Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 18 nr. 154
aprile 1988


Rivista Anarchica Online

Nel mondo delle emozioni
di Pippo Tadolini

"Militarismo e antimilitarismo nel mondo delle emozioni" è il titolo della relazione che Pippo Tadolini - della lista Verde di Ravenna - presenterà al convegno nazionale "Ri/pensare l'antimilitarismo" (Forlì, Salone comunale, 13/15 maggio). La pubblichiamo in queste pagine, segnalando che altre relazioni sono state (e saranno) pubblicate sul periodico "Senzapatria", organizzatore del convegno.

Che la guerra e la pace evochino la sensazione immediata di modi diversi degli esseri umani - o di qualunque altro vivente - di guardarsi, di toccarsi, di intrattenere qualsiasi tipo di rapporto, è intuitivo, e fa parte della cultura generale. Eppure, ogni qualvolta i pacifisti, antimilitaristi, nonviolenti e più in generale la gente di sinistra e dei movimenti "alternativi" si sono addentrati nell'analisi delle cause di questo o quel conflitto bellico, quasi sempre essi hanno posto l'accento sulle motivazioni politiche-ideologiche (necessità di una nazione, o di una categoria sociale, di instaurare il proprio potere su altre per non esserne minacciata) o, ancor più, economiche (necessità di un'economia di trovare a qualsiasi costo mercati per la propria espansione). Anzi, il primato dell'economia è sempre stato affermato, soprattutto dalla storiografia d'ispirazione marxista, che ha sempre visto il potere politico stesso come uno strumento di cui la dinamica economica si serve se, finché e nella forma in cui ne ha bisogno.
Ora, in un momento in cui ci troviamo a vivere un'epoca non solo di crisi del capitalismo (come ama dire un certo movimentismo di sinistra), o del marxismo (come usa ripetere la cultura delle "magnifiche sorti e progressive" dell'Occidente), ma direi una globale crisi di civiltà che coinvolge trasversalmente strati sociali, ideologie ed aree geografiche, io credo sia maturo il tempo per porre all'ordine del giorno la revisione dei vecchi metri di giudizio, e rivalutare il ruolo del mondo emotivo - individuale e di gruppo - nel formarsi dei processi che portano intere società o pezzi di esse ad essere, o divenire, guerriere, ed altre, o loro parti, ad opporsi alle guerre anche quando fare ciò possa comportare il rischio della propria vita.

