Rivista Anarchica Online
Sociale non profonda
di Murray Bookchin
Dietro la stessa parola "ecologia"
si celano concezioni tra loro molto diverse, a volte addirittura
opposte. È il caso della cosiddetta
"ecologia profonda", che Murray Bookchin prende in esame in
questo saggio (originariamente apparso sul n. 4/5 del bollettino
Green Perspectìves). Niente a che vedere con l'ecologia
sociale.
Il movimento ambientalista ha fatto
molta strada, ed è ormai lontana l'epoca in cui si celebrava
annualmente la "giornata della Terra", nel corso della
quale milioni di scolari venivano ritualisticamente mobilitati per
ripulire le strade, mentre i loro genitori, colpevoli di aver
insozzato il paesaggio con lattine, giornali e bottiglie, venivano
rimproverati da Arthur Godfrey, da Barry Commoner, da Paul Ehrlich e
da un manipolo di legislatori manipolatori. Questo logoro approccio tipo "giornata
della Terra", che mira a una "gestione" della natura
in modo da consentire agli uomini di violentare la Terra senza
arrecare troppi danni a se stessi - un approccio che verso la fine
degli anni '60 ho definito "ambientalista" in
contrapposizione con l'ecologia sociale - sembra ormai cedere il passo
a una mentalità più problematica e radicale. Oggi il
termine di moda è "ecologia" - sia essa "ecologia
profonda", "ecologia umana", "ecologia
biocentrica", "ecologia antiumanista", oppure, per
usare un termine eccezionalmente ricco di significato, "ecologia
sociale". Fortunatamente, la nuova rilevanza del
termine "ecologia" dimostra che gli intellettuali tendono
sempre più a rifiutare ogni tentativo di sfruttare le grandi
problematiche ecologiche per fini puramente spettacolari e di
manipolazione politica. Le foreste che scompaiono a causa del
disboscamento indiscriminato e delle piogge acide in continuo
aumento, l'involucro di ozono che si assottiglia a causa dell'uso
diffuso dei fluorocarburi, le discariche di sostanze tossiche che si
moltiplicano su tutto il pianeta, le sostanze inquinanti e spesso
radioattive che contaminano l'aria e l'acqua e le catene alimentari -
tutti questi pericoli, e gli innumerevoli altri che mettono a
repentaglio l'integrità stessa della vita, sollevano problemi
basilari, assai più importanti di quelli che possono essere
risolti dai ripulisti delle "giornate della Terra" e da
timidi aggiustamenti delle leggi ambientalistiche esistenti. Un numero sempre maggiore di persone
sta cercando di superare il futile ambientalismo dei primi anni '70 e
tende a un approccio più essenziale e profondo, più
radicale, alla crisi ecologica che ci affligge. Queste persone sono
alla ricerca di un approccio ecologico, che affondi le proprie radici
in una filosofia, in un'etica, in una sensibilità, in
un'immagine della natura tutte ecologiche: aspirano, in definitiva, a
un movimento ecologico che trasformi la nostra società basata
sul dominio e sul mercato in una società cooperativa non
gerarchica - una società che sappia vivere in armonia con la
natura perché i suoi membri vivono in armonia gli uni con gli
altri. Il problema che dobbiamo porci ora è
il seguente: che cosa intendiamo realmente per approccio ecologico?
Che cosa sono una filosofia, un'etica e un movimento ecologicamente
coerenti? Come è possibile mettere insieme le risposte a
queste e a molte altre domande, in modo da formare un tutto unico,
significativo e creativo? Se non vogliamo ripetere gli errori
dei primi anni '70, con il loro bla-bla sul "controllo della
popolazione", l'antifemminismo latente, l'elitarismo,
l'arroganza, le sordide tendenze autoritarie, dobbiamo analizzare con
onestà e serietà tutte le nuove tendenze che oggi vanno
sotto il nome di una o dell'altra forma di "ecologia".
C'è ecologia ed ecologia
Mettiamoci subito d'accordo su un
fatto: che il termine "ecologia" non è una parola
magica, con la quale si possa scoprire il segreto del nostro abuso
della natura. È
semplicemente una parola, che può essere usata a sproposito,
distorta e infangata non meno di altre, come "democrazia" e
"libertà". Né si può dire che la
parola "ecologia" basti ad accomunarci e a metterci tutti -
chiunque "noi" siamo - nella stessa barca contro gli
ambientalisti, che pretenderebbero di far funzionare una società
marcia semplicemente rivestendola di fogli verdi e di fiori colorati,
ignorando le cause profonde che hanno dato origine ai nostri problemi
ecologici. È
ora di guardare onestamente in faccia la realtà e di rendersi
conto che all'interno del cosiddetto "movimento ecologico"
dei giorni nostri esistono differenze non meno gravi e marcate di
quelle che esistevano tra l'"ambientalismo" e
l'"ecologismo" all'inizio degli anni '70. Ci sono razzisti
a malapena dissimulati, survivalisti, "macho" emuli di
Daniel Boone e reazionari dichiarati che esprimono le loro idee
usando la parola "ecologia", così come la usano nel
dar voce alle proprie convinzioni e al proprio impegno serio e
profondo naturalisti, comunitaristi, radical e femministe. Le differenze tra queste due tendenze
non consistono soltanto nelle divergenze su ciò che attiene
alla teoria, alla sensibilità e all'etica. Hanno notevoli
conseguenze pratiche e politiche. Non consistono soltanto nel modo
