Rivista Anarchica Online
Quel mostro antico
di Maria Teresa Romiti
I diversi ci dicono, con la loro
esistenza, che i valori sui quali si fonda la cultura che accettiamo
sono arbitrari e relativi. Ci vuole coraggio per accettare
questa realtà e il diverso che la incarna. È più
facile cancellarlo, odiarlo, ridurlo ad un demone, ritrovando la
propria sicurezza, i propri fondamenti in un Dio, nella Ragione o
dovunque abbiamo deciso di nasconderli. E dai bui recessi della nostra
psiche, rispunta il mostro del razzismo.
È
una malattia, grave. Antica come il mondo. Nascosta dentro di noi. Un
demone silenzioso che rode internamente, come un cancro. Siamo
infetti, senza saperlo trasportiamo l'infezione, ovunque. Da profondi
abissi senza nome l'oscura forma è sorta e noi, non avendo il
coraggio di affrontarla, lasciamo che cresca. Toglie l'innocenza al
nostro sguardo, distorce i lineamenti, si alimenta del nostro sé.
E cresce, cresce sempre di più, esplode in mille rivoli, urla
nelle gole, arma le mani, arrossa di sangue i fiumi, genera odio,
pazzia, violenza. È il
razzismo.
Un nome che ha il colore del sangue,
che è coperto da milioni di cadaveri. Un nome antico che
percorre la terra da tempi immemorabili. Un nome per il quale si è
ucciso, stuprato, fatto violenza, sfruttato, calpestato, non si è
avuto pietà, si sono cancellate civiltà e paesi. È
una piaga purulenta, coperta di vermi, un lordume che disgusta. È
un fenomeno antico che non sembriamo conoscere bene, che continua
indisturbato a proliferare. E l'indignazione che a tratti, ma solo a
tratti, lo condanna, non sembra avere molto peso, suona un po' troppo
retorica, un po' poco convinta, nel profondo, anche in chi la
pronuncia.
Da dove viene? È possibile
cercarne le spiegazioni, oppure il suo spazio è al di là
della ragione, oltre ogni logica, è lo spazio buio degli
incubi notturni, degli spettri vaganti che attanagliano il cuore, lo
spazio delle paure inconfessate che ci guidano per sentieri che non
conosciamo? Eppure la ragione, i significati vanno cercati, bisogna
affrontare il mostro a viso aperto. Non basta dire di essere contro,
di non essere razzisti, perché è qui, presente, ogni
giorno. Non fa distinzioni ideologiche, alberga nel povero e nel
ricco, nel colto e nell'ignorante. Lo troviamo nei ritagli di
giornale, nelle parole quotidiane, nei piccoli gesti di ogni giorno
dei quali raramente cogliamo il significato profondo. Ci segue come
un ombra.
Un'ombra senza nome. Nessuno riconosce
di essere razzista. Ogni volta, per ogni episodio, ognuno ha sempre
una decina di sane, buone, piccole ragioni, dettate dal piccolo buon
senso quotidiano, quello che fa di noi dei piccoli uomini. La colpa
non è mai da questa parte. Sono sempre gli "altri" i
colpevoli. Colpevoli di essere "stranieri", di non sapersi
comportare in maniera "civile", di avere abitudini strane,
di puzzare, di mangiare cose diverse, di vestire in un altro modo, di
essere dei "barbari", di avere un altro credo, di avere la
pelle di un altro colore. Colpevoli di essere troppo alti o troppo
bassi, troppo biondi o troppo bruni, troppo intelligenti o troppo
stupidi. Colpevoli di essere diversi, di esistere.
Da questa parte non c'è mai
razzismo. C'è solo lo scherzo un po' pesante, che spesso
finisce in tragedia, c'è il desiderio di salvare le proprie
tradizioni minacciate (da chi o che cosa?), si vogliono solo
mantenere le giuste distanze, non si vogliono mescolare le razze
(come fossimo cani con il pedigree), si devono evitare i contatti
troppo ravvicinati.
