Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 18 nr. 156
giugno 1988


Rivista Anarchica Online

Quel mostro antico
di Maria Teresa Romiti

I diversi ci dicono, con la loro esistenza, che i valori sui quali si fonda la cultura che accettiamo sono arbitrari e relativi. Ci vuole coraggio per accettare questa realtà e il diverso che la incarna. È più facile cancellarlo, odiarlo, ridurlo ad un demone, ritrovando la propria sicurezza, i propri fondamenti in un Dio, nella Ragione o dovunque abbiamo deciso di nasconderli. E dai bui recessi della nostra psiche, rispunta il mostro del razzismo.

È una malattia, grave. Antica come il mondo. Nascosta dentro di noi. Un demone silenzioso che rode internamente, come un cancro. Siamo infetti, senza saperlo trasportiamo l'infezione, ovunque. Da profondi abissi senza nome l'oscura forma è sorta e noi, non avendo il coraggio di affrontarla, lasciamo che cresca. Toglie l'innocenza al nostro sguardo, distorce i lineamenti, si alimenta del nostro sé. E cresce, cresce sempre di più, esplode in mille rivoli, urla nelle gole, arma le mani, arrossa di sangue i fiumi, genera odio, pazzia, violenza. È il razzismo.
Un nome che ha il colore del sangue, che è coperto da milioni di cadaveri. Un nome antico che percorre la terra da tempi immemorabili. Un nome per il quale si è ucciso, stuprato, fatto violenza, sfruttato, calpestato, non si è avuto pietà, si sono cancellate civiltà e paesi. È una piaga purulenta, coperta di vermi, un lordume che disgusta. È un fenomeno antico che non sembriamo conoscere bene, che continua indisturbato a proliferare. E l'indignazione che a tratti, ma solo a tratti, lo condanna, non sembra avere molto peso, suona un po' troppo retorica, un po' poco convinta, nel profondo, anche in chi la pronuncia.
Da dove viene? È possibile cercarne le spiegazioni, oppure il suo spazio è al di là della ragione, oltre ogni logica, è lo spazio buio degli incubi notturni, degli spettri vaganti che attanagliano il cuore, lo spazio delle paure inconfessate che ci guidano per sentieri che non conosciamo? Eppure la ragione, i significati vanno cercati, bisogna affrontare il mostro a viso aperto. Non basta dire di essere contro, di non essere razzisti, perché è qui, presente, ogni giorno. Non fa distinzioni ideologiche, alberga nel povero e nel ricco, nel colto e nell'ignorante. Lo troviamo nei ritagli di giornale, nelle parole quotidiane, nei piccoli gesti di ogni giorno dei quali raramente cogliamo il significato profondo. Ci segue come un ombra.
Un'ombra senza nome. Nessuno riconosce di essere razzista. Ogni volta, per ogni episodio, ognuno ha sempre una decina di sane, buone, piccole ragioni, dettate dal piccolo buon senso quotidiano, quello che fa di noi dei piccoli uomini. La colpa non è mai da questa parte. Sono sempre gli "altri" i colpevoli. Colpevoli di essere "stranieri", di non sapersi comportare in maniera "civile", di avere abitudini strane, di puzzare, di mangiare cose diverse, di vestire in un altro modo, di essere dei "barbari", di avere un altro credo, di avere la pelle di un altro colore. Colpevoli di essere troppo alti o troppo bassi, troppo biondi o troppo bruni, troppo intelligenti o troppo stupidi. Colpevoli di essere diversi, di esistere.
Da questa parte non c'è mai razzismo. C'è solo lo scherzo un po' pesante, che spesso finisce in tragedia, c'è il desiderio di salvare le proprie tradizioni minacciate (da chi o che cosa?), si vogliono solo mantenere le giuste distanze, non si vogliono mescolare le razze (come fossimo cani con il pedigree), si devono evitare i contatti troppo ravvicinati.
Ognuno deve stare a casa sua. Gli altri sono sempre quelli che "rubano" i posti di lavoro, quelli che insidiano le donne, che rapiscono i bambini, che uccidono, rubano, vendono droga, che sono brutti, sporchi e cattivi. La verità, l'unica verità difficile da accettare è che non ci sono ragioni, né buone, né cattive, c'è solo paura, intolleranza, odio, ignoranza.
È la paura il primo grande fantasma. L'altro, il diverso, ci mette di fronte al fatto che sulla Terra non siamo soli, che molti altri popoli hanno abitato e abitano il mondo. Tanti popoli, tante culture, ognuna con la sua storia, i suoi percorsi, i suoi valori. Ognuna convinta di essere unica. Invece non è vero: non siamo gli unici figli di un Dio, non solo a noi è stato dato di abitare il mondo.