diverso di considerare la natura e ciò che si definisce come
termine vago "umanità", e neppure nel diverso
significato che attribuiamo alla parola "ecologia":
riguardano anche il modo in cui intendiamo cambiare la società,
e i mezzi di cui vogliamo avvalerci. Le differenze più macroscopiche
che stanno emergendo oggi all'interno del cosiddetto "movimento
ecologico" sono quelle tra la cosa vaga, informe, inconsistente
e spesso auto-contraddittoria, che va sotto il nome di "ecologia
profonda", e quel corpus di idee lungamente maturato, coerente e
orientato in senso sociale, che si può definire propriamente
"ecologia sociale". L'"ecologia profonda" ci è
piombata tra capo e collo in tempi recenti, con la sua bizzarra
mistura californiana di Hollywood e Disneyland, insaporita da
prediche ispirate al taoismo, al buddismo, allo spiritualismo, a un
cristianesimo resuscitato e talvolta anche all'eco-fascismo. Per
contro, l'"ecologia sociale" si ispira a illustri pensatori
radical sostenitori del "decentramento" come Piotr
Kropotkin, William Morris e Paul Goodman, per citare solo alcuni tra
i tanti che hanno cercato seriamente di lottare contro questa società
gerarchica, sessista, classista, soggetta al potere statale e
storicamente militarista. Esaminiamole a fondo, allora, queste
differenze. A dispetto di tutta la sua retorica sociale, l'"ecologia
profonda" non ha capito, in realtà, che i nostri problemi
ecologici affondano le radici nella società e nelle
problematiche sociali. Predicando, farnetica di una sorta di "peccato
originale", dannazione di una specie indefinita detta "umanità"
- come se si potesse fare d'ogni erba un fascio: gente di colore e
bianchi, donne e uomini, Terzo Mondo e paesi sviluppati, poveri e
ricchi, sfruttati e sfruttatori. Questa "umanità"
indifferenziata e indefinita è vista fondamentalmente come
un'orribile cosa "antropocentrica" - presumibilmente, un
prodotto maligno dell'evoluzione naturale - che sta "sovrappopolando"
il pianeta, "divorando" le sue risorse, distruggendo la
natura e la biosfera - come se la "natura" fosse qualcosa
di vago e indefinito, in contrapposizione con una moltitudine di cose
non naturali dette "esseri umani", con la loro
"tecnologia", le loro "menti", la loro "società",
e così via. L'"ecologia profonda", formulata
principalmente da esponenti del mondo accademico, cioè da
persone privilegiate, dalla pelle bianca, di sesso maschile, è
riuscita a trascinare naturalisti sinceri come Paul Shepard nella
stessa congrega di cui fanno parte antiumanisti e fautori di un rozzo
virilismo da "montanari" come David Foreman di Earth
First! ("La Terra innanzitutto!"), il quale va
predicando che l'"umanità" è una sorta di
cancro che minaccia la vita. Ci si dimentica facilmente che proprio
partendo da un'analoga, rozza brutalità "ecologica" -
in nome di un "controllo della popolazione" di stampo
razzista - Hitler forgiò quelle teorie sul sangue e sulla
terra che portarono milioni di persone alla morte nei campi di
sterminio come Auschwitz. La stessa brutalità ecologica
ricompare a distanza di mezzo secolo tra coloro che si
autodefiniscono "ecologi profondi", i quali sostengono che
bisognerebbe lasciar morire di fame i popoli del Terzo Mondo e che la
polizia di frontiera dovrebbe impedire l'ingresso negli USA ai
disperati immigrati indios latino-americani, potenziali parassiti
delle "nostre" risorse ecologiche. Quest'esempio di brutalità
ecologica non è tratto dal Mein Kampf di Hitler, bensì
dalla rivista Simply Living, e in particolare da
un'apologetica intervista a David Foreman, condotta dal professor
Bill Devall (coautore, con il professor George Sessions, di Deep
Ecology, manifesto autorizzato del movimento "ecologia
profonda"). Nel corso del colloquio, dopo essersi dichiarato in
perfetta sintonia con le idee di "ecologia profonda",
Devall spiegava in tutta sincerità all'intervistatore: "Quando
dico che la peggior cosa da fare è fornire aiuti all'Etiopia
mentre dovremmo lasciare che la natura stessa trovi il suo
equilibrio, che la gente, semplicemente, muoia di fame, mi si accusa
di mostruosità... Ugualmente, consentire che gli USA diventino
una valvola di sfogo per i problemi dell'America latina non significa
risolvere le cose. Serve solo ad aumentare il carico al quale
dobbiamo far fronte con le risorse di cui disponiamo negli Stati
Uniti". Ci si potrebbe ragionevolmente
chiedere quale significato abbia l'espressione "che la natura
trovi il suo equilibrio", riferita a una parte del mondo come
l'Africa orientale, in cui l'agribusiness, il colonialismo e lo
sfruttamento hanno distrutto l'equilibrio culturale ed ecologico che
un tempo esisteva. E ancora: che cosa s'intende con questo "noi",
proprietario delle "risorse di cui disponiamo negli Stati
Uniti"? Ci si riferisce forse alla gente comune, che per
necessità è spinta a tagliare legname, sfruttare le
miniere, far funzionare impianti nucleari? Oppure ci si riferisce
alle grandi corporation, che non solo stanno mandando in rovina il
nostro buon, vecchio paese, ma sono anche direttamente responsabili
dei principali problemi che affliggono oggi l'America latina e
spingono tanta gente, per gran parte indios, a varcare il Rio Grande?
Già Kropotkin un secolo
fa...
