Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 18 nr. 156
giugno 1988


Rivista Anarchica Online

Dietro lo stupro
di Fausta Bizzozzero

Alla base c'è la concezione della donna come essere inferiore ma pericoloso (perché incomprensibile e "potente"). Una concezione dura a morire perché stratificata nei meandri più profondi dell'immaginario collettivo e dell'inconscio individuale. I casi sempre più frequenti di stupro collettivo: il "coraggio" di fare nel branco quello che da soli non si farebbe mai.

Martedì 29 marzo, pag. 18 del quotidiano La Repubblica, titolo "Una bimba per divertirmi", storia di Alessandro Moncini, stimatissimo vicepresidente della Triestina calcio, membro del Rotary Club, massone, imprenditore, e di un suo piccolo "vizietto": la pedofilia sadica. Stesso giorno, pag. 19, titolo "Per due mesi violentata da sette compagni di scuola": storia di una ragazzina acqua e sapone torturata in ogni modo da sette "bravi ragazzi" della borghesia monzese. Stesso giorno, stessa pagina, titolo "Stupro alla clinica universitaria": storia di una allieva infermiera, anch'essa acqua e sapone, violentata in uno sgabuzzino da un infermiere anziano. Stesso giorno, stessa pagina, titolo "Sì, abusò delle figlie ma non fece scandalo": storia di un genitore quasi perfetto condannato a due anni di reclusione ma subito rilasciato dietro il pagamento di un risarcimento danni alle figlie di 10 milioni e 400 mila lire.
Una giornata neanche tanto eccezionale nel triste panorama di questi ultimi anni che hanno registrato un notevole aumento delle denunce per reati sessuali, per violenza carnale e per atti di libidine violenti. Da una accurata ricerca compiuta da Carmine Ventimiglia e pubblicata recentemente da Franco Angeli col titolo significativo "La differenza negata", risulta che nel 1986 le denunce sono aumentate del 13,44% rispetto al 1985 e del 16,10% rispetto al 1982. E i dati relativi alle denunce, è ovvio, non sono esaustivi di una realtà ben più ampia ma sommersa, quindi difficilmente quantificabile, per cui si stima che esista un rapporto di incidenza tra il 5 e il 15% degli episodi denunciati rispetto a quelli taciuti.
Dall'analisi dei dati conosciuti, comunque, Carmine Ventimiglia evidenzia cinque caratteristiche: una crescita esponenziale della violenza (nel 60% dei casi l'aggressione sessuale è accompagnata da altre forme di violenza), una maggiore incidenza degli stupri di gruppo (circa la metà vede come autori più di una persona), un rapporto inversamente proporzionale tra l'età dell'autore e quella della vittima (più aumenta l'età dell'autore, più diminuisce quella della vittima), un progressivo abbassamento dell'età degli uni e delle altre, e infine un aumento delle denunce contro ignoti.