Ognuno deve stare a casa sua. Gli altri
sono sempre quelli che "rubano" i posti di lavoro, quelli
che insidiano le donne, che rapiscono i bambini, che uccidono,
rubano, vendono droga, che sono brutti, sporchi e cattivi. La verità,
l'unica verità difficile da accettare è che non ci sono
ragioni, né buone, né cattive, c'è solo paura,
intolleranza, odio, ignoranza. È
la paura il primo grande fantasma. L'altro, il diverso, ci mette di
fronte al fatto che sulla Terra non siamo soli, che molti altri
popoli hanno abitato e abitano il mondo. Tanti popoli, tante culture,
ognuna con la sua storia, i suoi percorsi, i suoi valori. Ognuna
convinta di essere unica. Invece non è vero: non siamo gli
unici figli di un Dio, non solo a noi è stato dato di abitare
il mondo.
Il senso del molteplice
Ogni cultura è profondamente
etnocentrica, parte da se stessa e misura tutte le altre sul proprio
metro. Le usanze, i costumi delle altre sono più o meno
accettabili, più o meno ridicoli a seconda di quanto sono
vicini ai propri.
Essere etnocentrici non è
razzismo, è spesso una necessità. Accettare una
cultura, condividerla, equivale a riconoscere validità ai
valori che esprime e quindi le altre culture, avendo valori diversi,
devono avere una minore validità. Ci vuole un lungo esercizio
e una grande abilità per arrivare a capire che il nostro io
non è la misura di tutte le cose. E che gli "altri",
per quanto possano sembrare differenti o ridicoli, sono solo uno
specchio nel quale confrontare ed accettare la nostra umanità.
Ma questo passaggio richiede anche il senso del "molteplice".
Essere cioè coscienti che l'omogeneità, la totalità,
l'"uno" sono negativi. Capire che l'esistenza di altre
culture conferma la validità della propria perché sono
proprio le culture differenti che ci rimandano l'immagine nella quale
ci specchiamo riconoscendo la nostra identità culturale e il
nostro essere umani. Accettare che i fondamenti della nostra cultura
non hanno una validità assoluta, non possono e non devono
avere valore universale, anzi che valgono di più proprio
perché altri valori esistono. È un discorso difficile,
complesso. È molto più facile rifiutare la cultura
diversa, in blocco, come una mostruosità. L'altro, il diverso
non è uguale a noi e quindi, essendo noi esseri umani, è
un uomo sbagliato, è un non-uomo, non del tutto della nostra
stessa natura. Egli si avvicina alle bestie, al mondo selvaggio della
natura. E quindi, come la natura, potente e, come tutto ciò
che è potente, pericoloso.
È
tabù, una minaccia da neutralizzare. È
il barbaro, l'incivile, il selvaggio.
È
a questo punto che può scattare la molla: se l'altro non è
umano è pericoloso, se è pericoloso è una
minaccia alla mia esistenza, una presenza che crea angoscia; allora
l'altro va cancellato fisicamente e culturalmente, va tenuto
separato, allontanato, sorvegliato. Può essere tranquillamente
ucciso e distrutto, schiacciato, anzi va fatto, per riportare il
mondo alla propria unità. Se non è possibile
cancellarlo va addomesticato, reso obbediente. Deve cambiare costumi
e convinzioni, deve diventare simile a noi. Ma non sarà mai
completamente accettato, sarà sempre guardato con risentimento
e diffidenza. La sua presenza mette in dubbio la nostra sicurezza
culturale.
Gli altri, siano essi appartenenti a
culture diverse, ad etnie diverse, o siano solo quegli "altri"
che in ogni cultura esistono, coloro che non accettano tutte le
regole, tutti i valori, ci mettono di fronte ad un problema più
ampio e più profondo e, purtroppo, molto più
angosciante. I diversi ci dicono, con la loro esistenza, che i valori
sui quali si fonda la cultura che accettiamo, le sue stesse basi sono
arbitrari e relativi. I fondamenti culturali non sono basati su un
Dio o sulla Razionalità o sulla Natura o su qualcosa altro
ancora, essi vagano liberi senza un punto fisso. L'abisso si spalanca
sotto i nostri piedi. E troppo spesso non siamo abbastanza forti per
sopportarlo.
I valori che guidano la nostra vita, i
fondamenti che ne sono base e giustificazione rivelano in un attimo
la loro origine: una pura e semplice scelta senza alcun fondamento
religioso o metafisico che si può mettere in discussione, che
i diversi, con la loro presenza mettono in discussione.
Ci vuole molto coraggio per accettare
questa realtà e il diverso che l'incarna. È
più facile cancellarlo, odiarlo, ridurlo ad un demone,
ritrovando la propria sicurezza, i propri fondamenti in un Dio, nella
Ragione od ovunque abbiamo deciso di nasconderli.