L'"ecologia profonda" è
a tal punto una sorta di "buco nero" di idee mal digerite,
distorte e maturate a metà, che ci si può permettere di
esprimere concetti atroci e apparire ugualmente come un fervente
radical, in lotta contro tutto ciò che vi è di
antiecologico nelle idee correnti. Di fatto, lo stesso termine "ecologia
profonda" ci fa capire che non ci troviamo di fronte a un corpus
di idee chiare, ma sull'orlo di un pozzo senza fondo, che risucchia
concetti vaghi e umori d'ogni sorta nel baratro di una discarica per
scorie tossiche ideologiche. È sensato, ad esempio,
contrapporre l'"ecologia profonda" all'"ecologia
superficiale", come se il termine "ecologia" si
potesse applicare a tutto ciò che attiene a problematiche
ambientali? Premesso che è irragionevole usare la parola
"ecologia" per indicare tutto ciò che ha natura
biosferica, non s'impoverisce la sua ricchezza di significato
legandola a termini come "poco profonda" o "profonda"
aggettivi adatti a indicare le caratteristiche di un pozzo nero, più
che a misurare la qualità delle idee? Arne Naess, il pontefice
dell'"ecologia profonda", che ci ha imposto questa
terminologia, e i suoi compari George Sessions e Bill Devall, che
l'hanno smerciata al di fuori di Ecotopia, hanno semplicemente preso
una parola pregnante - ecologia - e l'hanno privata di ogni
intrinseco significato o integrità, definendo "ecologisti"
(piuttosto "superficiali" però, in contrasto con il
concetto di "profondo" che è loro caro) gli
ambientalisti più pedestri. Tutto questo non è soltanto un
esempio di come si possa giocare con le parole. Ci fa capire qualcosa
circa la ristrettezza mentale di questi pensatori "profondi".
Ironizzare sui termini "poco profondo" e "profondo"
riferiti all'ecologia non serve soltanto a sottolinearne l'assurdità,
ma anche a rivelare la superficialità dei loro inventori.
Esiste forse un "ecologia più profonda"
dell'"ecologia profonda"? E qual è allora
l'"ecologia più profonda di tutte", quella che
riconosce appieno all'"ecologia" il suo carattere di
filosofia, sensibilità, etica e movimento per la
trasformazione sociale? Queste assurdità ci fanno
capire - forse anche più di quanto ci rendiamo conto - quale
confusione il trio Naess-Sessions-Deval (per non parlare di
ecologisti disumani come Foreman) abbia seminato nel movimento
ecologico, fin da quando esso ha cominciato a svilupparsi e a
crescere, superando le posizioni ambientaliste degli anni '70. I "pensatori profondi" non
si curano del fatto che il nuovo contesto in cui si colloca un'idea
può mutare radicalmente il significato dell'idea stessa. Il
"nazional-socialismo" tedesco, che conquistò il
potere con il Terzo Reich nel 1933, lottava contro il capitalismo e
per il suo impegno in questa direzione guadagnò molti adepti
provenienti dalle file dei partiti socialdemocratico e comunista.
Tuttavia, il suo "anticapitalismo" si collocava in un
contesto profondamente razzista, imperialista e apparentemente
"naturalista", che esaltava la natura, la sociobiologia (il
termine non era stato ancora inventato, ma si parlava già di
"moralità del gene", per citare la deliziosa
espressione di E. O. Wilson, e si attribuiva grande importanza alla
"memoria razziale", per ricordare l'espressione junghiana
di Irwin Thompson) e l'anti-razionalismo; caratteri, questi, che si
ritrovano tutti in forma latente o esplicita in Deep Ecology
di Sessions e Devall (d'ora in avanti, salvo diversa indicazione,
tutti i riferimenti e le citazioni s'intendono da questo saggio, che
è diventato la bibbia del "movimento" al quale ha
dato il nome). Si noti che Naess, Sessions e Devall
non hanno scritto sulla decentralizzazione, sulla prospettiva di una
società non gerarchica, sulla democrazia, sull'autonomia
locale, sull'aiuto reciproco, sul comunismo e sulla tolleranza nulla
che non fosse stato già elaborato minuziosamente e
brillantemente contestualizzato in una visione unitaria e coerente da
Piotr Kropotkin un secolo fa, e poi dai suoi "seguaci" tra
gli anni '30 e gli anni '40 del nostro secolo. Le opere di questi
scrittori hanno ispirato grandi movimenti in Europa e una vastissima
letteratura - movimenti anarchici, potrei aggiungere, come la
Federazione anarchica iberica in Spagna: una tradizione che alcuni
presunti "Verdi" demonizzano come "sinistrorsa",
come "eco-anarchica", oppure (è il caso di George
Sessions, che in un recente convegno ecofemminista ha risposto in
questi termini alla domanda sulla differenza "l'ecologia
profonda" e l'ecologia sociale) come qualcosa che sta a metà
strada tra lo spiritualismo e il "marxismo" - affermazione,
questa, volutamente mendace e velenosa. Ma ciò che i ragazzi di
Ecotopia stanno facendo è questo: mutano totalmente il
contesto delle idee, introducendovi personalità e concetti che
ne snaturano la portata radicale libertaria.
