Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 18 nr. 153
marzo 1988


Rivista Anarchica Online

Sociale non profonda
di Murray Bookchin

Dietro la stessa parola "ecologia" si celano concezioni tra loro molto diverse, a volte addirittura opposte. È il caso della cosiddetta "ecologia profonda", che Murray Bookchin prende in esame in questo saggio (originariamente apparso sul n. 4/5 del bollettino Green Perspectìves). Niente a che vedere con l'ecologia sociale.

Il movimento ambientalista ha fatto molta strada, ed è ormai lontana l'epoca in cui si celebrava annualmente la "giornata della Terra", nel corso della quale milioni di scolari venivano ritualisticamente mobilitati per ripulire le strade, mentre i loro genitori, colpevoli di aver insozzato il paesaggio con lattine, giornali e bottiglie, venivano rimproverati da Arthur Godfrey, da Barry Commoner, da Paul Ehrlich e da un manipolo di legislatori manipolatori.
Questo logoro approccio tipo "giornata della Terra", che mira a una "gestione" della natura in modo da consentire agli uomini di violentare la Terra senza arrecare troppi danni a se stessi - un approccio che verso la fine degli anni '60 ho definito "ambientalista" in contrapposizione con l'ecologia sociale - sembra ormai cedere il passo a una mentalità più problematica e radicale. Oggi il termine di moda è "ecologia" - sia essa "ecologia profonda", "ecologia umana", "ecologia biocentrica", "ecologia antiumanista", oppure, per usare un termine eccezionalmente ricco di significato, "ecologia sociale".
Fortunatamente, la nuova rilevanza del termine "ecologia" dimostra che gli intellettuali tendono sempre più a rifiutare ogni tentativo di sfruttare le grandi problematiche ecologiche per fini puramente spettacolari e di manipolazione politica. Le foreste che scompaiono a causa del disboscamento indiscriminato e delle piogge acide in continuo aumento, l'involucro di ozono che si assottiglia a causa dell'uso diffuso dei fluorocarburi, le discariche di sostanze tossiche che si moltiplicano su tutto il pianeta, le sostanze inquinanti e spesso radioattive che contaminano l'aria e l'acqua e le catene alimentari - tutti questi pericoli, e gli innumerevoli altri che mettono a repentaglio l'integrità stessa della vita, sollevano problemi basilari, assai più importanti di quelli che possono essere risolti dai ripulisti delle "giornate della Terra" e da timidi aggiustamenti delle leggi ambientalistiche esistenti.
Un numero sempre maggiore di persone sta cercando di superare il futile ambientalismo dei primi anni '70 e tende a un approccio più essenziale e profondo, più radicale, alla crisi ecologica che ci affligge. Queste persone sono alla ricerca di un approccio ecologico, che affondi le proprie radici in una filosofia, in un'etica, in una sensibilità, in un'immagine della natura tutte ecologiche: aspirano, in definitiva, a un movimento ecologico che trasformi la nostra società basata sul dominio e sul mercato in una società cooperativa non gerarchica - una società che sappia vivere in armonia con la natura perché i suoi membri vivono in armonia gli uni con gli altri.
Il problema che dobbiamo porci ora è il seguente: che cosa intendiamo realmente per approccio ecologico? Che cosa sono una filosofia, un'etica e un movimento ecologicamente coerenti? Come è possibile mettere insieme le risposte a queste e a molte altre domande, in modo da formare un tutto unico, significativo e creativo?
Se non vogliamo ripetere gli errori dei primi anni '70, con il loro bla-bla sul "controllo della popolazione", l'antifemminismo latente, l'elitarismo, l'arroganza, le sordide tendenze autoritarie, dobbiamo analizzare con onestà e serietà tutte le nuove tendenze che oggi vanno sotto il nome di una o dell'altra forma di "ecologia".

C'è ecologia ed ecologia
Mettiamoci subito d'accordo su un fatto: che il termine "ecologia" non è una parola magica, con la quale si possa scoprire il segreto del nostro abuso della natura. È semplicemente una parola, che può essere usata a sproposito, distorta e infangata non meno di altre, come "democrazia" e "libertà".
Né si può dire che la parola "ecologia" basti ad accomunarci e a metterci tutti - chiunque "noi" siamo - nella stessa barca contro gli ambientalisti, che pretenderebbero di far funzionare una società marcia semplicemente rivestendola di fogli verdi e di fiori colorati, ignorando le cause profonde che hanno dato origine ai nostri problemi ecologici.
È ora di guardare onestamente in faccia la realtà e di rendersi conto che all'interno del cosiddetto "movimento ecologico" dei giorni nostri esistono differenze non meno gravi e marcate di quelle che esistevano tra l'"ambientalismo" e l'"ecologismo" all'inizio degli anni '70. Ci sono razzisti a malapena dissimulati, survivalisti, "macho" emuli di Daniel Boone e reazionari dichiarati che esprimono le loro idee usando la parola "ecologia", così come la usano nel dar voce alle proprie convinzioni e al proprio impegno serio e profondo naturalisti, comunitaristi, radical e femministe.
Le differenze tra queste due tendenze non consistono soltanto nelle divergenze su ciò che attiene alla teoria, alla sensibilità e all'etica. Hanno notevoli conseguenze pratiche e politiche. Non consistono soltanto nel modo diverso di considerare la natura e ciò che si definisce come termine vago "umanità", e neppure nel diverso significato che attribuiamo alla parola "ecologia": riguardano anche il modo in cui intendiamo cambiare la società, e i mezzi di cui vogliamo avvalerci.
