Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 18 nr. 156
giugno 1988


Rivista Anarchica Online

Morte a Roma
di Paola Feri

La Morte: singolare tema per un seminario organizzato dal Gruppo Anarchico Malatesta e curato da Alfredo Salerni presso la libreria "Anomalia".
Di quale morte si parla: morte nucleare, morte culturale, morte dell'arte o dell'etica, morte dei valori, morte di un periodo storico, di una pratica politica, morte dell'anima o addirittura nell'anima.
Niente di tutto questo, semplicemente della morte come assenza di vita, di quella annunciata dai medici e che solo loro hanno il potere di dichiarare.
La morte individuale insomma, quella a cui nessuno può sottrarsi, quella che per tutti ha uno sguardo, come ci ricorda Pavese. La morte mia... tua... loro... questa è la morte affrontata nel seminario (i maligni potrebbero leggere del seminario) con l'intento di detabuizzarla.
Nel sotterraneo, sede delle riunioni, si respira un'aria di sottile tensione. Il primo impatto è di reciproca diffidente curiosità, (ognuno si dice che il sottoscritto/a è stato mosso/a dalla curiosità ma si chiede con inquietudine a quale spinta hanno ubbidito gli altri). E le origini stesse che hanno motivato questa balorda e innocua curiosità sono occultate dallo stesso manto misterioso con cui si avvolge la Morte.
Excursus storico del concetto di morte nel tempo: tutto va bene, la morte naturale dell'uomo di Neanderthal non ci tocca più di quella violenta per mano dei Borgia, ascoltiamo con l'aria compita di chi è motivato culturalmente. È lontana quella morte, non ci appartiene.
Aspetto esistenziale (angoscia di morte, atteggiamento individuale di accettazione o rifiuto ecc.): la gente comincia a dare segni di insofferenza, si muove sulle panche, scompone le proprie gambe accavallate che fino ad allora ha lasciato pigramente oscillare avanti e indietro.
Nella discussione che segue possiamo notare tre tipi di atteggiamenti.
I più "razionali" hanno parlato chiaro: se oggi troviamo il tempo e sentiamo l'esigenza, se si aprono gli spazi per parlare di questo è perché viviamo un momento di morte "sociale": nel '68 un seminario di questo genere sarebbe andato deserto... eppure ogni giorno eravamo a contatto con la morte per mano dei fascisti o dello stato, a differenza di oggi. (Il sottotesto intendeva dire il più delle volte che dobbiamo tornare alle lotte di piazza per distrarci dall'angoscia).
I più "giovani" hanno detto che in un mondo dove sono morte le speranze del cambiamento (c'era una punta di rammarico nel non poter essere dei reduci nella celebrazione nazionale del ventennale) è giocoforza pensare alla morte, alla catastrofe collettiva, ad una fine forse catartica.
Hanno parlato di rovina, catastrofe collettiva, ma non dei singoli uomini; una morte generalizzata, ben lontana dalla "propria" morte, quella che giunge al capezzale, che parla a tu per tu, che non concede l'ultima partita a scacchi di bergmaniana memoria.
Poi e stata la volta dei più "emotivi" che hanno parlato del rapporto che hanno vissuto con la morte per la scomparsa di persone care. Hanno analizzato a fatica il loro comportamento, le loro sensazioni, le loro reazioni a volte del tutto irrazionali e codarde. Emergeva la necessita di collettivizzare la morte, fardello doloroso troppo pesante se vissuto al singolare.
Insomma, a parte un paio di timidi tentativi sulla "propria" morte (dai quali la discussione si è subito allontanata prudentemente), anche da parte di partecipanti ad un seminario che vuol parlare proprio di questo, si procede a fatica e l'atteggiamento generale è di fuga. Se i partecipanti hanno retto bene l'allucinante argomento trattato da esponenti della "Lega contro la predazione degli organi" (argomento che ci vede già cadaveri quando ancora respiriamo e di cui parleremo in una prossima occasione perché ancora in discussione), il disagio è serpeggiato nuovamente in sala durante la conferenza su "Distruttività umana ed angoscia di morte" tenuta da De Marchi, psicanalista di ispirazione libertaria che per primo ha introdotto in Italia il pensiero di W. Reich dalle colonne di "Volontà".