La paura delle donne
Fin qui i dati asettici delle statistiche che confermano, nel campo specifico, una tragica tendenza che chiunque con un minimo di sensibilità può verificare nella vita quotidiana in mille forme: dai fenomeni più macroscopici come la violenza negli stadi, ai piccoli gesti violenti o di sopraffazione contro persone o cose nella metropolitana, ai mille episodi di razzismo verso i diversi di ogni tipo. Chiunque può "sentire" questa violenza diffusa, chiunque può sentire l'angoscia e l'impotenza di fronte alla degradazione dei comportamenti umani. Infatti, se la violenza in genere, e quella sessuale in particolare, appare ineliminabile in quanto elemento costitutivo della nostra cultura, allora diventa leggibile e comprensibile anche l'apparente contraddizione che si può riassumere nell'equazione: maggiore "progresso", maggiore sviluppo tecnologico-scientifico-economico-culturale=maggiore aggressività, maggiore violenza sessuale, maggiore violenza diffusa.
D'altro canto, se questo modello culturale occidentale ha "vinto" su tutto il pianeta cancellando sulla sua strada storica e geografica ogni cultura di segno diverso, è proprio per questa sua essenza che sembrerebbe immodificabile. Il panteon degli dei e degli eroi greci - a cui risalgono tanti dei nostri archetipi culturali - rigurgita di violenza e soprattutto di atti di violenza sessuale; addirittura si può dire che lo stupro di dee o di mortali è lo sport più praticato tra gli dei dell'Olimpo.
Cercare di capire perché questi dei violenti, sopraffattori, vendicativi e misogini si siano imposti spodestando altri culti precedenti (la Grande Madre, Iside, Istar, ecc.) e abbiano quindi imposto la concezione della donna che sussiste tutt'ora è un compito difficile ma che prima o poi dovrà essere affrontato. Ora quello che forse possiamo/dobbiamo cercare di capire è il senso della violenza sessuale, i meccanismi psico-culturali che la producono, i meccanismi attraverso i quali si tramanda da una generazione all'altra. E inoltre esiste una relazione tra violenza sessuale e violenza in genere, e se esiste di che natura è?
La paura delle donne in quanto legate alla natura, ai cicli biologici, in quanto detentrici della capacità di dare la vita, in quanto "altro" da sé, inconoscibile e incomprensibile, è certamente alla base di questi atroci comportamenti maschili. Secondo Carmine Ventimiglia è proprio in questa paura la chiave della violenza sessuale: "La relazione sessuale è il luogo del simbolico in cui il prodursi della violenza segnala contemporaneamente l'intolleranza verso la diversità e l'esercizio visibile del suo controllo in una relazione di contrapposizione dove la differenza è assunta solo come momento di negazione o di dominio. (...) In altri termini lo stupro, sul piano sociale, sottende non una aspirazione alla dissidenza, tipica spesso di altre forme di violenza, ma di conferma, sia pure esacerbata, di quella topologia che dandosi come equivalenza generalizzata consente l'esercizio della differenza solo all'interno di relazioni di dominio o di controllo. (...) Si potrebbe continuare a conferma ulteriore che se in generale la violenza si ripete nella storia umana, in particolare è lo stupro che si reitera con rituale precisione. Ancorché penalizzato, va detto. Ma anche in questo caso, dalla lex taglionis in avanti, la diversità delle forme repressive adottate non riguarda tanto la violenza in sé contro la donna ma il suo risvolto sociale all'interno delle reti dei sistemi ideologici e relazionali. In questo senso, al di là del gesto, lo stupro è sempre stato un atto simbolico, vettore di riproduzione "di un dominio che, pur essendo individuale, riproduce, ribadisce, veicola un dominio sociale" (T. Pitch ,Violenza e controllo sociale sulla donna, in AA.VV., La violenza interpretata)".
Lo stupro quindi, e la violenza sessuale, come gesto emblematico che attraverso la riduzione della differenza/diversità dell'altro da sé in un rapporto di dominio conferma l'esistenza stessa dello stupratore, conferma la sovranità illimitata del logos dei simili (cioè degli uomini) sull'eros. In questa luce è facile immaginare il senso di potenza che può provare un uomo quando impone con la forza un rapporto sessuale, quando inchioda e penetra una donna contro il suo volere anzi, da tutte le testimonianze raccolte risulta che più la donna si ribella e si dibatte, maggiore è la soddisfazione e il godimento dello stupratore, e comunque si dà sempre per scontato che l'altra, alla fine, debba provare piacere, che comunque esista un consenso di fondo seppure tacito, muto.
Ma tutto questo non avrebbe alcun senso se non esistesse quella riduzione, quella concezione della donna come essere inferiore ma pericoloso (perché incomprensibile e "potente") e quindi da dominare.
Una concezione dura a morire perché stratificata nei meandri più profondi dell'immaginario collettivo e dell'inconscio individuale e, cosa ancora più grave, introiettata anche dalle donne stesse che, vittime sacrificali o merce di scambio nel corso della storia conosciuta, contribuiscono tuttora a trasmettere ai figli maschi quell'immagine dis-valorizzata e dis-valorizzante. Basti pensare ai comportamenti delle madri di stupratori durante i processi più recenti come quello di Roma. Basti pensare agli incesti che si verificano quasi sempre con l'acquiescenza delle madri. Basti pensare alle madri dei ragazzini di buona famiglia che a Monza hanno torturato per mesi una loro coetanea. Quale idea hanno - o possono avere - di se stesse o delle altre donne?