Le differenze più macroscopiche che stanno emergendo oggi all'interno del cosiddetto "movimento ecologico" sono quelle tra la cosa vaga, informe, inconsistente e spesso auto-contraddittoria, che va sotto il nome di "ecologia profonda", e quel corpus di idee lungamente maturato, coerente e orientato in senso sociale, che si può definire propriamente "ecologia sociale". L'"ecologia profonda" ci è piombata tra capo e collo in tempi recenti, con la sua bizzarra mistura californiana di Hollywood e Disneyland, insaporita da prediche ispirate al taoismo, al buddismo, allo spiritualismo, a un cristianesimo resuscitato e talvolta anche all'eco-fascismo. Per contro, l'"ecologia sociale" si ispira a illustri pensatori radical sostenitori del "decentramento" come Piotr Kropotkin, William Morris e Paul Goodman, per citare solo alcuni tra i tanti che hanno cercato seriamente di lottare contro questa società gerarchica, sessista, classista, soggetta al potere statale e storicamente militarista.
Esaminiamole a fondo, allora, queste differenze. A dispetto di tutta la sua retorica sociale, l'"ecologia profonda" non ha capito, in realtà, che i nostri problemi ecologici affondano le radici nella società e nelle problematiche sociali. Predicando, farnetica di una sorta di "peccato originale", dannazione di una specie indefinita detta "umanità" - come se si potesse fare d'ogni erba un fascio: gente di colore e bianchi, donne e uomini, Terzo Mondo e paesi sviluppati, poveri e ricchi, sfruttati e sfruttatori.
Questa "umanità" indifferenziata e indefinita è vista fondamentalmente come un'orribile cosa "antropocentrica" - presumibilmente, un prodotto maligno dell'evoluzione naturale - che sta "sovrappopolando" il pianeta, "divorando" le sue risorse, distruggendo la natura e la biosfera - come se la "natura" fosse qualcosa di vago e indefinito, in contrapposizione con una moltitudine di cose non naturali dette "esseri umani", con la loro "tecnologia", le loro "menti", la loro "società", e così via. L'"ecologia profonda", formulata principalmente da esponenti del mondo accademico, cioè da persone privilegiate, dalla pelle bianca, di sesso maschile, è riuscita a trascinare naturalisti sinceri come Paul Shepard nella stessa congrega di cui fanno parte antiumanisti e fautori di un rozzo virilismo da "montanari" come David Foreman di Earth First! ("La Terra innanzitutto!"), il quale va predicando che l'"umanità" è una sorta di cancro che minaccia la vita.
Ci si dimentica facilmente che proprio partendo da un'analoga, rozza brutalità "ecologica" - in nome di un "controllo della popolazione" di stampo razzista - Hitler forgiò quelle teorie sul sangue e sulla terra che portarono milioni di persone alla morte nei campi di sterminio come Auschwitz. La stessa brutalità ecologica ricompare a distanza di mezzo secolo tra coloro che si autodefiniscono "ecologi profondi", i quali sostengono che bisognerebbe lasciar morire di fame i popoli del Terzo Mondo e che la polizia di frontiera dovrebbe impedire l'ingresso negli USA ai disperati immigrati indios latino-americani, potenziali parassiti delle "nostre" risorse ecologiche.
Quest'esempio di brutalità ecologica non è tratto dal Mein Kampf di Hitler, bensì dalla rivista Simply Living, e in particolare da un'apologetica intervista a David Foreman, condotta dal professor Bill Devall (coautore, con il professor George Sessions, di Deep Ecology, manifesto autorizzato del movimento "ecologia profonda"). Nel corso del colloquio, dopo essersi dichiarato in perfetta sintonia con le idee di "ecologia profonda", Devall spiegava in tutta sincerità all'intervistatore: "Quando dico che la peggior cosa da fare è fornire aiuti all'Etiopia mentre dovremmo lasciare che la natura stessa trovi il suo equilibrio, che la gente, semplicemente, muoia di fame, mi si accusa di mostruosità... Ugualmente, consentire che gli USA diventino una valvola di sfogo per i problemi dell'America latina non significa risolvere le cose. Serve solo ad aumentare il carico al quale dobbiamo far fronte con le risorse di cui disponiamo negli Stati Uniti".
Ci si potrebbe ragionevolmente chiedere quale significato abbia l'espressione "che la natura trovi il suo equilibrio", riferita a una parte del mondo come l'Africa orientale, in cui l'agribusiness, il colonialismo e lo sfruttamento hanno distrutto l'equilibrio culturale ed ecologico che un tempo esisteva. E ancora: che cosa s'intende con questo "noi", proprietario delle "risorse di cui disponiamo negli Stati Uniti"? Ci si riferisce forse alla gente comune, che per necessità è spinta a tagliare legname, sfruttare le miniere, far funzionare impianti nucleari? Oppure ci si riferisce alle grandi corporation, che non solo stanno mandando in rovina il nostro buon, vecchio paese, ma sono anche direttamente responsabili dei principali problemi che affliggono oggi l'America latina e spingono tanta gente, per gran parte indios, a varcare il Rio Grande?

Già Kropotkin un secolo fa...
L'"ecologia profonda" è a tal punto una sorta di "buco nero" di idee mal digerite, distorte e maturate a metà, che ci si può permettere di esprimere concetti atroci e apparire ugualmente come un fervente radical, in lotta contro tutto ciò che vi è di antiecologico nelle idee correnti.
Di fatto, lo stesso termine "ecologia profonda" ci fa capire che non ci troviamo di fronte a un corpus di idee chiare, ma sull'orlo di un pozzo senza fondo, che risucchia concetti vaghi e umori d'ogni sorta nel baratro di una discarica per scorie tossiche ideologiche.
