento di negazione o di dominio. (...) In altri termini
lo stupro, sul piano sociale, sottende non una aspirazione alla
dissidenza, tipica spesso di altre forme di violenza, ma di
conferma, sia pure esacerbata, di quella topologia che
dandosi come equivalenza generalizzata consente l'esercizio della
differenza solo all'interno di relazioni di dominio o di controllo.
(...) Si potrebbe continuare a conferma ulteriore che se in generale
la violenza si ripete nella storia umana, in particolare è lo
stupro che si reitera con rituale precisione. Ancorché
penalizzato, va detto. Ma anche in questo caso, dalla lex
taglionis in avanti, la diversità delle forme repressive
adottate non riguarda tanto la violenza in sé contro la donna
ma il suo risvolto sociale all'interno delle reti dei sistemi
ideologici e relazionali. In questo senso, al di là del gesto,
lo stupro è sempre stato un atto simbolico, vettore di
riproduzione "di un dominio che, pur essendo individuale,
riproduce, ribadisce, veicola un dominio sociale" (T. Pitch
,Violenza e controllo sociale sulla donna, in AA.VV., La
violenza interpretata)".
Lo stupro quindi, e la violenza
sessuale, come gesto emblematico che attraverso la riduzione della
differenza/diversità dell'altro da sé in un rapporto di
dominio conferma l'esistenza stessa dello stupratore, conferma la
sovranità illimitata del logos dei simili (cioè degli
uomini) sull'eros. In questa luce è facile immaginare il senso
di potenza che può provare un uomo quando impone con la forza
un rapporto sessuale, quando inchioda e penetra una donna contro il
suo volere anzi, da tutte le testimonianze raccolte risulta che più
la donna si ribella e si dibatte, maggiore è la soddisfazione
e il godimento dello stupratore, e comunque si dà sempre per
scontato che l'altra, alla fine, debba provare piacere, che comunque
esista un consenso di fondo seppure tacito, muto.
Ma tutto questo non avrebbe alcun senso
se non esistesse quella riduzione, quella concezione della donna come
essere inferiore ma pericoloso (perché incomprensibile e
"potente") e quindi da dominare.
Una concezione dura a morire perché
stratificata nei meandri più profondi dell'immaginario
collettivo e dell'inconscio individuale e, cosa ancora più
grave, introiettata anche dalle donne stesse che, vittime sacrificali
o merce di scambio nel corso della storia conosciuta, contribuiscono
tuttora a trasmettere ai figli maschi quell'immagine dis-valorizzata
e dis-valorizzante. Basti pensare ai comportamenti delle madri di
stupratori durante i processi più recenti come quello di Roma.
Basti pensare agli incesti che si verificano quasi sempre con
l'acquiescenza delle madri. Basti pensare alle madri dei ragazzini di
buona famiglia che a Monza hanno torturato per mesi una loro
coetanea. Quale idea hanno - o possono avere - di se stesse o delle
altre donne?
Polli d'allevamento
Pensarlo fa venire i brividi e dà
la misura di quanto poco in profondità abbiano inciso il '68 e
il femminismo nella cultura e nella società. O forse, chissà,
proprio la maggiore consapevolezza, sicurezza di sé e libertà
di una fascia seppure limitata di donne, mettendo in crisi le
ataviche certezze maschili può costituire una delle cause di
questa escalation di violenze sessuali? Difficile dirlo, anche perché
l'aumento dei casi di violenza sessuale ha evidenziato un
abbassamento della fascia d'età sia degli stupratori sia delle
vittime e un aumento degli stupri di gruppo, per cui sembrerebbe che
proprio le generazioni cresciute dopo il '68 siano quelle che
esprimono la concezione della donna più retriva e tradizionale
e una carica di aggressività e di violenza maggiore. Infatti i
casi di stupri collettivi hanno quasi sempre come protagonisti dei
giovani che, si può supporre, trovano nel "branco"
il "coraggio" di fare cose che non farebbero mai da soli,
di dimostrare - ma ci deve essere qualcuno che assiste, altrimenti che
gusto c'è - la propria "virilità". Chi ha assistito alla trasmissione
televisiva del processo di Roma e ha visto le loro facce di bravi
ragazzi, e ha sentito le loro parole prive di qualsiasi emozione, ha
potuto rendersi conto della loro "povertà": questi
saranno a loro volta padri ed è facile immaginare cosa
potranno trasmettere ai loro figli, quale concezione dell'uomo, della
donna, del mondo.
E come loro ce ne sono tanti, tanti di
cui non sapremo mai nulla, "polli d'allevamento" di un
mondo che produce piccoli mostri in serie, piccoli teppisti privi di
qualsiasi morale e privi di cuore, incapaci di grandi gesti
individuali nel bene o nel male perché i grandi gesti,
comunque, richiedono coraggio e un pizzico di genialità. In
questo senso, per quanto sono vuoti, meschini, inesistenti, per la
loro pochezza di cui sono del tutto inconsapevoli, possono anche fare
un briciolo di pena perché, che ci piaccia o no, sono
anch'essi vittime di un ingranaggio micidiale, che contribuiscono a
mantenere in funzione. Ma si tratta, in realtà, di una pena,
di un male al cuore che riguarda tutto quanto l'andamento del mondo e
tutta quanta la violenza che produce in una spirale che si
autoalimenta continuamente, e tutta quanta la sofferenza che gli
esseri umani si infliggono vicendevolmente.