Polli d'allevamento
Pensarlo fa venire i brividi e dà la misura di quanto poco in profondità abbiano inciso il '68 e il femminismo nella cultura e nella società. O forse, chissà, proprio la maggiore consapevolezza, sicurezza di sé e libertà di una fascia seppure limitata di donne, mettendo in crisi le ataviche certezze maschili può costituire una delle cause di questa escalation di violenze sessuali? Difficile dirlo, anche perché l'aumento dei casi di violenza sessuale ha evidenziato un abbassamento della fascia d'età sia degli stupratori sia delle vittime e un aumento degli stupri di gruppo, per cui sembrerebbe che proprio le generazioni cresciute dopo il '68 siano quelle che esprimono la concezione della donna più retriva e tradizionale e una carica di aggressività e di violenza maggiore. Infatti i casi di stupri collettivi hanno quasi sempre come protagonisti dei giovani che, si può supporre, trovano nel "branco" il "coraggio" di fare cose che non farebbero mai da soli, di dimostrare - ma ci deve essere qualcuno che assiste, altrimenti che gusto c'è - la propria "virilità".
Chi ha assistito alla trasmissione televisiva del processo di Roma e ha visto le loro facce di bravi ragazzi, e ha sentito le loro parole prive di qualsiasi emozione, ha potuto rendersi conto della loro "povertà": questi saranno a loro volta padri ed è facile immaginare cosa potranno trasmettere ai loro figli, quale concezione dell'uomo, della donna, del mondo.
E come loro ce ne sono tanti, tanti di cui non sapremo mai nulla, "polli d'allevamento" di un mondo che produce piccoli mostri in serie, piccoli teppisti privi di qualsiasi morale e privi di cuore, incapaci di grandi gesti individuali nel bene o nel male perché i grandi gesti, comunque, richiedono coraggio e un pizzico di genialità. In questo senso, per quanto sono vuoti, meschini, inesistenti, per la loro pochezza di cui sono del tutto inconsapevoli, possono anche fare un briciolo di pena perché, che ci piaccia o no, sono anch'essi vittime di un ingranaggio micidiale, che contribuiscono a mantenere in funzione. Ma si tratta, in realtà, di una pena, di un male al cuore che riguarda tutto quanto l'andamento del mondo e tutta quanta la violenza che produce in una spirale che si autoalimenta continuamente, e tutta quanta la sofferenza che gli esseri umani si infliggono vicendevolmente.
Ma subito questa pena, questo male al cuore, si trasforma in rabbia, nella voglia e determinazione di fare qualcosa perché tutto questo non avvenga più, perché si possa trovare un modo di rapportarsi tra uomini e donne senza farsi del male, riconoscendo la diversità dell'altro come una ricchezza.
Una vocina, dall'interno, mi sussurra: "Come se fosse facile ! Qui si tratta di cambiare le basi stesse della cultura che si è evoluta - si fa per dire - in migliaia di anni. Diciamo, dalla Grecia in poi. E tu cosa pretenderesti, oh!, forse che con un colpo di bacchetta magica in vent'anni o giù di lì si possa cambiare quello che si è costruito in millenni e che si succhia col latte materno? Forse che anche tu - anarchica e da tanto tempo - non ti scopri a volte dei comportamenti che ti fanno orrore e di cui non capisci l'origine? I cambiamenti culturali a livello profondo hanno tempi lunghi, o mi sbaglio?".
La vocina, come sempre, ha ragione, non mi lascia mai via di scampo. So benissimo che si tratta di un lavoro lungo e faticoso, ma a volte il cuore fa troppo male e allora si vorrebbero trovare scorciatoie. Ma so anche che non ne esistono e che comunque i tempi saranno determinati dalla misura in cui le donne soprattutto, sapranno/vorranno/agiranno per cambiare se stesse, per trasmettere ai loro figli un'immagine positiva, valorizzata, della donna, per reimpostare su nuove basi i rapporti con gli uomini e costringerli quindi a loro volta a cambiare, ad accettare la differenza anche dentro di sé.
Troppo spesso invece sono proprio le donne ad essere artefici del loro ruolo di vittime. Nel gioco perverso del carnefice e della vittima che spesso contraddistingue i rapporti fra i sessi - e che sempre contraddistingue i rapporti sociali - non si può dare dominio senza accettazione. Quante volte donne vittime di uno stupro si sentono in qualche modo colpevoli? Quante volte vivono questa terribile esperienza come autopunizione conscia o inconscia per aver osato essere, esistere o tentare di esistere?

Non con le leggi
La vocina si rifà viva: "Certo, ma nel frattempo, nel lungo o lunghissimo tempo necessario perché le donne - e di conseguenza gli uomini - portino avanti questo cambiamento profondo, continueranno le violenze sulle donne, sui bambini, sui deboli insomma".
Sì, continueranno, ma sempre meno se le donne che gli uomini si troveranno di fronte saranno diverse, se saranno coscienti di sé, sicure di sé, e sapranno imporre una concezione non solo dei rapporti ma del mondo in cui non ci sia posto per nessun tipo di violenza. Già ora, rispetto al passato, sono molto più numerose le donne che trovano il coraggio di denunciare le violenze subite, di sopportare l'esperienza tragica dei processi, di parlare di quello che è loro accaduto invece di tenerselo dentro con vergogna.
Questo significa, credo, che le donne si sentono più forti perché meno sole, che non si sentono più costrette a subire sempre e comunque.
Si parla molto, in questi giorni, della proposta di legge contro la violenza sessuale come di una esigenza sempre più pressante vista l'escalation del fenomeno. La cosa mi lascia abbastanza perplessa poiché, a parte i singoli aspetti più o meno discutibili in termini di intrusione pubblica in una sfera privata e individuale delicatissima, mi sembra che non sia con le leggi che si possano fare diminuire i reati né imporre un rispetto se questo già non esiste (ma in questo caso che bisogno ci sarebbe?). Altrimenti non esisterebbero reati di alcun tipo.
Se infatti è sacrosanto che una società tuteli in qualche modo i suoi componenti più deboli, mi sembra assurdo che tuteli giuridicamente per mezzo di sanzioni e di pene quei soggetti - nella fattispecie le donne - che essa stessa attraverso i suoi meccanismi di trasmissione culturale ha costretto e costringe all'interno di un ruolo sociale subordinato e svalorizzato. Non credo negli strumenti istituzionali che servono solo a tamponare qualche piccola falla, mai a risolvere il problema alla radice. Questo lo potrebbero fare solo le donne, in prima persona. La vocina ritorna: "E poi hanno sempre detto che le donne sono più deboli!". Ha ragione, no? Non lo sono affatto.
Sono infinitamente più "forti" degli uomini. Solo che non lo sanno ancora.