È sensato, ad esempio, contrapporre l'"ecologia profonda" all'"ecologia superficiale", come se il termine "ecologia" si potesse applicare a tutto ciò che attiene a problematiche ambientali? Premesso che è irragionevole usare la parola "ecologia" per indicare tutto ciò che ha natura biosferica, non s'impoverisce la sua ricchezza di significato legandola a termini come "poco profonda" o "profonda" aggettivi adatti a indicare le caratteristiche di un pozzo nero, più che a misurare la qualità delle idee? Arne Naess, il pontefice dell'"ecologia profonda", che ci ha imposto questa terminologia, e i suoi compari George Sessions e Bill Devall, che l'hanno smerciata al di fuori di Ecotopia, hanno semplicemente preso una parola pregnante - ecologia - e l'hanno privata di ogni intrinseco significato o integrità, definendo "ecologisti" (piuttosto "superficiali" però, in contrasto con il concetto di "profondo" che è loro caro) gli ambientalisti più pedestri.
Tutto questo non è soltanto un esempio di come si possa giocare con le parole. Ci fa capire qualcosa circa la ristrettezza mentale di questi pensatori "profondi". Ironizzare sui termini "poco profondo" e "profondo" riferiti all'ecologia non serve soltanto a sottolinearne l'assurdità, ma anche a rivelare la superficialità dei loro inventori. Esiste forse un "ecologia più profonda" dell'"ecologia profonda"? E qual è allora l'"ecologia più profonda di tutte", quella che riconosce appieno all'"ecologia" il suo carattere di filosofia, sensibilità, etica e movimento per la trasformazione sociale?
Queste assurdità ci fanno capire - forse anche più di quanto ci rendiamo conto - quale confusione il trio Naess-Sessions-Deval (per non parlare di ecologisti disumani come Foreman) abbia seminato nel movimento ecologico, fin da quando esso ha cominciato a svilupparsi e a crescere, superando le posizioni ambientaliste degli anni '70.
I "pensatori profondi" non si curano del fatto che il nuovo contesto in cui si colloca un'idea può mutare radicalmente il significato dell'idea stessa. Il "nazional-socialismo" tedesco, che conquistò il potere con il Terzo Reich nel 1933, lottava contro il capitalismo e per il suo impegno in questa direzione guadagnò molti adepti provenienti dalle file dei partiti socialdemocratico e comunista. Tuttavia, il suo "anticapitalismo" si collocava in un contesto profondamente razzista, imperialista e apparentemente "naturalista", che esaltava la natura, la sociobiologia (il termine non era stato ancora inventato, ma si parlava già di "moralità del gene", per citare la deliziosa espressione di E. O. Wilson, e si attribuiva grande importanza alla "memoria razziale", per ricordare l'espressione junghiana di Irwin Thompson) e l'anti-razionalismo; caratteri, questi, che si ritrovano tutti in forma latente o esplicita in Deep Ecology di Sessions e Devall (d'ora in avanti, salvo diversa indicazione, tutti i riferimenti e le citazioni s'intendono da questo saggio, che è diventato la bibbia del "movimento" al quale ha dato il nome).
Si noti che Naess, Sessions e Devall non hanno scritto sulla decentralizzazione, sulla prospettiva di una società non gerarchica, sulla democrazia, sull'autonomia locale, sull'aiuto reciproco, sul comunismo e sulla tolleranza nulla che non fosse stato già elaborato minuziosamente e brillantemente contestualizzato in una visione unitaria e coerente da Piotr Kropotkin un secolo fa, e poi dai suoi "seguaci" tra gli anni '30 e gli anni '40 del nostro secolo. Le opere di questi scrittori hanno ispirato grandi movimenti in Europa e una vastissima letteratura - movimenti anarchici, potrei aggiungere, come la Federazione anarchica iberica in Spagna: una tradizione che alcuni presunti "Verdi" demonizzano come "sinistrorsa", come "eco-anarchica", oppure (è il caso di George Sessions, che in un recente convegno ecofemminista ha risposto in questi termini alla domanda sulla differenza "l'ecologia profonda" e l'ecologia sociale) come qualcosa che sta a metà strada tra lo spiritualismo e il "marxismo" - affermazione, questa, volutamente mendace e velenosa.
Ma ciò che i ragazzi di Ecotopia stanno facendo è questo: mutano totalmente il contesto delle idee, introducendovi personalità e concetti che ne snaturano la portata radicale libertaria.

Oltre l'eco-bla-bla
In Deep Ecology vengono incensati con lo stesso entusiasmo un ignobile reazionario come Thomas Malthus, unitamente alla tradizione neo-malthusiana da lui derivata, e un libertario radicale come Henry Thoreau, promotore di una tradizione altamente umanistica. L'aggettivo "eclettico" non basta a definire questo pot-pourri, che sembra costruito astutamente allo scopo di riunire sotto la sigla "ecologia profonda" tutti coloro i quali siano disposti a ridurre l'ecologia a una religione, piuttosto che considerarla un corpus di idee profondamente critiche. Tuttavia, dietro a tutto ciò s'indovina uno schema. Il tipo di pensiero "ecologico" che informa il saggio sembra emergere chiaramente in un'appendice intitolata "Ecosophy T" (Ecosofia T), elaborata da Arne Naess, che ci fornisce una serie di diagrammi di flusso e di tabelle di tipo aziendalistico, affini a un metodo di esposizione logico-positivista (e infatti Naess è stato per anni un adepto di questa repellente scuola di pensiero), ma non certo a qualcosa che si possa definire filosofia organica.