I conigli e le carote
Non è infatti un'astratta comparazione fra psicologia della pace e della guerra che vorrei tentare di trattare in questo intervento. Ci può essere, infatti, una buona dose di psicologia di guerra in uno stato che si considera in pace: l'esempio di come le grandi potenze hanno storicamente trattato le rispettive aree d'influenza è davanti agli occhi di tutti. Così come, d'altra parte, ci può anche essere "spirito pacifista", per esempio, nell'animo di un popolo che si trovi costretto a difendere con la guerra i propri diritti. Su questo tornerò più avanti. Vorrei ora, piuttosto, cercare di analizzare come diversi afflati emotivi siano gli elementi fondamentali del militarismo e del pacifismo, più ancora che della guerra e della pace.
Il militarismo è il movimento di idee finalizzate alla preparazione della guerra, cioè basate sulla convinzione che solo l'uso (attuale o potenziale) delle armi possa garantire un funzionamento quanto più possibile ordinato delle strutture sociali. Le idee si devono tradurre nella costruzione di determinate strutture, più o meno rigidamente gerarchiche, e in varia misura totalitarie, e che - in certo senso - prefigurano al proprio interno il tipo di rapporti che si intendono instaurare con gli eventuali avversari, ispirati sostanzialmente al principio che il più forte comanda. È evidente che tale modo di pensare informerà di sé non solo le strutture specifiche deputate alle guerre (esercito, milizie, polizie) ma anche una parte più o meno grande della società, e quindi le istituzioni educative, le famiglie, l'organizzazione del lavoro, ecc.
È altresì evidente che, ben al di là del contesto economico e/o politico nel quale si esprime (può avvenire nei paesi poverissimi come in quelli opulenti, nei regimi comunisti come nelle società a capitalismo avanzato), il militarismo produce (ed allo stesso tempo è prodotto da) uno stato d'animo adeguato al proprio automantenimento, uno stato d'animo basato sulla regola, sull'esclusione della trasgressione, sull'ordine. Tanto che diventa indistinguibile il confine fra sentimenti interiori e comportamenti sociali, individuali e collettivi. L'individuo, in tale sistema, ha una possibilità di autoaffermazione solo se diventa, o si mostra, forte, o comunque in grado di comandare su qualcun altro. L'esempio della struttura gerarchica di quasi tutti gli eserciti, dove anche l'ultimo sottufficiale è pur sempre un elemento di potere, perché ha qualcuno su cui comandare, è sotto gli occhi di tutti.
Dall'altra parte, il pacifismo è il movimento di idee che pone all'apice della scala dei valori la pace, e quindi nega la preparazione della guerra come strumento per il mantenimento dell'ordine sociale. Semmai (e non in tutte le sue componenti) arriva ad ammetterla suo malgrado, ma solo come eventuale strumento "obbligato" per sconfiggere la sopraffazione e il militarismo dell'avversario (vedremo dopo come questa ammissione si configuri già come una prima sconfitta del pacifismo, e come possa introdurre i germi di un nuovo militarismo).
L'affermazione del valore della pace porta i suoi assertori ad ammettere sì l'esistenza dei conflitti, ma a stabilire che la regola del gioco non può essere la legge del più forte, bensì il confronto delle idee, la capacità di dimostrare di avere ragione, e soprattutto il primato della coscienza, in nome della quale la trasgressione alle regole del potere quando questo chieda di violare il valore della pace, è non solo consentita ma auspicata. L'idea pacifista, quindi, affonda le radici in uno stato d'animo dell'individuo che si dichiara indisponibile all'uso della sopraffazione dell'altro individuo (ammettendo in ciò, al massimo, la legittima difesa), indisponibile ad accettare che chi possiede la forza ha anche il diritto di comandare. Ed anzi rivendica la forza morale come superiore e il più possibile sostitutiva della forza fisica. Esalta il ruolo e la capacità del debole, del fragile, del timoroso.
Una canzone del movimento antimissili di qualche anno fa, secondo me, esprimeva bene questo stato d'animo, quando - di fronte all'appellativo di "conigli" dato ai pacifisti dai militari - trasformava l'insulto in fregio, paragonando i missili a delle grosse carote, che i conigli avrebbero rosicchiato fino a distruggere.
È chiaro che anche il pacifista è soggetto a regole, esistono anche nell'idea pacifista (e nell'eventuale società che essa prefigura) delle leggi che non possono essere trasgredite, ma esse sono il frutto di una mediazione fra gli stati d'animo di soggetti fra loro simili, e producono un gruppo scarsamente gerarchico in cui il potere acquista un valore di poco rilievo.
L'istinto all'autoaffermazione viene praticato tramite l'esaltazione delle proprie capacità intellettuali, della propria forza morale, del primato della coscienza e prende corpo in forme di lotta che possono anche affermare la grandezza dell'individuo proprio nel momento in cui egli si sacrifica. Le figure di Gandhi e di M. L. King ne sono la testimonianza più emblematica.

