Rivista Anarchica Online
Che vergogna!
di Carlo Oliva
Suppongo che quando queste righe
capiteranno sotto gli occhi dei lettori sarà già tutto
finito, ma in questi giorni di fine maggio è in corso un
grande stracciarsi di vesti, sui principali quotidiani e periodici
nazionali, in tema di razzismo. Sul pericolo, anzi, che il razzismo
prenda piede nel nostro felice paese.
I sintomi, dicono, sono preoccupanti.
Eh già.
Una classe di ragazzini di scuola media
di non ricordo dove ha scritto una lettera offensiva a certi loro
colleghi meridionali. La massima autorità religiosa ebraica in
Italia ha accusato la chiesa cattolica e la cultura italiana in
genere di vocazione antisemita. A Roma a una signora eritrea è
stato impedito di starsene seduta su un autobus, perché
c'erano troppi italiani veraci in piedi. In varie località
carabinieri, polizia e vigili urbani compiono rapidi blitz
contro venditori ambulanti magrebini e senegalesi, rei di vendere
prodotti contraffatti (forniti da grossisti assolutamente
non-africani, che tutti conoscono e nessuno disturba).
A Roma l'assemblea del comitato del
quartiere Macao Castro Pretorio ha chiesto unanime la cacciata degli
immigrati di colore, che deturpano il luogo. Eccetera.
Grazie al cielo, salvo qualche
villanzone isolato, deplorano tutti. L'atteggiamento standard va
dall'"Oh Dio che vergogna" al "Diamoci una regolata
che Le Pen è alle porte". Ma unanime è,
soprattutto, l'invocazione al Signore perché tanta vergogna ci
sia risparmiata. L'Italia, finora esente dalla turpitudine del
razzismo, non deve lasciarsene contaminare. Certe cose lasciamole
agli americani, o ai francesi, che con tutte le arie che si danno
sappiamo tutti che in fondo sono incivili.
La rimozione: uno sport nazionale
È strano, però. Il
convincimento per cui nel nostro paese il razzismo oggi non possa
allignare, anzi, proprio non alligna, per cui le sue eventuali
manifestazioni vanno lette, al massimo, come inquietanti minacce per
il futuro, è evidentemente molto diffuso. E nessuno si accorge
che, in fondo, è una forma particolarmente raffinata di
rimozione. Che non c'è motivo di ritenere che la cultura
italiana non sia razzista esattamente come il resto della cultura
"occidentale" di cui fa parte.
La rimozione, quando si tratta di
questi problemi, è uno sport nazionale. La chiesa cattolica ha
fama di muoversi con i piedi di piombo, ma ha rimosso a velocità
supersonica il ricordo di un antisemitismo che, fino a pochi decenni
fa, era sancito persino nella liturgia. Il rabbino Toaff, si sa, ha
rilasciato le sue note dichiarazioni polemiche per indebolire le
critiche rivolte alla politica palestinese dello stato d'Israele e
dovrebbe vergognarsi a speculare così su una tragedia storica,
ma la teoria del popolo deicida, con tutte le conseguenze che ha
avuto, non l'ha inventata lui.
La memoria storica laica, a sua volta,
ha rimosso con gran cura il ricordo delle nostre avventure coloniali.
Abbiamo avuto delle colonie e nulla, assolutamente nulla, autorizza a
credere che esse fossero esenti dalla tradizionale brutalità
che caratterizza i rapporti coloniali con gli "indigeni". E
abbiamo combattuto feroci guerre coloniali. I libri di testo
ricordano a stento le due aggressioni all'Etiopia e la conquista
della Libia, ma ignorano con cura estrema le sanguinose campagne in
Somalia del 1925-'27 (persino Mussolini ebbe occasione di deplorarne
la crudeltà) e la guerra coloniale, particolarmente efferata,
condotta in Tripolitania e in Cirenaica negli anni 1922-'25 e
1929-'32. Qualcuno forse ricorderà che quando i libici, anni
fa, dedicarono un film a quelle vicende, che rappresentano la loro
grande tragedia nazionale, la cosa fu considerata una tipica
manifestazione della ben nota follia di Gheddafi. Il film in Italia
non s'è visto, e mi sembra anzi che chi ne ha voluto
organizzare una proiezione in qualche sede culturale sia stato
opportunamente incriminato.