Se guardiamo oltre l'"eco-bla-bla" (per usare un termine coniato da una notevole eco-femminista, Chiah Heller) ed esaminiamo il contesto entro il quale sono collocate esigenze quali la decentralizzazione, le comunità su scala ridotta, l'autonomia locale, l'aiutarsi reciprocamente, il comunismo e la tolleranza, allora le immagini sfocate create da Sessions e Devall cominciano a delinearsi con maggiore nitidezza.
Né la decentralizzazione, né le comunità su scala ridotta, né l'autonomia e neppure l'aiutarsi reciprocamente e il comunismo hanno un carattere intrinsecamente ecologico o emancipatorio. Poche società furono più decentralizzate di quella feudale europea, la quale di fatto era strutturata intorno a comunità su scala ridotta, fondate sul reciproco aiuto e sull'uso comunitario della terra.
L'autonomia locale era tenuta in gran conto e l'autarchia era un elemento-chiave nell'economia delle comunità feudali. Eppure, poche società furono più gerarchiche. Al di sopra dei servi della gleba, legati alla terra da un complesso "ecologico" di diritti e doveri che li poneva in una condizione solo di poco superiore quella degli schiavi, c'erano i villani e poi via altri gruppi sociali: baroni, conti, duchi e infine i re, per la verità non molto potenti.
Nell'"ecologia profonda" e nell'interpretazione di David Foreman, la natura è vista come una sorta di scenario da cartolina, come un bel paesaggio da ammirare mentre si siede intorno a un fuoco da campo (magari con una birra Budweiser per tenere allegri i ragazzi, o con una sigaretta Marlboro per dar loro un'aria più virile) - non certo come uno sviluppo evolutivo cumulativo, che comprende anche la specie umana, le sue facoltà intellettuali e le sue forme di comunicazione altamente simboliche, e neppure, allorché si passa alla "seconda natura", come uno sviluppo culturale che ha la sua propria storia e un legame metabolico con la precedente "prima natura". Chi considera la natura come uno sviluppo cumulativo dalla "prima" alla "seconda natura" rischia di essere accusato di "antropocentrismo" - come se l'autocoscienza umana nella sua espressione migliore non fosse semplicemente la natura divenuta cosciente di sé.
Fondamentalmente, l'eclettismo che trasforma l'"ecologia profonda" in un minestrone di concetti e stati d'animo risulta essere insopportabilmente riformista e sorprendentemente ambientalista a parte tutte le critiche all'"ecologia superficiale".

Ambiguità della demografia
Ad onta del suo presunto radicalismo, l'"ecologia profonda" è più vicina a coloro che vagheggiano l'avvento di una "Nuova Era" di un'era dell'"Acquario", come certi movimenti ambientalisti che essa stessa critica. Di fatto, la misura in cui l'"ecologia profonda" si adatta ad alcuni dei tratti peggiori delle "concezioni dominanti" che dichiara di rifiutare risulta straordinariamente chiara, se si considera una delle esigenze fondamentali che essa formula con maggiore insistenza: quella della riduzione della popolazione mondiale, secondo uno dei suoi adepti, a 500 milioni di persone. Se gli "ecologisti profondi" avessero una conoscenza anche vaga dei "teorici della popolazione" che Devall e Sessions citano con ammirazione - Thomas Malthus, William Vogt e Paul Ehrlich - si sentirebbero in dovere di precisare: con metodi praticamente eco-fascisti. È questo uno spettro che la sinistra affermazione di Devall e Sessions evoca chiaramente dinanzi ai nostri occhi: "...più tarderemo (nel controllo della popolazione), più le misure da prendere saranno drastiche" (pag .72).
C'è un'altra cosa da ricordare, non meno importante: la demografia è una disciplina sociale estremamente ambigua, connotata ideologicamente, che non può essere ridotta a un semplice gioco numerico sulla riproduzione biologica. Gli esseri umani non sono mosche della frutta (la specie che i neomalthusiani amano citare). Il loro comportamento riproduttivo è profondamente condizionato da valori culturali, dalle condizioni di vita, dalle tradizioni sociali, dalla condizione delle donne, dalle convinzioni religiose, dai conflitti socio-politici e da varie aspettative socio-politiche. Quando una cultura precapitalistica stabile viene distrutta, e la gente è costretta ad abbandonare la terra e a rifugiarsi negli slum urbani, può accadere - per colmo d'ironia - che la demoralizzazione sia causa di un aumento della popolazione, e non di un calo demografico.
La migliore dimostrazione della stretta connessione esistente tra fattori sociali e demografia consiste forse nel fatto che per la maggior parte del XIX e del XX secolo in Europa il miglioramento delle condizioni di vita ha contribuito a ridurre il tasso d'incremento demografico, talora portandolo addirittura a valori negativi.
Non sorprende che Earth First!, il cui direttore è un fervido propugnatore dell'"ecologia profonda", abbia pubblicato un articolo intitolato "Population and AIDS" ("Popolazione e AIDS"), nel quale si sosteneva l'infame teoria secondo la quale l'AIDS sarebbe un ottimo mezzo per il controllo della popolazione. L'articolo non era uno scherzo. Il tema era elaborato con cura, ampiamente documentato (seppure con ragionamenti che potremmo definire da Paleolitico) e sostenuto con convinzione. L'AIDS non imporrà soltanto un pesante tributo in termini di vite umane, asseriva l'autore, ma potrebbe anche "causare una crisi della tecnologia (leggi: una carenza delle risorse alimentari) e delle esportazioni, che a sua volta potrebbero contribuire a ridurre ulteriormente la popolazione umana" (1 maggio 1987). Questa gente si pasce delle calamità, delle sofferenze e della miseria che affliggono il genere umano, e hanno una predilezione particolare per il Terzo Mondo, dove l'AIDS è un problema più mostruoso che altrove.