Ma l'aggressività è naturale?
Certo, a questo punto il discorso rischia di essere al quanto banalizzato, tagliato un po' con l'accetta. Perché anche negli ideali militaristi è sempre esistita la figura dell'eroe, colui che distrugge sì il nemico, ma che è anche disposto a dare la propria vita per la patria in modo del tutto disinteressato. Così come nei movimenti pacifisti non è del tutto estranea una certa attrazione per il potere, la tentazione del comando basato più sulla costruzione di maggioranze che sulla propria forza morale.
Ecco che allora è necessario tentare di andare oltre, non per il piacere della disquisizione filosofica, ma proprio per fornire agli antimilitaristi uno strumento di studio, utile a rinvigorire le loro convinzioni e il loro impegno. Anche perché mi pare giusto cercare di capire per quale intimo motivo l'insieme dei pacifisti sia così composito, fatto di anime che restano ben distinte (i nonviolenti, gli ecopacifisti, gli antimilitaristi puri, gli antimperialisti, i solidaristi, ecc.) anche nel momento dell'azione comune, tanto da dare spesso, l'una dell'altra, dei giudizi assai duri: chi accusa altri di riprodurre esattamente un meccanismo militarista, perché ipotizza l'eventuale uso della forza, chi - viceversa - liquida il rifiuto di usare la violenza come un favore fatto all'avversario e quindi un obiettivo vantaggio del militarismo. Cerchiamo di approfondire.
L'affermazione ottimistica di Rousseau sull'innata bontà della natura e dell'uomo, viene quotidianamente contraddetta dalle innumerevoli forme in cui si esprime l'aggressività. Di questo movimento effettivo e comportamentale profondamente radicato negli esseri viventi si sono occupati in vastissima misura sociologi, filosofi, psicologi, od altri studiosi.
Lorenz, per esempio, non distingue fra aggressività animale ed umana e la considera innata, un istinto che nasce da energia accumulata e risolventesi in esplosioni gestuali e verbali. Una funzione utile alla sopravvivenza della specie, quindi.
L'uomo però, per una sorta di "selezione maligna intraspecifica" avvenuta nel paleolitico (quando la guerra fra tribù regolava l'emergere degli individui più dotati), è arrivato al punto in cui la propria aggressività sta minacciando di estinguere la specie, più che di conservarla. Lorenz propone una sorta di modello idraulico: l'aggressività si accumula spontaneamente e progressivamente, e deve trovare uno sfogo. Se esso manca, prima o poi porta all'esplosione. Modello che a mio avviso è ben applicabile storicamente a molte situazioni. Si pensi, ad esempio, alla guerra Falkland-Malvine voluta dal potere (non a caso militare) argentino proprio per dare una via d'uscita ad un livello di tensione interno divenuto insostenibile.
Lorenz, quindi, considerando l'aggressività un istinto naturale (ed utile) non si pone la questione della sua eliminazione ed anzi, attribuisce il crescere della violenza nella società odierna alla mancanza di sfoghi per l'aggressività. Si tratta, quindi, di incanalarla, tramite - per esempio - l'attività sportiva, o di sublimarla tramite la psicanalisi, e comunque di utilizzarla "a fin di bene" traducendola in "entusiasmo militante" teso alla difesa del gruppo. Chiaramente questa traduzione può poi prendere corpo in vario senso e, dato che ipotizza il bisogno del nemico esterno da cui il gruppo deve difendersi, perché si creino le condizioni dell'esistenza stessa della coesione del gruppo, e l'assunzione del gruppo stesso a valore morale, può anche succedere che il risultato sia proprio quello della creazione di una società militarista.
Per Lorenz si tratterà quindi di direzionare questo entusiasmo militante a sostegno di valori universalmente riconosciuti (l'arte, la scienza, la medicina, ecc.) in modo che l'universalità dei valori favorisca la non opposizione fra culture (nazionali, per l'autore) diverse e diriga l'umanità lontano dall'autodistruzione.
Personalmente penso che il bisogno del nemico sia un concetto sul quale dovrebbe svilupparsi una riflessione, all'interno dei movimenti antimilitaristi, che fino ad ora probabilmente solo la componente più autenticamente nonviolenta ha saputo in qualche modo approfondire. E questo perché il movimento di idee che pone all'apice dei suoi valori la pace non può non interrogarsi su come mai quasi sempre i rovesciamenti sociali (anche quando attuati in perfetta buona fede, da gente che lottava in nome della pace) si sono tradotti nella costruzione di società che, seppure in misura assai diversa fra loro, hanno riprodotto almeno una parte della cultura militarista ed hanno considerato irrinunciabile od inevitabile dedicare parte (spesso gran parte) delle loro energie, ancora una volta, alla preparazione della guerra.
Credo cioè che il pacifismo dovrebbe proprio - ed in questo differenziandosi dagli altri movimenti alternativi, libertari e rivoluzionari - fare di questa riflessione (pur senza alcuna pretesa di dare e darsi una risposta rapida o definitiva) una delle proprie, più qualificanti caratteristiche.