Oltre l'eco-bla-bla
In Deep Ecology vengono
incensati con lo stesso entusiasmo un ignobile reazionario come
Thomas Malthus, unitamente alla tradizione neo-malthusiana da lui
derivata, e un libertario radicale come Henry Thoreau, promotore di
una tradizione altamente umanistica. L'aggettivo "eclettico"
non basta a definire questo pot-pourri, che sembra costruito
astutamente allo scopo di riunire sotto la sigla "ecologia
profonda" tutti coloro i quali siano disposti a ridurre
l'ecologia a una religione, piuttosto che considerarla un corpus di
idee profondamente critiche. Tuttavia, dietro a tutto ciò
s'indovina uno schema. Il tipo di pensiero "ecologico" che
informa il saggio sembra emergere chiaramente in un'appendice
intitolata "Ecosophy T" (Ecosofia T), elaborata da Arne
Naess, che ci fornisce una serie di diagrammi di flusso e di tabelle
di tipo aziendalistico, affini a un metodo di esposizione
logico-positivista (e infatti Naess è stato per anni un adepto
di questa repellente scuola di pensiero), ma non certo a qualcosa che
si possa definire filosofia organica. Se guardiamo oltre l'"eco-bla-bla"
(per usare un termine coniato da una notevole eco-femminista, Chiah
Heller) ed esaminiamo il contesto entro il quale sono collocate
esigenze quali la decentralizzazione, le comunità su scala
ridotta, l'autonomia locale, l'aiutarsi reciprocamente, il comunismo
e la tolleranza, allora le immagini sfocate create da Sessions e
Devall cominciano a delinearsi con maggiore nitidezza. Né la decentralizzazione, né
le comunità su scala ridotta, né l'autonomia e neppure
l'aiutarsi reciprocamente e il comunismo hanno un carattere
intrinsecamente ecologico o emancipatorio. Poche società
furono più decentralizzate di quella feudale europea, la quale
di fatto era strutturata intorno a comunità su scala ridotta,
fondate sul reciproco aiuto e sull'uso comunitario della terra. L'autonomia locale era tenuta in gran
conto e l'autarchia era un elemento-chiave nell'economia delle
comunità feudali. Eppure, poche società furono più
gerarchiche. Al di sopra dei servi della gleba, legati alla terra da
un complesso "ecologico" di diritti e doveri che li poneva
in una condizione solo di poco superiore quella degli schiavi,
c'erano i villani e poi via altri gruppi sociali: baroni, conti,
duchi e infine i re, per la verità non molto potenti. Nell'"ecologia profonda" e
nell'interpretazione di David Foreman, la natura è vista come
una sorta di scenario da cartolina, come un bel paesaggio da ammirare
mentre si siede intorno a un fuoco da campo (magari con una birra
Budweiser per tenere allegri i ragazzi, o con una sigaretta Marlboro
per dar loro un'aria più virile) - non certo come uno sviluppo
evolutivo cumulativo, che comprende anche la specie umana, le sue
facoltà intellettuali e le sue forme di comunicazione
altamente simboliche, e neppure, allorché si passa alla
"seconda natura", come uno sviluppo culturale che ha la sua
propria storia e un legame metabolico con la precedente "prima
natura". Chi considera la natura come uno sviluppo cumulativo
dalla "prima" alla "seconda natura" rischia di
essere accusato di "antropocentrismo" - come se
l'autocoscienza umana nella sua espressione migliore non fosse
semplicemente la natura divenuta cosciente di sé. Fondamentalmente, l'eclettismo che
trasforma l'"ecologia profonda" in un minestrone di
concetti e stati d'animo risulta essere insopportabilmente riformista
e sorprendentemente ambientalista a parte tutte le critiche
all'"ecologia superficiale".
Ambiguità della demografia
Ad onta del suo presunto radicalismo,
l'"ecologia profonda" è più vicina a coloro
che vagheggiano l'avvento di una "Nuova Era" di un'era
dell'"Acquario", come certi movimenti ambientalisti che
essa stessa critica. Di fatto, la misura in cui l'"ecologia
profonda" si adatta ad alcuni dei tratti peggiori delle
"concezioni dominanti" che dichiara di rifiutare risulta
straordinariamente chiara, se si considera una delle esigenze
fondamentali che essa formula con maggiore insistenza: quella della
riduzione della popolazione mondiale, secondo uno dei suoi adepti, a
500 milioni di persone. Se gli "ecologisti profondi"
avessero una conoscenza anche vaga dei "teorici della
popolazione" che Devall e Sessions citano con ammirazione -
Thomas Malthus, William Vogt e Paul Ehrlich - si sentirebbero in
dovere di precisare: con metodi praticamente eco-fascisti. È
questo uno spettro che la sinistra affermazione di Devall e Sessions
evoca chiaramente dinanzi ai nostri occhi: "...più
tarderemo (nel controllo della popolazione), più le misure da
prendere saranno drastiche" (pag .72). C'è un'altra cosa da ricordare,
non meno importante: la demografia è una disciplina sociale
estremamente ambigua, connotata ideologicamente, che non può
essere ridotta a un semplice gioco numerico sulla riproduzione
biologica. Gli esseri umani non sono mosche della frutta (la specie
che i neomalthusiani amano citare). Il loro comportamento
riproduttivo è profondamente condizionato da valori culturali,
dalle condizioni di vita, dalle tradizioni sociali, dalla condizione
delle donne, dalle convinzioni religiose, dai conflitti
socio-politici e da varie aspettative socio-politiche. Quando una
cultura precapitalistica stabile viene distrutta, e la gente è
costretta ad abbandonare la terra e a rifugiarsi negli slum urbani,
può accadere - per colmo d'ironia - che la demoralizzazione
sia causa di un aumento della popolazione, e non di un calo
demografico. La migliore dimostrazione della
stretta connessione esistente tra fattori sociali e demografia
consiste forse nel fatto che per la maggior parte del XIX e del XX
secolo in Europa il miglioramento delle condizioni di vita ha
contribuito a ridurre il tasso d'incremento demografico, talora
portandolo addirittura a valori negativi. Non sorprende che Earth First!,
il cui direttore è un fervido propugnatore dell'"ecologia
profonda", abbia pubblicato un articolo intitolato "Population
and AIDS" ("Popolazione e AIDS"), nel quale si
sosteneva l'infame teoria secondo la quale l'AIDS sarebbe un ottimo
mezzo per il controllo della popolazione. L'articolo non era uno
scherzo. Il tema era elaborato con cura, ampiamente documentato
(seppure con ragionamenti che potremmo definire da Paleolitico) e
sostenuto con convinzione. L'AIDS non imporrà soltanto un
pesante tributo in termini di vite umane, asseriva l'autore, ma
potrebbe anche "causare una crisi della tecnologia (leggi: una
carenza delle risorse alimentari) e delle esportazioni, che a sua
volta potrebbero contribuire a ridurre ulteriormente la popolazione
umana" (1 maggio 1987). Questa gente si pasce delle calamità,
delle sofferenze e della miseria che affliggono il genere umano, e
hanno una predilezione particolare per il Terzo Mondo, dove l'AIDS è
un problema più mostruoso che altrove.