Una questione innanzitutto sociale
Tutto questo ci conduce, in quanto ecologisti sociali, a un problema che sembra esulare completamente dai rozzi interessi dell'"ecologia profonda": l'evoluzione naturale ha dato agli esseri umani la capacità di formare dalla natura "prima", o primeva, una natura "seconda", o culturale. Anzi, l'evoluzione naturale ha dato agli umani non soltanto la capacità, ma anche la necessità di intervenire finalisticamente nella "prima natura", di cambiare consapevolmente la "prima natura" per mezzo di una forma altamente istituzionalizzata di comunità, che chiamiamo "società". All'evoluzione naturale non è estraneo il fatto che nel corso di miliardi di anni si sia sviluppata una specie detta umana, capace di pensare in modo sofisticato. E a quella specie non è estraneo il fatto di elaborare una forma di comunicazione simbolica estremamente sofisticata che ha consentito lo sviluppo di un nuovo tipo di comunità - istituzionalizzata, guidata dal pensiero e non più soltanto dall'istinto, perennemente mutevole - chiamata "società".
Se questa specie, ricca di doti plasmate dalla creatività dell'evoluzione naturale, svolgerà il ruolo di una natura resa auto-cosciente, oppure andrà contro l'evoluzione naturale e semplificherà la biosfera, inquinandola e compromettendo i risultati complessivi dell'evoluzione organica, è essenzialmente un problema sociale. La questione più importante che l'ecologia deve affrontare oggi riguarda la possibilità di trasformare l'attuale società antiecologica, creando da essa una nuova società orientata ecologicamente.
L'"ecologia profonda" non ci suggerisce alcun approccio per dare risposta a un quesito così importante, né tanto meno per agire in tale direzione. Non si limita a enucleare idee preziose (i concetti di decentralizzazione, di società non gerarchica, di autonomia locale, di aiuto reciproco e di comunismo) dalla tradizione anarchica libertaria del passato, nell'ambito della quale esse si erano caricate di contenuti estremamente variegati, anti-elitari ed egalitari rafforzati dalle ferventi lotte di milioni di uomini e donne in favore della libertà. Le riduce anche a slogan-materasso, che possono essere riciclati e usati indifferentemente da un macho montanaro come Foreman a un estremo, e all'estremo opposto da fragili spiritualisti. Ma non basta: gli slogan vengono anche ricollocati in un contesto particolarmente repulsivo, i cui contorni sono definiti dall'elitarismo malthusiano, dalla misantropia antiumanista e da un "biocentrismo" apparentemente benigno, il quale dissolve l'umanità, con la sua capacità naturale di pensiero concettuale e di autocoscienza, in una "democrazia biocentrica" che non è tanto realtà naturale, quanto prodotto della consapevolezza umana. In virtù della sua logica assurda, questa "democrazia biocentrica" - alla stessa stregua si potrebbe parlare di moralità degli alberi, o di un "contratto sociale" tra il leopardo e la sua preda - non può negare ai virus patogeni il diritto di essere compresi nell'"elenco delle specie minacciate" (ma chi decide di inserirveli, innanzitutto?), al pari delle balene.
Le radici sociali della crisi ecologica sono occultate da una forma di spiritualità ibrida e spesso contraddittoria, nella quale l'"io" umano, scritto a caratteri cubitali, viene proiettato nell'ambiente o in cielo come una divinità reificata - una bella dimostrazione di antropocentrismo, se mai ve ne fu una, non diversa da quella degli sciamani che si vestivano con pelli e corna di cervo - per essere bassamente "venerato" come "Natura". Arne Naess, grande pontefice di questo guazzabuglio, ci informa che "i principi basilari ai quali s'ispira il movimento dell'ecologia profonda hanno fondamenta religiose o filosofiche" (pag. 225): come se questi due termini potessero essere usati indifferentemente. Quanto all'individualità, essa viene dissolta in un "io" cosmico proprio in un periodo in cui i mass-media, le grandi imprese e lo Stato utilizzano con agghiacciante frequenza l'arma della de-individualizzazione e della passività. Infine l'"ecologia profonda", che si preoccupa tanto della manipolazione della natura, non si cura quasi della manipolazione degli esseri umani a opera dei loro simili, salvo forse quando si tratta di prevedere "drastiche" misure che potrebbero essere "necessarie" per il controllo demografico.

La società umana come "seconda natura"
Anche l'apparente "tolleranza" ideologica che l'"ecologia profonda" professa ha una sua funzione sinistra. Non soltanto riduce al minimo comune denominatore le idee più articolate e complesse e le tradizioni contrastanti, ma legittima concetti estremamente regressivi e persino profondamente reazionari, i quali acquistano credito perché vengono inseriti in contesti e in tradizioni autenticamente radical.
Si consideri, ad esempio, la definizione più ampia di comunità (compresi animali e piante); un'intuizione di interezza organica, con la quale Devall e Sessions guarniscono, nel libro, il loro catalogo di posizioni "dominanti e minoritarie" (pagg. 18-19). Apparentemente non v'è nulla di più completo e pieno, di più privo di malizia, di questo slogan-materasso, tipo "siamo tutti una cosa sola". Ciò che rischia di sfuggire al lettore è il fatto che questa definizione globale di "comunità" cancella tutte le differenze, ricche e significative, che esistono tra le comunità animali e vegetali, e soprattutto tra le comunità non umane e quelle umane. Se si dovesse definire, in senso lato, la comunità come un "tutto" universale, allora l'unica funzione che l'evoluzione naturale ha assegnato all'uomo si dissolverebbe in una notte cosmica, priva di qualsiasi differenziazione, varietà, molteplicità di funzioni.