Quei tabù nascosti
Di diverso parere da Lorenz è Erich Fromm, il quale contesta che atti finalizzati a distruggere, proteggere, costruire possono essere fatti risalire alla stessa causa comune dell'aggressività.
Per Fromm, infatti, la conclusione logica del discorso di Lorenz non può che essere crudeltà e sete di sangue, e quindi l'origine del "piacere di uccidere", sia innato nella natura umana tanto quanto l'istinto di sopravvivenza.
Quindi Fromm afferma la necessità di dividere nettamente quella che chiama "aggressione benigna", e che mira alla difesa degli interessi vitali, da una "aggressività maligna", tipicamente umana, che non ha alcuna utilità biologica, né ubbidisce ad alcun programma filogenetico, ma mira a distruggere la vita per il piacere di farlo.
Non vi è, secondo Fromm, il modello "idraulico" di Lorenz secondo cui l'aggressività si accumula spontaneamente, ma è un qualcosa che scatta momento per momento.
Analizzando i bisogni dell'uomo, Fromm evidenzia una serie di esigenze esistenziali, non meno importanti dei bisogni organici, che in sintesi si possono suddividere in:

- bisogno di mettere radici, cioè di costruire legami, dopo che si è consumata una rottura del legame primordiale con madre natura;

- bisogno di identificarsi con ideali o ruoli sociali, o quello di ricercare una maggiore unità interiore con se stessi;

- bisogno di sentirsi efficace, di fare, e questo può essere realizzato sia facendo del bene, esercitando creatività e costruttività, sia facendo del male con la violenza sugli altri;

- bisogno di stimoli, che può cercare in sé e fuori di sé, e la violenza può essere una forma di stimolazione.

Tutti questi bisogni vengono elaborati dal carattere, che sostituisce, nell'uomo, quello che è l'istinto per l'animale, e che orienta la vita in senso creativo o distruttivo a seconda che esistano o meno condizioni favorevoli, il che sta a significare – quindi - che la tendenza alla distruzione è segno di un carattere patologicamente deformato e si risolve sostanzialmente in un fallimento esistenziale.
Allo stesso modo dell'individuo anche i gruppi e le società hanno un carattere, che dipende o comunque è strettamente collegato al tipo di organizzazione economico-sociale, e - afferma Fromm - avere potere su un altro essere umano è assolutamente inutile e non desiderabile, se non è inserito in un sistema sociale che si basa su questo. Ed allora, dice, dietro parole edificanti come "difesa", "onore", "patriottismo", vi sono tabù nascosti e un sistema sociale irrazionale che vanno messi in discussione se si vuole fare uno studio serio delle cause dell'aggressività.
Tutta la storia delle scienze psicologiche si è occupata dei problemi connessi all'aggressività. Freud collega l'aggressività sostanzialmente alla sessualità, e la considera parte della pulsione di morte, che può essere rivolta sia verso l'esterno che verso l'interno secondo i meccanismi sado-masochistici; è una pulsione fondamentale nel gioco delle relazioni oggettuali, ed è quindi determinante nello stabilirsi delle relazioni interpersonali e sociali, ma in ogni caso è il polo opposto rispetto alla pulsione libidica, che è la vera pulsione di vita.
Adler cerca di spostare meglio l'attenzione dall'ambito personale a quello sociale, partendo dall'affermazione che gran parte dei comportamenti individuali nascono come manifestazione aggressiva contro sentimenti d'inferiorità, fondamentali nel giocare un ruolo determinante nelle relazioni sociali.
Sulla natura unicamente sociale e culturale dell'aggressività, invece, si sofferma Agnes Heller, che rifiuta le spiegazioni innatiste-naturaliste. Afferma che accettare la visione culturale sociale permetterà di rifletterci criticamente e di non scaricare sull'impulso innato tutto quanto fa comodo non spiegare.
Si potrebbe andare avanti con un gran numero di citazioni, ma non vorrei rischiare di andare fuori del tema assegnatomi.

