Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 18 nr. 156
giugno 1988


Rivista Anarchica Online

Che vergogna!
di Carlo Oliva

Suppongo che quando queste righe capiteranno sotto gli occhi dei lettori sarà già tutto finito, ma in questi giorni di fine maggio è in corso un grande stracciarsi di vesti, sui principali quotidiani e periodici nazionali, in tema di razzismo. Sul pericolo, anzi, che il razzismo prenda piede nel nostro felice paese.
I sintomi, dicono, sono preoccupanti. Eh già.
Una classe di ragazzini di scuola media di non ricordo dove ha scritto una lettera offensiva a certi loro colleghi meridionali. La massima autorità religiosa ebraica in Italia ha accusato la chiesa cattolica e la cultura italiana in genere di vocazione antisemita. A Roma a una signora eritrea è stato impedito di starsene seduta su un autobus, perché c'erano troppi italiani veraci in piedi. In varie località carabinieri, polizia e vigili urbani compiono rapidi blitz contro venditori ambulanti magrebini e senegalesi, rei di vendere prodotti contraffatti (forniti da grossisti assolutamente non-africani, che tutti conoscono e nessuno disturba).
A Roma l'assemblea del comitato del quartiere Macao Castro Pretorio ha chiesto unanime la cacciata degli immigrati di colore, che deturpano il luogo. Eccetera.
Grazie al cielo, salvo qualche villanzone isolato, deplorano tutti. L'atteggiamento standard va dall'"Oh Dio che vergogna" al "Diamoci una regolata che Le Pen è alle porte". Ma unanime è, soprattutto, l'invocazione al Signore perché tanta vergogna ci sia risparmiata. L'Italia, finora esente dalla turpitudine del razzismo, non deve lasciarsene contaminare. Certe cose lasciamole agli americani, o ai francesi, che con tutte le arie che si danno sappiamo tutti che in fondo sono incivili.

La rimozione: uno sport nazionale
È strano, però. Il convincimento per cui nel nostro paese il razzismo oggi non possa allignare, anzi, proprio non alligna, per cui le sue eventuali manifestazioni vanno lette, al massimo, come inquietanti minacce per il futuro, è evidentemente molto diffuso. E nessuno si accorge che, in fondo, è una forma particolarmente raffinata di rimozione. Che non c'è motivo di ritenere che la cultura italiana non sia razzista esattamente come il resto della cultura "occidentale" di cui fa parte.
La rimozione, quando si tratta di questi problemi, è uno sport nazionale. La chiesa cattolica ha fama di muoversi con i piedi di piombo, ma ha rimosso a velocità supersonica il ricordo di un antisemitismo che, fino a pochi decenni fa, era sancito persino nella liturgia. Il rabbino Toaff, si sa, ha rilasciato le sue note dichiarazioni polemiche per indebolire le critiche rivolte alla politica palestinese dello stato d'Israele e dovrebbe vergognarsi a speculare così su una tragedia storica, ma la teoria del popolo deicida, con tutte le conseguenze che ha avuto, non l'ha inventata lui.
La memoria storica laica, a sua volta, ha rimosso con gran cura il ricordo delle nostre avventure coloniali. Abbiamo avuto delle colonie e nulla, assolutamente nulla, autorizza a credere che esse fossero esenti dalla tradizionale brutalità che caratterizza i rapporti coloniali con gli "indigeni". E abbiamo combattuto feroci guerre coloniali. I libri di testo ricordano a stento le due aggressioni all'Etiopia e la conquista della Libia, ma ignorano con cura estrema le sanguinose campagne in Somalia del 1925-'27 (persino Mussolini ebbe occasione di deplorarne la crudeltà) e la guerra coloniale, particolarmente efferata, condotta in Tripolitania e in Cirenaica negli anni 1922-'25 e 1929-'32. Qualcuno forse ricorderà che quando i libici, anni fa, dedicarono un film a quelle vicende, che rappresentano la loro grande tragedia nazionale, la cosa fu considerata una tipica manifestazione della ben nota follia di Gheddafi. Il film in Italia non s'è visto, e mi sembra anzi che chi ne ha voluto organizzare una proiezione in qualche sede culturale sia stato opportunamente incriminato.
Sono cose vecchie, ma non più di tanto. Qualcuno dei protagonisti e comprimari di quelle vicende è ancora tra noi. Naturalmente non fa piacere a nessuno rievocare certi fatti e si può sempre dare la colpa al fascismo, autoassolvendosi in massa. Lo si è fatto anche a proposito delle atrocità commesse nelle zone d'occupazione durante la seconda guerra mondiale, nascondendosi dietro il mito degli italiani occupanti buoni, amatissimi da greci e croati (figuriamoci). Ma non si può far finta di non sapere che la presenza nelle nostre aree metropolitane di immigrati eritrei e somali è conseguenza, fra l'altro, di un certo passato. E questo interessante dato storico potrà anche essere visto in termini di una qualche doverosa responsabilità, no?
Perché la società italiana contemporanea è, appunto, razzista, e non importa molto il fatto che manifesti questa caratteristica da pochi anni, e in forme che possono apparire più attenuate di quelle percepibili altrove. È mancata a lungo, per così dire, la materia prima del razzismo, la presenza di comunità di colore (per cui ci si doveva accontentare di quel fenomeno che qualcuno chiama pudicamente "municipalismo esasperato", come a dire le crociate contro i terroni). Vale la pena di riflettere sulla rapidità con cui, a Milano, o Roma e altrove si sono formati i ghetti per gli immigrati africani, con tutte le caratteristiche classiche dei ghetti urbani, dal degrado ambientale alla riduzione a folclore dei valori culturali dei loro abitanti.