Il fatto è che le comunità umane sono comunità formate coscientemente - in altre parole, sono società con un'enorme varietà di istituzioni, di culture che possono essere tramandate di generazione in generazione, di modi di vita che possono essere cambiati radicalmente in meglio o in peggio, di tecnologie che possono essere riprogettare o innovate o abbandonate, infine di distinzioni sociali, sessuali, etniche e gerarchiche che possono essere profondamente modificate, a seconda di come muta la consapevolezza e a seconda degli eventi storici. A differenza di molte delle cosiddette "società animali", o comunità animali se si preferisce, le società umane non vengono formate istintivamente , né programmate geneticamente. I loro destini possono essere influenzati da fattori - generalmente, economici e culturali - che talvolta, è vero, esulano dalle possibilità di controllo da parte dell'uomo; tuttavia ciò che distingue le società umane è la possibilità che esse hanno di essere trasformate anche radicalmente dai loro membri - e in modi che possono arrecare beneficio al mondo naturale, oltreché alla specie umana.
L'economia medievale, che ruotava intorno ai castelli, privilegiava l'autarchia o l'"autosufficienza" e la spiritualità. Tuttavia l'oppressione era spesso intollerabile e la grande massa della popolazione che faceva parte di quella società viveva in stato di totale sottomissione ai "migliori" e alla nobiltà.
Se l'"adorazione della natura", con il suo patrimonio di folletti silvestri, feticci animistici, riti della fertilità e altre cerimonie analoghe, maghi, sciamani e sciamane, divinità animali, dei e dee che probabilmente rappresentano la natura e le sue forze - se tutto questo, ripeto, spianasse la strada verso una sensibilità e una società ecologiche, allora sarebbe difficile capire come mai l'antico Egitto diventò e rimase una delle società più oppressive del mondo antico. Il pantheon egizio è affollato di divinità animali, o in parte animali e in parte umane, cui presiedono divinità sia maschili che femminili. Persino il Nilo, il fiume che dava alla valle le sue acque "apportatrici di vita", veniva usato in modo ecologico. Eppure la struttura della società egiziana era formata da una parte da milioni di servi soggetti a oppressione, e dall'altra da ricchi nobili, insomma su un sistema di caste così rigido e basato sullo sfruttamento, che ci si domanda come fosse possibile privilegiare concetti di spiritualità rispetto all'esigenza di un analisi critica della società e alla necessità di ristrutturarla.
Anche volendo dare per scontata la necessità di maturare una nuova sensibilità e una nuova visione del mondo - ciò che è stato ripetutamente sottolineato negli scritti sul tema dell'ecologia sociale - ci si può azzardare a guardare oltre questo primo, limitato contesto dell'"ecologia profonda", verso un contesto ancora più ampio: quello dell'idillio tra l'"ecologia profonda" e le dottrine malthusiane; quello di una spiritualità che esalta l'autocancellazione; quello del flirt con un supernaturalismo che contrasta nettamente con il fresco naturalismo che l'ecologia ha introdotto nella teoria sociale; quello delle manifestazioni di rozzo positivismo da parte di Naess, che impediscono una dialettica realmente organica, indispensabile per comprendere lo sviluppo e non soltanto gli slogan-paraurto; infine quello di una costante tendenza allo sfocamento, a sostituire le idee con stati d'animo, come quando Devall, ad esempio, s'imbatte in un supervirile montanaro come Foreman. Vedremo che tutte le rivendicazioni-paraurto, come quelle che riguardano la decentralizzazione, le comunità su scala ridotta, l'autonomia locale, l'aiutarsi reciprocamente, il comunismo e la tolleranza, così come la presunta opposizione alla gerarchia, vanno in fumo quando le collochiamo nel più ampio contesto di un anti-umanismo malthusiano e delle orge sul "biocentrismo", che contraddistinguono l'autentica infrastruttura ideologica dell'"ecologia profonda".
Non mettendo in evidenza l'unicità, le caratteristiche e la funzione delle società umane, non collocandole nell'evoluzione naturale come parte dello sviluppo della vita e non riconoscendo in modo pieno e unico alla consapevolezza umana la funzione di mezzo, attraverso il quale si realizza la funzione auto-riflessiva del pensiero umano in quanto natura resa autocosciente, gli "ecologisti profondi" ignorano le radici sociali della crisi ecologica - ciò che li differenzia nettamente da scrittori come Kropotkin, i quali denunciano apertamente le gravi ineguaglianze sociali che stanno alla base dello squilibrio tra società e natura.
L'"ecologia profonda" ignora la storia dell'emergere della società dalla natura, un elemento di sviluppo importantissimo, che stabilisce un contatto organico tra la teoria sociale e quella ecologica. Né fornisce alcuna spiegazione (anzi, non mostra alcun interesse) circa l'emergere della gerarchia dalla società, e poi delle classi dalla gerarchia, e infine dello Stato dalle classi - insomma, circa il lento, graduale sviluppo sociale e ideologico, che consente di rintracciare le radici del problema ecologico nella dominazione sociale della donna da parte dell'uomo e dell'uomo da parte dell'uomo, e che in definitiva fa emergere il concetto basilare della dominazione della natura.