Il senso del molteplice
Ogni cultura è profondamente etnocentrica, parte da se stessa e misura tutte le altre sul proprio metro. Le usanze, i costumi delle altre sono più o meno accettabili, più o meno ridicoli a seconda di quanto sono vicini ai propri.
Essere etnocentrici non è razzismo, è spesso una necessità. Accettare una cultura, condividerla, equivale a riconoscere validità ai valori che esprime e quindi le altre culture, avendo valori diversi, devono avere una minore validità. Ci vuole un lungo esercizio e una grande abilità per arrivare a capire che il nostro io non è la misura di tutte le cose. E che gli "altri", per quanto possano sembrare differenti o ridicoli, sono solo uno specchio nel quale confrontare ed accettare la nostra umanità. Ma questo passaggio richiede anche il senso del "molteplice". Essere cioè coscienti che l'omogeneità, la totalità, l'"uno" sono negativi. Capire che l'esistenza di altre culture conferma la validità della propria perché sono proprio le culture differenti che ci rimandano l'immagine nella quale ci specchiamo riconoscendo la nostra identità culturale e il nostro essere umani. Accettare che i fondamenti della nostra cultura non hanno una validità assoluta, non possono e non devono avere valore universale, anzi che valgono di più proprio perché altri valori esistono.
È un discorso difficile, complesso. È molto più facile rifiutare la cultura diversa, in blocco, come una mostruosità. L'altro, il diverso non è uguale a noi e quindi, essendo noi esseri umani, è un uomo sbagliato, è un non-uomo, non del tutto della nostra stessa natura. Egli si avvicina alle bestie, al mondo selvaggio della natura. E quindi, come la natura, potente e, come tutto ciò che è potente, pericoloso.
È tabù, una minaccia da neutralizzare. È il barbaro, l'incivile, il selvaggio.
È a questo punto che può scattare la molla: se l'altro non è umano è pericoloso, se è pericoloso è una minaccia alla mia esistenza, una presenza che crea angoscia; allora l'altro va cancellato fisicamente e culturalmente, va tenuto separato, allontanato, sorvegliato. Può essere tranquillamente ucciso e distrutto, schiacciato, anzi va fatto, per riportare il mondo alla propria unità. Se non è possibile cancellarlo va addomesticato, reso obbediente. Deve cambiare costumi e convinzioni, deve diventare simile a noi. Ma non sarà mai completamente accettato, sarà sempre guardato con risentimento e diffidenza. La sua presenza mette in dubbio la nostra sicurezza culturale.
Gli altri, siano essi appartenenti a culture diverse, ad etnie diverse, o siano solo quegli "altri" che in ogni cultura esistono, coloro che non accettano tutte le regole, tutti i valori, ci mettono di fronte ad un problema più ampio e più profondo e, purtroppo, molto più angosciante. I diversi ci dicono, con la loro esistenza, che i valori sui quali si fonda la cultura che accettiamo, le sue stesse basi sono arbitrari e relativi. I fondamenti culturali non sono basati su un Dio o sulla Razionalità o sulla Natura o su qualcosa altro ancora, essi vagano liberi senza un punto fisso. L'abisso si spalanca sotto i nostri piedi. E troppo spesso non siamo abbastanza forti per sopportarlo.
I valori che guidano la nostra vita, i fondamenti che ne sono base e giustificazione rivelano in un attimo la loro origine: una pura e semplice scelta senza alcun fondamento religioso o metafisico che si può mettere in discussione, che i diversi, con la loro presenza mettono in discussione.
Ci vuole molto coraggio per accettare questa realtà e il diverso che l'incarna. È più facile cancellarlo, odiarlo, ridurlo ad un demone, ritrovando la propria sicurezza, i propri fondamenti in un Dio, nella Ragione od ovunque abbiamo deciso di nasconderli.
Siamo uomini a cui piace giocare la parte degli dei, ma non riusciamo neppure a fissare il volto umano che ci racconta che siamo stati noi stessi a creare il nostro mondo, a dargli valore e fondamento. Preferiamo nasconderci dietro la maschera di un Dio, magari anche un dio geloso e violento nel cui nome cancellare i "diversi" dalla faccia della terra.
Paura del diverso, paura di ciò che non è conosciuto. L'altro è lì, davanti a noi, realtà ineluttabile, che ci chiede, con la sua presenza, di conoscerci e di essere conosciuto. Difficoltà ad andare oltre il nostro io, uscire dalla nostra corazza e raggiungerlo nella terra senza nome dove gli individui si incontrano, oltre i propri schemi.
Per conoscere realmente il soggetto deve essere autonoma, deve cioè, come spiega molto bene Evelyn Fox Keller potersi permettere "… La sospensione temporanea dei confini tra l'Io e il non-Io necessaria per ogni esperienza empatica, cioè un'esperienza che consente a sua volta il salto creativo tra il conoscente e il conosciuto".(1)
Un'autonomia dinamica che pur salvando la propria indipendenza sappia alimentarsi ed essere cosciente del rapporto con gli altri coi quali si resta affettivamente legati. Ciò presuppone lo sviluppo di una personalità completa, armonica e matura, l'unica che può rispecchiare "...un senso dell'Io come fosse al tempo stesso differenziato e rapportato al non-Io, oltre che un senso degli altri come soggetti con i quali la persona ha in comune quanto basta a consentire il riconoscimento dei rispettivi interessi e sentimenti indipendenti, cioè a dire il riconoscimento degli altri come altri soggetti".(2)
Quanti sono coloro che si possono riconoscere in un simile ritratto? Per gli altri non rimane che la paura, l'angoscia e quindi il controllo ossessivo. Non ricerca della conoscenza dell'altro, non empatia, ma solo dominio, perché solo il dominio, riducendo tutte le innumerevoli differenze, a pure ineguaglianze, riduce tutto all'"uno", cancella le diversità, evita l'obbligo della conoscenza, calma l'angoscia.