Una questione innanzitutto sociale
Tutto questo ci conduce, in quanto
ecologisti sociali, a un problema che sembra esulare completamente
dai rozzi interessi dell'"ecologia profonda": l'evoluzione
naturale ha dato agli esseri umani la capacità di formare
dalla natura "prima", o primeva, una natura "seconda",
o culturale. Anzi, l'evoluzione naturale ha dato agli umani non
soltanto la capacità, ma anche la necessità di
intervenire finalisticamente nella "prima natura", di
cambiare consapevolmente la "prima natura" per mezzo di una
forma altamente istituzionalizzata di comunità, che chiamiamo
"società". All'evoluzione naturale non è
estraneo il fatto che nel corso di miliardi di anni si sia sviluppata
una specie detta umana, capace di pensare in modo sofisticato. E a
quella specie non è estraneo il fatto di elaborare una forma
di comunicazione simbolica estremamente sofisticata che ha consentito
lo sviluppo di un nuovo tipo di comunità - istituzionalizzata,
guidata dal pensiero e non più soltanto dall'istinto,
perennemente mutevole - chiamata "società". Se questa specie, ricca di doti
plasmate dalla creatività dell'evoluzione naturale, svolgerà
il ruolo di una natura resa auto-cosciente, oppure andrà
contro l'evoluzione naturale e semplificherà la biosfera,
inquinandola e compromettendo i risultati complessivi dell'evoluzione
organica, è essenzialmente un problema sociale. La questione
più importante che l'ecologia deve affrontare oggi riguarda la
possibilità di trasformare l'attuale società
antiecologica, creando da essa una nuova società orientata
ecologicamente. L'"ecologia profonda" non ci
suggerisce alcun approccio per dare risposta a un quesito così
importante, né tanto meno per agire in tale direzione. Non si
limita a enucleare idee preziose (i concetti di decentralizzazione,
di società non gerarchica, di autonomia locale, di aiuto
reciproco e di comunismo) dalla tradizione anarchica libertaria del
passato, nell'ambito della quale esse si erano caricate di contenuti
estremamente variegati, anti-elitari ed egalitari rafforzati dalle
ferventi lotte di milioni di uomini e donne in favore della libertà.
Le riduce anche a slogan-materasso, che possono essere riciclati e
usati indifferentemente da un macho montanaro come Foreman a un
estremo, e all'estremo opposto da fragili spiritualisti. Ma non
basta: gli slogan vengono anche ricollocati in un contesto
particolarmente repulsivo, i cui contorni sono definiti
dall'elitarismo malthusiano, dalla misantropia antiumanista e da un
"biocentrismo" apparentemente benigno, il quale dissolve
l'umanità, con la sua capacità naturale di pensiero
concettuale e di autocoscienza, in una "democrazia biocentrica"
che non è tanto realtà naturale, quanto prodotto della
consapevolezza umana. In virtù della sua logica assurda,
questa "democrazia biocentrica" - alla stessa stregua si
potrebbe parlare di moralità degli alberi, o di un "contratto
sociale" tra il leopardo e la sua preda - non può negare
ai virus patogeni il diritto di essere compresi nell'"elenco
delle specie minacciate" (ma chi decide di inserirveli,
innanzitutto?), al pari delle balene. Le radici sociali della crisi
ecologica sono occultate da una forma di spiritualità ibrida e
spesso contraddittoria, nella quale l'"io" umano, scritto a
caratteri cubitali, viene proiettato nell'ambiente o in cielo come
una divinità reificata - una bella dimostrazione di
antropocentrismo, se mai ve ne fu una, non diversa da quella degli
sciamani che si vestivano con pelli e corna di cervo - per essere
bassamente "venerato" come "Natura". Arne Naess,
grande pontefice di questo guazzabuglio, ci informa che "i
principi basilari ai quali s'ispira il movimento dell'ecologia
profonda hanno fondamenta religiose o filosofiche" (pag. 225):
come se questi due termini potessero essere usati indifferentemente.
Quanto all'individualità, essa viene dissolta in un "io"
cosmico proprio in un periodo in cui i mass-media, le grandi imprese
e lo Stato utilizzano con agghiacciante frequenza l'arma della
de-individualizzazione e della passività. Infine l'"ecologia
profonda", che si preoccupa tanto della manipolazione della
natura, non si cura quasi della manipolazione degli esseri umani a
opera dei loro simili, salvo forse quando si tratta di prevedere
"drastiche" misure che potrebbero essere "necessarie"
per il controllo demografico.