Siamo uomini a cui piace giocare la
parte degli dei, ma non riusciamo neppure a fissare il volto umano
che ci racconta che siamo stati noi stessi a creare il nostro mondo,
a dargli valore e fondamento. Preferiamo nasconderci dietro la
maschera di un Dio, magari anche un dio geloso e violento nel cui
nome cancellare i "diversi" dalla faccia della terra.
Paura del diverso, paura di ciò
che non è conosciuto. L'altro è lì, davanti a
noi, realtà ineluttabile, che ci chiede, con la sua presenza,
di conoscerci e di essere conosciuto. Difficoltà ad andare
oltre il nostro io, uscire dalla nostra corazza e raggiungerlo nella
terra senza nome dove gli individui si incontrano, oltre i propri
schemi.
Per conoscere realmente il soggetto
deve essere autonoma, deve cioè, come spiega molto bene Evelyn
Fox Keller potersi permettere "… La sospensione
temporanea dei confini tra l'Io e il non-Io necessaria per ogni
esperienza empatica, cioè un'esperienza che consente a sua
volta il salto creativo tra il conoscente e il conosciuto".(1)
Un'autonomia dinamica che pur salvando
la propria indipendenza sappia alimentarsi ed essere cosciente del
rapporto con gli altri coi quali si resta affettivamente legati. Ciò
presuppone lo sviluppo di una personalità completa, armonica e
matura, l'unica che può rispecchiare "...un senso dell'Io
come fosse al tempo stesso differenziato e rapportato al non-Io,
oltre che un senso degli altri come soggetti con i quali la persona
ha in comune quanto basta a consentire il riconoscimento dei
rispettivi interessi e sentimenti indipendenti, cioè a dire il
riconoscimento degli altri come altri soggetti".(2)
Quanti sono coloro che si possono
riconoscere in un simile ritratto? Per gli altri non rimane che la
paura, l'angoscia e quindi il controllo ossessivo. Non ricerca della
conoscenza dell'altro, non empatia, ma solo dominio, perché
solo il dominio, riducendo tutte le innumerevoli differenze, a pure
ineguaglianze, riduce tutto all'"uno", cancella le
diversità, evita l'obbligo della conoscenza, calma l'angoscia.
Ma la bestia sorgerà,
finché...
A questo punto avrei voluto dire che
invece sono proprio le mille e mille differenze individuali,
culturali, di gruppo, etniche che si confrontano, si scontrano, si
scambiano, si conoscono, si modificano, l'unica risposta. Non solo la
risposta al fenomeno razzista, ma anche e soprattutto una risposta
culturale, poiché esse, come un ecosistema ben equilibrato e
quindi dinamico, permettono alle culture umane di evolversi
continuamente, di adattarsi. La semplificazione, l'omogeneità
sono una strada persa in partenza, portano solo all'autoestinzione.
Avrei voluto dire che solo una
personalità libera che viva in una società libera è
in grado di vivere senza angoscia questi processi.
Ma mi sembrano parole vuote. Non che
non siano ragionevoli, sono fin troppo ragionevoli. Sono parole che
spiegano, comprendono, discettano. La soluzione potrebbe sembrare,
almeno a prima vista, neppure troppo difficile. Ma a che servono le
parole ragionevoli di fronte al mostro che ci sta divorando? Ed è
veramente una soluzione semplice, al di là della carta su cui
è scritta, questa, che prevede di cambiare personalità
distorte e spaventate in personalità mature ed autonome. Forse
sento troppa angoscia, ma, per quanto sia ragionevole, mi sembra
troppo facile.
Il mostro ha vissuto per troppo tempo
nei bui recessi della nostra psiche, è troppo antico e troppo
orrido per scacciarlo con poche parole, seppure ragionevoli. Per
molto tempo ancora la bestia sorgerà chiedendo il suo tributo
e piccoli uomini impauriti lo pagheranno, prima che tutti abbiano il
coraggio di affrontarla a viso aperto, per vederla in faccia e
scoprire che era solo un piccolo, ridicolo, stupido grumo d'ombra.
(1)
Evelyn Fox Keller, "Sul genere e la scienza", Garzanti,
Milano 1987, pag. 119.
(2)
ibidem.
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