La questione del potere
A questo punto, direi di provare a ritornare allo specifico del nostro dibattito e calare le considerazioni sopra esposte nella storia dei nostri ultimi anni; storia che tocca assai profondamente la mente, e il cuore, di molte persone che appartengono alla generazione protagonista, o immediatamente figlia di quel movimento del '68 che rappresentò, prima ancora che una contestazione politica sostanzialmente libertaria ad una struttura politica conformista e per molti aspetti autoritaria, una "ribellione del sé" (e cioè del mondo delle emozioni, dei sentimenti, della creatività) contro l'impero dell'io (cioè della ragione fredda e schematizzante, incarnata nell'ordine e nel conformismo).
Se prendo in esame per qualche istante questo capitolo, è perché, in Europa Occidentale, il movimento pacifista, pur attingendo in parte a radici più antiche, in particolare a Gandhi e ai padri della nonviolenza (Tolstoj, Lanza del Vasto, Capitini e M. L. King) vede probabilmente le sue origini in uno dei tanti rivoli in cui l'esplosione sessantottina si divise e - apparentemente - si disperse.
Parte di quella generazione ha poi subito il cosiddetto riflusso, ha rimosso, ha dimenticato, ha "messo la testa a posto", cioè - di fatto - ha accettato "l'impero dell'io" e le imposizioni superegoiche, o rinnegando le idee professate durante la ribellione, quasi ritraendosi spaventata dalla percezione dei nuovi, affascinanti ma in gran parte ignoti orizzonti che si aprivano, oppure incanalando queste idee in meticolose scelte di programmi, strategie, obiettivi, schieramenti, schiacciando tutto quanto nelle arterie rigide della politica tradizionale, in una parola nella questione del potere, il massimo dell'accettazione dell'"impero dell'io" nella società attuale.
C'è stato però anche chi ha cercato di voler tenere vivo e far emergere il bistrattato, soffocato "fuoco del sé", l'irriducibile istinto alla "vita globale" ed affermare la supremazia del diritto alla vita sugli equilibri strategici, della ricerca della gioia sulla ragion politica, della creatività sui tatticismi, dei movimenti sulle istituzioni.
La scelta di lavorare con il movimento pacifista, o con quello ecologista (peraltro spesso quasi "fusi" tra loro), o con altre espressioni piuttosto spontanee, si può a pieno diritto definire una scelta psicosomatica.
E non per caso i detrattori del pacifismo, e del movimento verde o di quello libertario, assai spesso ci "accusano" di essere "troppo emotivi". Accusa che, probabilmente, a ben riflettere, potrebbe anche farci piacere.
Una scelta psicosomatica, quindi, perché esprime una ribellione esistenziale, molto prima che un dissenso consciamente politico, ad una situazione in cui "l'impero dell'io" ha lavorato così rigidamente da produrre un sistema assolutamente bloccato, e in cui più nulla può essere lasciato al di fuori di una rigida programmazione.
Il militarismo è l'emblema della concentrazione del potere: la sua stessa immagine, geometrica, impettita, anelastica, metalliforme, "ipertesa", è più eloquente di qualsiasi tentativo di spiegazione descrittiva. Il suo mondo chiuso, impermeabile dall'esterno ed imperforabile dall'interno, è un potere più potente e micidiale del potere stesso (quello "politico") che in teoria dovrebbe controllarlo.
In tale sistema, che per definizione ripudia l'emotività ed afferma la disciplina e le gerarchie, più nulla può essere lasciato al caso o alla fantasia, e incombe costante il rischio di uno spaventoso "ictus" del mondo.