Ma subito questa pena, questo male al
cuore, si trasforma in rabbia, nella voglia e determinazione di fare
qualcosa perché tutto questo non avvenga più, perché
si possa trovare un modo di rapportarsi tra uomini e donne senza
farsi del male, riconoscendo la diversità dell'altro come una
ricchezza.
Una vocina, dall'interno, mi sussurra:
"Come se fosse facile ! Qui si tratta di cambiare le basi stesse
della cultura che si è evoluta - si fa per dire - in migliaia
di anni. Diciamo, dalla Grecia in poi. E tu cosa pretenderesti, oh!,
forse che con un colpo di bacchetta magica in vent'anni o giù
di lì si possa cambiare quello che si è costruito in
millenni e che si succhia col latte materno? Forse che anche tu
- anarchica e da tanto tempo - non ti scopri a volte dei comportamenti
che ti fanno orrore e di cui non capisci l'origine? I cambiamenti
culturali a livello profondo hanno tempi lunghi, o mi sbaglio?".
La vocina, come sempre, ha ragione, non
mi lascia mai via di scampo. So benissimo che si tratta di un lavoro
lungo e faticoso, ma a volte il cuore fa troppo male e allora si
vorrebbero trovare scorciatoie. Ma so anche che non ne esistono e che
comunque i tempi saranno determinati dalla misura in cui le donne
soprattutto, sapranno/vorranno/agiranno per cambiare se stesse, per
trasmettere ai loro figli un'immagine positiva, valorizzata, della
donna, per reimpostare su nuove basi i rapporti con gli uomini e
costringerli quindi a loro volta a cambiare, ad accettare la
differenza anche dentro di sé. Troppo spesso invece sono proprio le
donne ad essere artefici del loro ruolo di vittime. Nel gioco
perverso del carnefice e della vittima che spesso contraddistingue i
rapporti fra i sessi - e che sempre contraddistingue i rapporti
sociali - non si può dare dominio senza accettazione. Quante
volte donne vittime di uno stupro si sentono in qualche modo
colpevoli? Quante volte vivono questa terribile esperienza come
autopunizione conscia o inconscia per aver osato essere, esistere o
tentare di esistere?
Non con le leggi
La vocina si rifà viva: "Certo,
ma nel frattempo, nel lungo o lunghissimo tempo necessario perché
le donne - e di conseguenza gli uomini - portino avanti questo
cambiamento profondo, continueranno le violenze sulle donne, sui
bambini, sui deboli insomma".
Sì, continueranno, ma sempre
meno se le donne che gli uomini si troveranno di fronte saranno
diverse, se saranno coscienti di sé, sicure di sé, e
sapranno imporre una concezione non solo dei rapporti ma del mondo in
cui non ci sia posto per nessun tipo di violenza. Già ora,
rispetto al passato, sono molto più numerose le donne che
trovano il coraggio di denunciare le violenze subite, di sopportare
l'esperienza tragica dei processi, di parlare di quello che è
loro accaduto invece di tenerselo dentro con vergogna.
Questo significa, credo, che le donne
si sentono più forti perché meno sole, che non si
sentono più costrette a subire sempre e comunque.
Si parla molto, in questi giorni, della
proposta di legge contro la violenza sessuale come di una esigenza
sempre più pressante vista l'escalation del fenomeno. La cosa
mi lascia abbastanza perplessa poiché, a parte i singoli
aspetti più o meno discutibili in termini di intrusione
pubblica in una sfera privata e individuale delicatissima, mi sembra
che non sia con le leggi che si possano fare diminuire i reati né
imporre un rispetto se questo già non esiste (ma in questo
caso che bisogno ci sarebbe?). Altrimenti non esisterebbero reati di
alcun tipo.
Se infatti è sacrosanto che una
società tuteli in qualche modo i suoi componenti più
deboli, mi sembra assurdo che tuteli giuridicamente per mezzo di
sanzioni e di pene quei soggetti - nella fattispecie le donne - che
essa stessa attraverso i suoi meccanismi di trasmissione culturale ha
costretto e costringe all'interno di un ruolo sociale subordinato e
svalorizzato. Non credo negli strumenti istituzionali che servono
solo a tamponare qualche piccola falla, mai a risolvere il problema
alla radice. Questo lo potrebbero fare solo le donne, in prima
persona. La vocina ritorna: "E poi hanno sempre detto che le
donne sono più deboli!". Ha ragione, no? Non lo sono
affatto.
Sono infinitamente più "forti"
degli uomini. Solo che non lo sanno ancora.
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