Dopo l'esposizione delle due correnti che dominano il pensiero occidentale, quella innatista (di origine freudiana che tabuizza il problema - non a caso proprio Freud, che ha sofferto di questa angoscia per tutta la vita, fa questa operazione!), e quella ambientalista, sposata dai liberi pensatori (che liquida il problema salvando l'uomo, di per sé buono, necessariamente distruttivo per l'ambiente in cui vive), De Marchi ha esposto la sua teoria che quanto meno apre nuovi orizzonti ad una ricerca impiantata su meccanismi fino ad oggi inesplorati.
Secondo De Marchi in ogni uomo esiste l'angoscia di morte non innata (l'angoscia di morte non compare prima del terzo anno di vita) ma provocata dalla rimozione della morte. Fin dalla preistoria l'uomo è stato l'unico animale a prendere coscienza della propria e della altrui morte, mistero intrigante che ha rimosso con la credenza della prosecuzione della vita. (Sono state ritrovate tombe dell'epoca neanderthaliana dove accanto al morto sono state sepolte armi e vivande che testimoniano l'illusione del proseguimento della quotidianità). La non accettazione della morte provoca universalmente l'angoscia di morte che gli uomini hanno cercato di arginare in un primo momento con la religione.
Dalla nascita delle religioni (diverse, perché nascono in culture diverse), ognuna delle quali promette l'immortalità ai propri adepti in cambio di fedeltà e ubbidienza, nasce la distruttività umana. Solo la propria religione è vera e dunque le altre rappresentano l'antiverità, il male-demone che deve essere combattuto perché offende la divinità onorata. Deve essere sconfitto per mantenere su se stessi lo sguardo benevolo delle proprie divinità che, in caso contrario, hanno il potere di toglierci l'immortalità e quindi farci ripiombare nell'angoscia di morte: si deve combattere (distruttività) per garantirsi l'immortalità a costo della propria morte (autodistruzione).
Con l'incrinarsi del credo religioso (il prezzo per garantirsi l'immortalità in alcuni momenti è diventato ancora più gravoso dell'angoscia di morte!), l'uomo impaurito e solo ha inventato la certezza politica. I sistemi totalitari ci sono testimoni: Hitler e Stalin hanno ottenuto l'adesione delle masse dietro la promessa di "paradisi terrestri" (tramite atteggiamenti distruttivi e autodistruttivi delle masse stesse).
Adesso - conclude De Marchi - anche questa certezza è crollata e l'uomo di fine secolo è solo, senza nessuna illusione di felicità perfetta, di immortalità: è solo con l'angoscia di morte. Che lare?
Questo interrogativo non può che riportarci alla mente il "che fare" che Malatesta pose circa un secolo fa, interrogativo che dovremmo porci più spesso. Che fare? L'ipotesi-proposta di De Marchi sta nella presa di coscienza della nostra rimozione che genera l'angoscia, elemento scatenante del meccanismo distruttivo e autodistruttivo.
"Prendere coscienza - e qui cito le parole di De Marchi - che i nemici della propria felicità e immortalità non sono gli altri umani ma c'è nella condizione umana qualcosa di intrinsecamente, drammaticamente umano che ci accomuna tutti... (è risaputo che nella cella della morte nessuno litiga e che nel Titanic, quando furono finite le scialuppe di salvataggio - e solo allora - si danzava, eppure la nave affondava). Questi sono i segnali che una presa di consapevolezza in cui tutti ci troviamo può finalmente disinnescare il meccanismo distruttivo. È importantissimo che il movimento anarchico affronti questi temi ed abbandoni il clima o di mugugno o di ottimismo a buon mercato che caratterizzava tante sue riflessioni del passato". Oltre alle speranze che danno significato alla vita, spetta a questo movimento - proprio per la considerazione che ha dell'umanità - il compito di chiedersi anche perché il mondo va in questo modo.
Dopo una militanza quasi ventennale nel movimento anarchico (interrotta nell'ultimo periodo da un riflessivo silenzio) e spinta dalla provocazione di questo seminario, mi interrogo sul nostro ruolo di anarchici oggi: insoddisfatta di semplicistiche risposte che mi saltano in testa come riflessi condizionati, le risposte esatte tardano a farsi avanti e la proposta di De Marchi mi è apparsa, tra quelle ipotizzabili, quanto meno una delle più allettanti.