La società umana come
"seconda natura"
Anche l'apparente "tolleranza"
ideologica che l'"ecologia profonda" professa ha una sua
funzione sinistra. Non soltanto riduce al minimo comune denominatore
le idee più articolate e complesse e le tradizioni
contrastanti, ma legittima concetti estremamente regressivi e persino
profondamente reazionari, i quali acquistano credito perché
vengono inseriti in contesti e in tradizioni autenticamente radical. Si consideri, ad esempio, la
definizione più ampia di comunità (compresi animali e
piante); un'intuizione di interezza organica, con la quale Devall e
Sessions guarniscono, nel libro, il loro catalogo di posizioni
"dominanti e minoritarie" (pagg. 18-19). Apparentemente non
v'è nulla di più completo e pieno, di più privo
di malizia, di questo slogan-materasso, tipo "siamo tutti una
cosa sola". Ciò che rischia di sfuggire al lettore è
il fatto che questa definizione globale di "comunità"
cancella tutte le differenze, ricche e significative, che esistono
tra le comunità animali e vegetali, e soprattutto tra le
comunità non umane e quelle umane. Se si dovesse definire, in
senso lato, la comunità come un "tutto" universale,
allora l'unica funzione che l'evoluzione naturale ha assegnato
all'uomo si dissolverebbe in una notte cosmica, priva di qualsiasi
differenziazione, varietà, molteplicità di funzioni. Il fatto è che le comunità
umane sono comunità formate coscientemente - in altre parole,
sono società con un'enorme varietà di istituzioni, di
culture che possono essere tramandate di generazione in generazione,
di modi di vita che possono essere cambiati radicalmente in meglio o
in peggio, di tecnologie che possono essere riprogettare o innovate o
abbandonate, infine di distinzioni sociali, sessuali, etniche e
gerarchiche che possono essere profondamente modificate, a seconda di
come muta la consapevolezza e a seconda degli eventi storici. A
differenza di molte delle cosiddette "società animali",
o comunità animali se si preferisce, le società umane
non vengono formate istintivamente , né programmate
geneticamente. I loro destini possono essere influenzati da fattori -
generalmente, economici e culturali - che talvolta, è vero,
esulano dalle possibilità di controllo da parte dell'uomo;
tuttavia ciò che distingue le società umane è la
possibilità che esse hanno di essere trasformate anche
radicalmente dai loro membri - e in modi che possono arrecare
beneficio al mondo naturale, oltreché alla specie umana. L'economia medievale, che ruotava
intorno ai castelli, privilegiava l'autarchia o l'"autosufficienza"
e la spiritualità. Tuttavia l'oppressione era spesso
intollerabile e la grande massa della popolazione che faceva parte di
quella società viveva in stato di totale sottomissione ai
"migliori" e alla nobiltà. Se l'"adorazione della natura",
con il suo patrimonio di folletti silvestri, feticci animistici, riti
della fertilità e altre cerimonie analoghe, maghi, sciamani e
sciamane, divinità animali, dei e dee che probabilmente
rappresentano la natura e le sue forze - se tutto questo, ripeto,
spianasse la strada verso una sensibilità e una società
ecologiche, allora sarebbe difficile capire come mai l'antico Egitto
diventò e rimase una delle società più
oppressive del mondo antico. Il pantheon egizio è affollato di
divinità animali, o in parte animali e in parte umane, cui
presiedono divinità sia maschili che femminili. Persino il
Nilo, il fiume che dava alla valle le sue acque "apportatrici di
vita", veniva usato in modo ecologico. Eppure la struttura della
società egiziana era formata da una parte da milioni di servi
soggetti a oppressione, e dall'altra da ricchi nobili, insomma su un
sistema di caste così rigido e basato sullo sfruttamento, che
ci si domanda come fosse possibile privilegiare concetti di
spiritualità rispetto all'esigenza di un analisi critica della
società e alla necessità di ristrutturarla. Anche volendo dare per scontata la
necessità di maturare una nuova sensibilità e una nuova
visione del mondo - ciò che è stato ripetutamente
sottolineato negli scritti sul tema dell'ecologia sociale - ci si può
azzardare a guardare oltre questo primo, limitato contesto
dell'"ecologia profonda", verso un contesto ancora più
ampio: quello dell'idillio tra l'"ecologia profonda" e le
dottrine malthusiane; quello di una spiritualità che esalta
l'autocancellazione; quello del flirt con un supernaturalismo che
contrasta nettamente con il fresco naturalismo che l'ecologia ha
introdotto nella teoria sociale; quello delle manifestazioni di rozzo
positivismo da parte di Naess, che impediscono una dialettica
realmente organica, indispensabile per comprendere lo sviluppo e non
soltanto gli slogan-paraurto; infine quello di una costante tendenza
allo sfocamento, a sostituire le idee con stati d'animo, come quando
Devall, ad esempio, s'imbatte in un supervirile montanaro come
Foreman. Vedremo che tutte le rivendicazioni-paraurto, come quelle
che riguardano la decentralizzazione, le comunità su scala
ridotta, l'autonomia locale, l'aiutarsi reciprocamente, il comunismo
e la tolleranza, così come la presunta opposizione alla
gerarchia, vanno in fumo quando le collochiamo nel più ampio
contesto di un anti-umanismo malthusiano e delle orge sul
"biocentrismo", che contraddistinguono l'autentica
infrastruttura ideologica dell'"ecologia profonda". Non mettendo in evidenza l'unicità,
le caratteristiche e la funzione delle società umane, non
collocandole nell'evoluzione naturale come parte dello sviluppo della
vita e non riconoscendo in modo pieno e unico alla consapevolezza
umana la funzione di mezzo, attraverso il quale si realizza la
funzione auto-riflessiva del pensiero umano in quanto natura resa
autocosciente, gli "ecologisti profondi" ignorano le radici
sociali della crisi ecologica - ciò che li differenzia
nettamente da scrittori come Kropotkin, i quali denunciano
apertamente le gravi ineguaglianze sociali che stanno alla base dello
squilibrio tra società e natura. L'"ecologia profonda" ignora
la storia dell'emergere della società dalla natura, un
elemento di sviluppo importantissimo, che stabilisce un contatto
organico tra la teoria sociale e quella ecologica. Né fornisce
alcuna spiegazione (anzi, non mostra alcun interesse) circa
l'emergere della gerarchia dalla società, e poi delle classi
dalla gerarchia, e infine dello Stato dalle classi - insomma, circa
il lento, graduale sviluppo sociale e ideologico, che consente di
rintracciare le radici del problema ecologico nella dominazione
sociale della donna da parte dell'uomo e dell'uomo da parte
dell'uomo, e che in definitiva fa emergere il concetto basilare della
dominazione della natura. Ciò che l'"ecologia
profonda" ci dà, invece, a parte quello che prende a
prestito da contesti ideologici radicalmente diversi, non è
altro che un profluvio di "eco-bla-bla". Il concetto di
"umanità" vi appare in forma vaga e irreale, al solo
scopo di accomunare tutti gli esseri umani in un senso di colpa
universale. Poi veniamo ridotti a uno stato di torpore da prediche
buddhiste e taoiste sull'auto-abnegazione, sulla "biocentricità",
su uno spiritualismo pop al limite del soprannaturale - e tutto
questo per un problema, l'ecologia, la cui essenza consiste in un
ritorno al naturalismo terreno. Così non si perdono di vista
soltanto le differenze sociali che frammentano l'"umanità"
in una moltitudine di esseri umani - uomini e donne, gruppi etnici,
oppressori e oppressi; si perde anche la coscienza dell'io
individuale, in questo incessante "eco-bla-bla" che predica
la "realizzazione dell"'io-nell'io", dove l"'io"
sta per interezza organica" (pag. 67). Il fatto che si crei un
"io" cosmico da capitalizzare non deve indurci a credere
che esso sia più reale di una "umanità"
ugualmente cosmica. Ritroviamo poi lo stesso "eco-bla-bla"
cosmico laddove ci informano che la "frase 'uno'
comprende non soltanto gli uomini, un umano individuale, ma tutti gli
umani, gli orsi grizzly, gli interi ecosistemi delle foreste
pluviali, le montagne e i fiumi, i più microscopici microbi
presenti nel suolo e così via". Un "io" così cosmico
da dover essere capitalizzato non è un vero "io". È
una categoria ideologica vaga, anonima e spersonalizzata quanto la
stessa immagine patriarcale dell'"uomo", che dissolve in
letale astrazione il nostro carattere unico, la nostra razionalità.