Sono cose vecchie, ma non più di
tanto. Qualcuno dei protagonisti e comprimari di quelle vicende è
ancora tra noi. Naturalmente non fa piacere a nessuno rievocare certi
fatti e si può sempre dare la colpa al fascismo,
autoassolvendosi in massa. Lo si è fatto anche a proposito
delle atrocità commesse nelle zone d'occupazione durante la
seconda guerra mondiale, nascondendosi dietro il mito degli italiani
occupanti buoni, amatissimi da greci e croati (figuriamoci). Ma non
si può far finta di non sapere che la presenza nelle nostre
aree metropolitane di immigrati eritrei e somali è
conseguenza, fra l'altro, di un certo passato. E questo interessante
dato storico potrà anche essere visto in termini di una
qualche doverosa responsabilità, no?
Perché la società
italiana contemporanea è, appunto, razzista, e non importa
molto il fatto che manifesti questa caratteristica da pochi anni, e
in forme che possono apparire più attenuate di quelle
percepibili altrove. È
mancata a lungo, per così dire, la materia prima del razzismo,
la presenza di comunità di colore (per cui ci si doveva
accontentare di quel fenomeno che qualcuno chiama pudicamente
"municipalismo esasperato", come a dire le crociate contro
i terroni). Vale la pena di riflettere sulla rapidità con cui,
a Milano, o Roma e altrove si sono formati i ghetti per gli immigrati
africani, con tutte le caratteristiche classiche dei ghetti urbani,
dal degrado ambientale alla riduzione a folclore dei valori culturali
dei loro abitanti.
Per una società
multiculturale
Come tutti i paesi del Nord
industriale, ricco e dilapidatore, ma demograficamente in crisi e
bisognoso di braccia (per un certo tipo di servizi a bassa qualifica,
più che per la produzione) abbiamo bisogno anche noi del terzo
mondo, ma non intendiamo certo accoglierne a braccia aperte i
cittadini, nel senso di integrarli nel nostro sistema sociale
organizzato, per quello che è. Diminuirebbe di molto l'utile
netto dell'operazione. Il ghetto urbano, in un certo senso, è
il simbolo di una forma di semi-integrazione flessibile a basso
costo, che mantiene i nuovi venuti ai margini della struttura
sociale, abbastanza a portata di mano perché possano rendersi
utili, ma ostensibilmente "fuori" da essa. Il razzismo,
conscio o inconscio, rappresenta il versante ideologico di questa
realtà: è il quadro valori in cui s'iscrive questa
marginalizzazione forzata.
Per tornare al punto di partenza, non
credo sia il caso di scandalizzarsi troppo per le manifestazioni di
razzismo dei ragazzini. Sappiamo tutti che non esistono opinioni più
reazionarie di quelle espresse dai giovanissimi, che non possono che
ripetere le affermazioni che gli si scaricano addosso da ogni dove e
non hanno sviluppato l'ipocrisia necessaria per filtrarle e renderle
presentabili. Non sarà certo moltiplicando gli appelli a
volersi bene tra bambini di tutto il mondo che si otterrà
qualcosa. Il problema, evidentemente, è quello di organizzare
le nostre città nella prospettiva d'una società
multirazziale e multiculturale, approntando, in un equilibrio che
suppongo difficile, ma che non dovrebbe essere impossibile inventare,
strumenti di integrazione e strumenti di difesa dell'identità
nazionale.
Una fatica da bestie, certo, e un
prezzo alto da pagare. Ma non ci sono molte altre possibilità:
la situazione attuale genera inesorabilmente quel razzismo di cui ci
vergogniamo tanto. Oltre tutto, è probabile che una società
multiculturale possa essere un filo più divertente di quella
in cui ci tocca vivere.
Oh, a proposito, e la proposta della
FGCI per la concessione agli immigrati del voto alle amministrative?
Gran bravi ragazzi, quelli della FGCI, non c'è che dire. Ma
chi era quel tale che diceva che se il voto servisse a qualcosa
l'avrebbero già vietato da tempo?
|