Il movimento pacifista (ma lo stesso discorso, "mutatis mutandis", vale per quello ecologista, quello delle donne, ed altri ancora), il suo essersi "autogenerato" contemporaneamente, al di fuori di collegamenti precostituiti, in quasi tutti i paesi del mondo occidentale, il suo affermare la non delega, la voglia degli individui di esserci come tali, e non solo come "masse" più o meno anonime, anche nell'immagine (i sit-in, le catene umane, i digiuni, e non solo i più tradizionali cortei o altre forme simili di lotta) si propone con tutta la presenza e la potenza dei corpi, dei singoli corpi dei singoli individui e dei loro linguaggi; ed esprime un'esigenza che sfugge alle catalogazioni stereotipate "del politico", ed anzi si trova a combattere non solo contro il sistema militarista superegoico, ma anche contro i tentativi dell'"io politico" (principalmente esprimentesi nei partiti, in paesi come il nostro) di incanalarlo in "traduzioni" razionali, coscienti, asimboliche, e ancora una volta repressive - al di là di quali siano gli schieramenti e le maggioranze - dell'istinto e dell'affettività.
Il movimento e i gruppi pacifisti ed antimilitaristi riusciranno a tener fede alla loro origine "psicosomatica" se sapranno rinunciare, o quanto meno dimensionarla, alla tentazione di rinchiudersi nella "sicurezza" nelle rigide pareti delle istituzioni verticali, se sapranno accettare senza panico le prospettive di un mondo nudo di armi, ma ricco di vita, in cui le aggressività, pur esistenti, le tensioni ed i conflitti, pur inevitabili, si spandano in orizzonti di creatività anziché di violenza bellica.
E soprattutto ci riusciranno se sapranno "inquinare" (ed esserne " inquinati") gli altri movimenti, gli altri simboli della vita contro la morte, quello ecologico, quello delle minoranze etniche, ecc., in una "respirazione collettiva" che tutto vivifica.
È ovvio che non sto qui proponendo che ogni simpatizzante pacifista si sottoponga ad una psicoterapia, prima di iniziare la sua militanza; ma ritengo che all'interno del "popolo della pace" la riflessione interiore dovrebbe diventare una caratteristica di quotidiana metodologia di lavoro.
Altrimenti si rischia di ritornare a schemi vecchi e perdenti, al bisogno vitale di avere un nemico identificabile, a non vedere che in buona parte il "lupo cattivo" è dentro l'individuo (anche l'individuo pacifista). E la conseguenza sarà ritrovare la "guerra giusta", la "violenza liberatrice".
Non voglio qui addentrarmi nell'approfondimento della questione dal punto di vista nonviolento, che pure mi starebbe a cuore. Mi sembra però che spesso anche i pacifisti abbiano voluto trovare ad alcune guerre, quelle "di popolo" o "di liberazione" tali motivazioni da renderle da giustificabili a giuste.
Cioè abbiamo indulgentemente lasciato che una nuova logica militarista si sostituisse alla eventuale logica della drammatica, dolorosa, obbligata scelta di usare le armi come strumento di legittima difesa, ma pur sempre nella coscienza di stare compiendo un gesto, una scelta, negativi delle convinzioni di pace.
Forse persuasi (almeno "temporaneamente") che chi ama la pace non può fare bene la guerra, si è lasciato che quest'ultima assumesse, da scelta di sopravvivenza, un qualche valore positivo, o fondasse una nuova mistica del soldato, dell'esercito, del combattimento, molto spesso presenti in paesi che al termine di sanguinose guerre di liberazione si sono trovati a non essersi "liberati" dei germi del militarismo.
Il che non vuol dire affatto proporre di non essere solidali con chi combatte per la propria libertà. Solo, vuol dire sostenere che quei valori che abbiamo voluto proporre in opposizione alla protervia del mondo militarista, siano e restino validi innanzi tutto per noi stessi.
L'uso della violenza, ci ricorda Gandhi, non conduce a soluzioni stabili dei conflitti di gruppo e tende quindi a perpetuare l'uso della violenza stessa.
L'impiego della violenza tende nel corso del tempo a brutalizzare coloro che la usano rendendo sempre più facile giustificare se stessi. Il ricorso alla violenza conduce al rafforzarsi permanente di quelle istituzioni connesse con l'uso della violenza organizzata.
Alla "saggezza" politica occidentale "il buon fine giustifica i cattivi mezzi" Gandhi oppone la sua tesi dicendoci che "non si può ottenere una rosa piantando della gramigna".
E con questa considerazione, credo sia giusto concludere, in spirito di riflessione.