Di fatto, la società umana è una "seconda natura",
un artefatto culturale, derivato dalla "prima natura",
ovvero dalla natura primeva, non umana. Non vi è nulla di
sbagliato, di "innaturale" o di ecologicamente "estraneo"
in questo fatto. La società umana, come le comunità
animali e vegetali, è in gran parte il prodotto
dell'evoluzione naturale non meno di quanto lo siano gli alveari o i
formicai. Inoltre, è un prodotto della specie umana, che a sua
volta è un prodotto della natura, non meno di quanto lo siano
le balene o i delfini, i condor della California o le cellule
procariote. La "seconda natura" è anche un prodotto
della mente - di un cervello capace di pensare in forma concettuale
complessa e di produrre una forma di comunicazione ad alto valore
simbolico. L'insieme di tutto ciò, della "seconda
natura", della specie umana che la produce e della forma
concettuale complessa di pensiero e di comunicazione che le è
peculiare, scaturisce dall'evoluzione naturale non meno di qualsiasi
altra forma di vita o comunità non umana - inoltre questa
"seconda natura" si differenzia in modo del tutto peculiare
rispetto alla prima, perché è in grado di agire a
ragion veduta, con uno scopo, consapevolmente e, a seconda della
società che prendiamo in esame, creativamente nel senso
ecologico migliore o distruttivamente nel senso ecologico peggiore.
Infine, questa "seconda natura" che chiamiamo società
ha una sua storia, costituita da una serie di lunghi processi -
relativi alla derivazione dalla "prima natura",
all'organizzazione o istituzionalizzazione delle relazioni umane,
alle interazioni, ai conflitti, alle differenziazioni e alle
complesse e variegate formazioni culturali, all'attuazione delle
molteplici potenzialità umane - alcuni dei quali con un
carattere eminentemente creativo, altri con un carattere distruttivo. Concludendo, una caratteristica
primaria di questo prodotto dell'evoluzione naturale, che chiamiamo
"società", è la sua capacità di
influire sulla "prima natura" - di modificarla, anche in
questo caso con metodi creativi o distruttivi. Ma la capacità
che gli esseri umani hanno di interagire con la "prima natura"
attivamente, in modo finalizzato, coscientemente, razionalmente e, si
spera, ecologicamente, è pur sempre un prodotto
dell'evoluzione, non meno di quanto lo sia la capacità che i
grandi erbivori hanno di impedire che le foreste invadano le
praterie, o quella che i lombrichi hanno di ossigenare il suolo. Gli
esseri umani e le loro società modificano la "prima
natura", nei casi migliori in modo razionale ed ecologico, nei
casi peggiori in modo irrazionale e antiecologico. Ma il fatto che
essi siano costituzionalmente portati ad agire nella natura, a
intervenire nei processi naturali e a modificarli in un modo o
nell'altro è ugualmente un prodotto dell'evoluzione naturale,
non meno di quanto lo sia l'influsso che ogni altra forma di vita
esercita sul suo ambiente. Queste facili astrazioni
dell'individualità umana sono estremamente pericolose.
Storicamente, l'"io" capace di assorbire tutte le reali
individualità esistenziali è stato usato da tempi
immemorabili per concentrare l'unicità e la libertà
individuali in "Individui" supremi, destinati a essere capi
di Stato o di una Chiesa, capi carismatici di congregazioni religiose
- orientali o occidentali - o incantatori di interi corpi elettorali,
e tutto ciò a onta del fatto che l'"io" suddetto si
ammantasse di attributi ecologici, naturalistici e "biocentrici".