Ciò che l'"ecologia profonda" ci dà, invece, a parte quello che prende a prestito da contesti ideologici radicalmente diversi, non è altro che un profluvio di "eco-bla-bla". Il concetto di "umanità" vi appare in forma vaga e irreale, al solo scopo di accomunare tutti gli esseri umani in un senso di colpa universale. Poi veniamo ridotti a uno stato di torpore da prediche buddhiste e taoiste sull'auto-abnegazione, sulla "biocentricità", su uno spiritualismo pop al limite del soprannaturale - e tutto questo per un problema, l'ecologia, la cui essenza consiste in un ritorno al naturalismo terreno. Così non si perdono di vista soltanto le differenze sociali che frammentano l'"umanità" in una moltitudine di esseri umani - uomini e donne, gruppi etnici, oppressori e oppressi; si perde anche la coscienza dell'io individuale, in questo incessante "eco-bla-bla" che predica la "realizzazione dell"'io-nell'io", dove l"'io" sta per interezza organica" (pag. 67). Il fatto che si crei un "io" cosmico da capitalizzare non deve indurci a credere che esso sia più reale di una "umanità" ugualmente cosmica. Ritroviamo poi lo stesso "eco-bla-bla" cosmico laddove ci informano che la "frase 'uno' comprende non soltanto gli uomini, un umano individuale, ma tutti gli umani, gli orsi grizzly, gli interi ecosistemi delle foreste pluviali, le montagne e i fiumi, i più microscopici microbi presenti nel suolo e così via".
Un "io" così cosmico da dover essere capitalizzato non è un vero "io". È una categoria ideologica vaga, anonima e spersonalizzata quanto la stessa immagine patriarcale dell'"uomo", che dissolve in letale astrazione il nostro carattere unico, la nostra razionalità. Di fatto, la società umana è una "seconda natura", un artefatto culturale, derivato dalla "prima natura", ovvero dalla natura primeva, non umana. Non vi è nulla di sbagliato, di "innaturale" o di ecologicamente "estraneo" in questo fatto. La società umana, come le comunità animali e vegetali, è in gran parte il prodotto dell'evoluzione naturale non meno di quanto lo siano gli alveari o i formicai. Inoltre, è un prodotto della specie umana, che a sua volta è un prodotto della natura, non meno di quanto lo siano le balene o i delfini, i condor della California o le cellule procariote. La "seconda natura" è anche un prodotto della mente - di un cervello capace di pensare in forma concettuale complessa e di produrre una forma di comunicazione ad alto valore simbolico. L'insieme di tutto ciò, della "seconda natura", della specie umana che la produce e della forma concettuale complessa di pensiero e di comunicazione che le è peculiare, scaturisce dall'evoluzione naturale non meno di qualsiasi altra forma di vita o comunità non umana - inoltre questa "seconda natura" si differenzia in modo del tutto peculiare rispetto alla prima, perché è in grado di agire a ragion veduta, con uno scopo, consapevolmente e, a seconda della società che prendiamo in esame, creativamente nel senso ecologico migliore o distruttivamente nel senso ecologico peggiore. Infine, questa "seconda natura" che chiamiamo società ha una sua storia, costituita da una serie di lunghi processi - relativi alla derivazione dalla "prima natura", all'organizzazione o istituzionalizzazione delle relazioni umane, alle interazioni, ai conflitti, alle differenziazioni e alle complesse e variegate formazioni culturali, all'attuazione delle molteplici potenzialità umane - alcuni dei quali con un carattere eminentemente creativo, altri con un carattere distruttivo.
Concludendo, una caratteristica primaria di questo prodotto dell'evoluzione naturale, che chiamiamo "società", è la sua capacità di influire sulla "prima natura" - di modificarla, anche in questo caso con metodi creativi o distruttivi. Ma la capacità che gli esseri umani hanno di interagire con la "prima natura" attivamente, in modo finalizzato, coscientemente, razionalmente e, si spera, ecologicamente, è pur sempre un prodotto dell'evoluzione, non meno di quanto lo sia la capacità che i grandi erbivori hanno di impedire che le foreste invadano le praterie, o quella che i lombrichi hanno di ossigenare il suolo. Gli esseri umani e le loro società modificano la "prima natura", nei casi migliori in modo razionale ed ecologico, nei casi peggiori in modo irrazionale e antiecologico. Ma il fatto che essi siano costituzionalmente portati ad agire nella natura, a intervenire nei processi naturali e a modificarli in un modo o nell'altro è ugualmente un prodotto dell'evoluzione naturale, non meno di quanto lo sia l'influsso che ogni altra forma di vita esercita sul suo ambiente.
Queste facili astrazioni dell'individualità umana sono estremamente pericolose. Storicamente, l'"io" capace di assorbire tutte le reali individualità esistenziali è stato usato da tempi immemorabili per concentrare l'unicità e la libertà individuali in "Individui" supremi, destinati a essere capi di Stato o di una Chiesa, capi carismatici di congregazioni religiose - orientali o occidentali - o incantatori di interi corpi elettorali, e tutto ciò a onta del fatto che l'"io" suddetto si ammantasse di attributi ecologici, naturalistici e "biocentrici".
L'"io" borghese egocentrico, gretto e individualista è sempre stato odioso, naturalmente, e l'"ecologia profonda" personificata da Devall e Sessions punta molto su questo aspetto. Ma una posizione "critica" di tal fatta è fin troppo facile, e potrebbe trovare spazio persino sulle riviste popolari. Possibile che non esista un io libero e intellettualmente indipendente, ecologicamente sensibile e, perché no, idealistico e dotato di una personalità unica, che possa pensarsi diverso da "le balene, gli orsi grizzly, gli interi ecosistemi delle foreste pluviali (niente meno!), le montagne e i fiumi, i più microscopici microbi presenti nel suolo e così via"? Di fatto, non è forse indispensabile che l'io individuale si distacchi dall'"Io" faraonico, scopra le proprie capacità e la propria singolarità, acquisisca un senso della personalità, di autocontrollo e di autodirezione - caratteristiche, queste, senza le quali non è possibile conquistare la libertà?