Ma la bestia sorgerà, finché...
A questo punto avrei voluto dire che invece sono proprio le mille e mille differenze individuali, culturali, di gruppo, etniche che si confrontano, si scontrano, si scambiano, si conoscono, si modificano, l'unica risposta. Non solo la risposta al fenomeno razzista, ma anche e soprattutto una risposta culturale, poiché esse, come un ecosistema ben equilibrato e quindi dinamico, permettono alle culture umane di evolversi continuamente, di adattarsi. La semplificazione, l'omogeneità sono una strada persa in partenza, portano solo all'autoestinzione.
Avrei voluto dire che solo una personalità libera che viva in una società libera è in grado di vivere senza angoscia questi processi.
Ma mi sembrano parole vuote. Non che non siano ragionevoli, sono fin troppo ragionevoli. Sono parole che spiegano, comprendono, discettano. La soluzione potrebbe sembrare, almeno a prima vista, neppure troppo difficile. Ma a che servono le parole ragionevoli di fronte al mostro che ci sta divorando? Ed è veramente una soluzione semplice, al di là della carta su cui è scritta, questa, che prevede di cambiare personalità distorte e spaventate in personalità mature ed autonome. Forse sento troppa angoscia, ma, per quanto sia ragionevole, mi sembra troppo facile.
Il mostro ha vissuto per troppo tempo nei bui recessi della nostra psiche, è troppo antico e troppo orrido per scacciarlo con poche parole, seppure ragionevoli. Per molto tempo ancora la bestia sorgerà chiedendo il suo tributo e piccoli uomini impauriti lo pagheranno, prima che tutti abbiano il coraggio di affrontarla a viso aperto, per vederla in faccia e scoprire che era solo un piccolo, ridicolo, stupido grumo d'ombra.

(1) Evelyn Fox Keller, "Sul genere e la scienza", Garzanti, Milano 1987, pag. 119.

(2) ibidem.