L'"io" borghese egocentrico,
gretto e individualista è sempre stato odioso, naturalmente, e
l'"ecologia profonda" personificata da Devall e Sessions
punta molto su questo aspetto. Ma una posizione "critica"
di tal fatta è fin troppo facile, e potrebbe trovare spazio
persino sulle riviste popolari. Possibile che non esista un io libero
e intellettualmente indipendente, ecologicamente sensibile e, perché
no, idealistico e dotato di una personalità unica, che possa
pensarsi diverso da "le balene, gli orsi grizzly, gli interi
ecosistemi delle foreste pluviali (niente meno!), le montagne e i
fiumi, i più microscopici microbi presenti nel suolo e così
via"? Di fatto, non è forse indispensabile che l'io
individuale si distacchi dall'"Io" faraonico, scopra le
proprie capacità e la propria singolarità, acquisisca
un senso della personalità, di autocontrollo e di
autodirezione - caratteristiche, queste, senza le quali non è
possibile conquistare la libertà? Potrei aggiungere, a questo punto, che
mi sembra di vedere Heidegger e, sì, anche il nazismo che
ghignano soddisfatti dietro il velo di questa auto-cancellazione e di
questa personalità passiva e remissiva al punto da poter
essere facilmente plasmata, distorta e manipolata da una nuova,
"ecologica" macchina dello Stato, con un "Io"
supremo incarnato in un leader, in un guru, in un dio vivente - e
tutto ciò nel nome di una "uguaglianza biocentrica"
che viene lentamente rielaborata, come è accaduto spesso nel
corso della storia, in una gerarchia sociale. Dagli sciamani ai
monarchi, dai sacerdoti o dalle sacerdotesse ai dittatori, il nostro
sviluppo sociale contorto è stato sempre contrassegnato da
"seguaci della natura" e dalle loro rituali Entità
Supreme, che nei casi migliori producevano individui incompleti, e
nei casi peggiori toglievano ogni individualità
all'"io-nell'io", spesso in nome del "Grande Tutto
Unificato" (per usare esattamente la stessa terminologia delle
classi dominanti cinesi, che tenevano i contadini in stato di abietta
servitù, come ci insegna Leon E. Stover nel suo The
Cultural Ecology of Chinese Civilization (L'ecologia culturale
della civiltà cinese)). Ciò che oggi rende
particolarmente sinistro questo "eco-bla-bla" è il
fatto che viviamo già in un'epoca di massiccia
de-individualizzazione e questo non perché l'"ecologia
profonda" o il taoismo riescano a fare breccia seriamente nella
nostra ecologia culturale, ma perché i mass media, la cultura
consumista e la società di mercato "riunificano" in
un "tutto" sempre più spersonalizzato,
fondamentalmente passivo e facilmente soggetto a essere manipolato
economicamente e politicamente. Non soffriamo per un eccesso di
"individualità", ma per eccessivo egoismo perché
rinunciamo alla personalità in cambio della sicurezza offerta
dalle grandi aziende, dai governi centralizzati, dall'esercito. Se
s'identifica l'"individualità" con una personalità
forte, "antropocentrica", divoratrice, non la si troverà
tanto tra la gente comune, che fondamentalmente sente di non avere
più controllo sul proprio destino, ma piuttosto tra i leader
delle grandi aziende e dello Stato, che stanno saccheggiando e
sfruttando non soltanto il pianeta, ma anche le donne, la gente di
colore, i non privilegiati. Non è certo di
de-individualizzazione che gli oppressi hanno bisogno, e tanto meno
quelle personalità passive che cedono facilmente alle forze
cosmiche - l'"Io" - che le manovrano come burattini; ciò
che occorre loro è una re-individualizzazione, che ne faccia
degli agenti attivi nella trasformazione della società e ponga
fine al crescente totalitarismo che minaccia di omogeneizzarci in
massa in una versione occidentale del "Grande Tutto Unificato". Fino a quando non si cercherà
risolutamente di stabilire un nesso tra i dissesti ecologici e i
dissesti sociali; di contrastare gli interessi aziendali e politici
occulti che dovremmo chiamare più propriamente capitalismo - e
non soltanto un'entità vaga chiamata società
"industrial-tecnologica"; di analizzare, studiare e
combattere la gerarchia come una realtà, non soltanto come una
sensibilità; di riconoscere i bisogni materiali dei poveri e
dei popoli del Terzo Mondo; di agire politicamente, e non soltanto di
fungere da culto religioso; di riconoscere alla specie umana e alla
sua intelligenza il ruolo che spetta loro nell'ambito dell'evoluzione
naturale, invece di considerarli alla stregua di "cancri"
che minacciano la biosfera; di studiare non soltanto le "anime",
ma anche l'economia, e di dedicarci alla libertà e non
soltanto a discussioni introspettive o accademiche sui "diritti"
dei virus patogeni; - insomma, per farla breve, se i Verdi e il
movimento ecologico nordamericano non si dedicheranno all'ecologia
sociale, lasciando che l'"ecologia profonda" precipiti
nella fossa che ha scavato per noi, il movimento ecologico sarà
soltanto un altro orrido bubbone sulla pelle della società. Quello che dobbiamo fare, oggi, è
tornare alla natura, intesa in tutta la sua fecondità,
ricchezza di potenzialità e soggettività - e non alla
sovrannaturalità, con i suoi sciamani, i suoi sacerdoti e le
sue fantastiche divinità, semplici estensioni e distorsioni
antropomorfiche dell'"Umano" in forma divina universale. E
ciò che dobbiamo "incantare" non è soltanto
una "Natura" astratta, che spesso riflette i nostri stessi
sistemi di potere, gerarchia e dominazione - ma piuttosto gli esseri
umani, la mente umana e lo spirito umano, che in questi tempi ha
preso batoste da ogni parte, ma soprattutto dall'"ecologia
profonda". Con il suo malthusianesimo, i suoi
"centrismi", il suo mistificante "eco-bla-bla" e
il suo disorientante eclettismo, l'"ecologia profonda"
distorce questa missione in un rozzo biologismo, distogliendoci dai
problemi sociali che stanno alla base di quelli ecologici, e dal
progetto di ricostruzione sociale che solo può salvare la
biosfera dalla distruzione. Dobbiamo deciderci a prendere
posizione su questi problemi - al di là di ogni "eco-bla-bla"
- altrimenti dovranno riconoscere ai reazionari un'altra conquista:
quella dello stesso movimento ecologico.
(traduzione
di Michele Buzzi)
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