Potrei aggiungere, a questo punto, che mi sembra di vedere Heidegger e, sì, anche il nazismo che ghignano soddisfatti dietro il velo di questa auto-cancellazione e di questa personalità passiva e remissiva al punto da poter essere facilmente plasmata, distorta e manipolata da una nuova, "ecologica" macchina dello Stato, con un "Io" supremo incarnato in un leader, in un guru, in un dio vivente - e tutto ciò nel nome di una "uguaglianza biocentrica" che viene lentamente rielaborata, come è accaduto spesso nel corso della storia, in una gerarchia sociale. Dagli sciamani ai monarchi, dai sacerdoti o dalle sacerdotesse ai dittatori, il nostro sviluppo sociale contorto è stato sempre contrassegnato da "seguaci della natura" e dalle loro rituali Entità Supreme, che nei casi migliori producevano individui incompleti, e nei casi peggiori toglievano ogni individualità all'"io-nell'io", spesso in nome del "Grande Tutto Unificato" (per usare esattamente la stessa terminologia delle classi dominanti cinesi, che tenevano i contadini in stato di abietta servitù, come ci insegna Leon E. Stover nel suo The Cultural Ecology of Chinese Civilization (L'ecologia culturale della civiltà cinese)).
Ciò che oggi rende particolarmente sinistro questo "eco-bla-bla" è il fatto che viviamo già in un'epoca di massiccia de-individualizzazione e questo non perché l'"ecologia profonda" o il taoismo riescano a fare breccia seriamente nella nostra ecologia culturale, ma perché i mass media, la cultura consumista e la società di mercato "riunificano" in un "tutto" sempre più spersonalizzato, fondamentalmente passivo e facilmente soggetto a essere manipolato economicamente e politicamente. Non soffriamo per un eccesso di "individualità", ma per eccessivo egoismo perché rinunciamo alla personalità in cambio della sicurezza offerta dalle grandi aziende, dai governi centralizzati, dall'esercito. Se s'identifica l'"individualità" con una personalità forte, "antropocentrica", divoratrice, non la si troverà tanto tra la gente comune, che fondamentalmente sente di non avere più controllo sul proprio destino, ma piuttosto tra i leader delle grandi aziende e dello Stato, che stanno saccheggiando e sfruttando non soltanto il pianeta, ma anche le donne, la gente di colore, i non privilegiati. Non è certo di de-individualizzazione che gli oppressi hanno bisogno, e tanto meno quelle personalità passive che cedono facilmente alle forze cosmiche - l'"Io" - che le manovrano come burattini; ciò che occorre loro è una re-individualizzazione, che ne faccia degli agenti attivi nella trasformazione della società e ponga fine al crescente totalitarismo che minaccia di omogeneizzarci in massa in una versione occidentale del "Grande Tutto Unificato".
Fino a quando non si cercherà risolutamente di stabilire un nesso tra i dissesti ecologici e i dissesti sociali; di contrastare gli interessi aziendali e politici occulti che dovremmo chiamare più propriamente capitalismo - e non soltanto un'entità vaga chiamata società "industrial-tecnologica"; di analizzare, studiare e combattere la gerarchia come una realtà, non soltanto come una sensibilità; di riconoscere i bisogni materiali dei poveri e dei popoli del Terzo Mondo; di agire politicamente, e non soltanto di fungere da culto religioso; di riconoscere alla specie umana e alla sua intelligenza il ruolo che spetta loro nell'ambito dell'evoluzione naturale, invece di considerarli alla stregua di "cancri" che minacciano la biosfera; di studiare non soltanto le "anime", ma anche l'economia, e di dedicarci alla libertà e non soltanto a discussioni introspettive o accademiche sui "diritti" dei virus patogeni; - insomma, per farla breve, se i Verdi e il movimento ecologico nordamericano non si dedicheranno all'ecologia sociale, lasciando che l'"ecologia profonda" precipiti nella fossa che ha scavato per noi, il movimento ecologico sarà soltanto un altro orrido bubbone sulla pelle della società.
Quello che dobbiamo fare, oggi, è tornare alla natura, intesa in tutta la sua fecondità, ricchezza di potenzialità e soggettività - e non alla sovrannaturalità, con i suoi sciamani, i suoi sacerdoti e le sue fantastiche divinità, semplici estensioni e distorsioni antropomorfiche dell'"Umano" in forma divina universale. E ciò che dobbiamo "incantare" non è soltanto una "Natura" astratta, che spesso riflette i nostri stessi sistemi di potere, gerarchia e dominazione - ma piuttosto gli esseri umani, la mente umana e lo spirito umano, che in questi tempi ha preso batoste da ogni parte, ma soprattutto dall'"ecologia profonda".
Con il suo malthusianesimo, i suoi "centrismi", il suo mistificante "eco-bla-bla" e il suo disorientante eclettismo, l'"ecologia profonda" distorce questa missione in un rozzo biologismo, distogliendoci dai problemi sociali che stanno alla base di quelli ecologici, e dal progetto di ricostruzione sociale che solo può salvare la biosfera dalla distruzione.
Dobbiamo deciderci a prendere posizione su questi problemi - al di là di ogni "eco-bla-bla" - altrimenti dovranno riconoscere ai reazionari un'altra conquista: quella dello stesso movimento ecologico.

(traduzione di Michele Buzzi)