Per una società multiculturale
Come tutti i paesi del Nord industriale, ricco e dilapidatore, ma demograficamente in crisi e bisognoso di braccia (per un certo tipo di servizi a bassa qualifica, più che per la produzione) abbiamo bisogno anche noi del terzo mondo, ma non intendiamo certo accoglierne a braccia aperte i cittadini, nel senso di integrarli nel nostro sistema sociale organizzato, per quello che è. Diminuirebbe di molto l'utile netto dell'operazione. Il ghetto urbano, in un certo senso, è il simbolo di una forma di semi-integrazione flessibile a basso costo, che mantiene i nuovi venuti ai margini della struttura sociale, abbastanza a portata di mano perché possano rendersi utili, ma ostensibilmente "fuori" da essa. Il razzismo, conscio o inconscio, rappresenta il versante ideologico di questa realtà: è il quadro valori in cui s'iscrive questa marginalizzazione forzata.
Per tornare al punto di partenza, non credo sia il caso di scandalizzarsi troppo per le manifestazioni di razzismo dei ragazzini. Sappiamo tutti che non esistono opinioni più reazionarie di quelle espresse dai giovanissimi, che non possono che ripetere le affermazioni che gli si scaricano addosso da ogni dove e non hanno sviluppato l'ipocrisia necessaria per filtrarle e renderle presentabili. Non sarà certo moltiplicando gli appelli a volersi bene tra bambini di tutto il mondo che si otterrà qualcosa. Il problema, evidentemente, è quello di organizzare le nostre città nella prospettiva d'una società multirazziale e multiculturale, approntando, in un equilibrio che suppongo difficile, ma che non dovrebbe essere impossibile inventare, strumenti di integrazione e strumenti di difesa dell'identità nazionale.
Una fatica da bestie, certo, e un prezzo alto da pagare. Ma non ci sono molte altre possibilità: la situazione attuale genera inesorabilmente quel razzismo di cui ci vergogniamo tanto. Oltre tutto, è probabile che una società multiculturale possa essere un filo più divertente di quella in cui ci tocca vivere.
Oh, a proposito, e la proposta della FGCI per la concessione agli immigrati del voto alle amministrative? Gran bravi ragazzi, quelli della FGCI, non c'è che dire. Ma chi era quel tale che diceva che se il voto servisse a qualcosa l'avrebbero già vietato da tempo?