Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 18 nr. 153
marzo 1988


Rivista Anarchica Online

Al di là degli slogan
di Gianfranco Bertoli

Con questo stesso titolo è apparsa sullo scorso numero una presa di posizione redazionale. Approfondendo e sviluppando quegli spunti, il nostro collaboratore Gianfranco Bertoli - dal carcere di Porto Azzurro, dove sta scontando l'ergastolo - analizza alcuni aspetti della questione palestinese, senza nulla concedere ai luoghi comuni ed alla retorica trasmessi dai mass-media e fatti propri da tanta parte della "sinistra".

Indipendentemente dalle bandiere che vengono sventolate, dagli slogan che vengono gridati e perfino al di là della spontaneità o della eventualità di possibili strumentalizzazioni, ogni esplosione di moti popolari e di forme collettive di protesta rappresenta la prova della sussistenza di un malessere sociale diffuso, che ha le sue radici in problemi reali. L'ampiezza di tali fenomeni, così come il grado di combattività di chi vi partecipa e la decisione nel persistervi anche di fronte alla brutalità di una repressione violenta, offrono adeguati criteri di valutazione in merito alla gravità dei problemi che ne sono all'origine ed al livello di rabbia e di frustrazione collettiva per la loro mancata soluzione.
Di per sé stessi, per il fatto di verificarsi e per la decisione con cui vengono portati avanti, tali episodi dimostrano tutto questo, ma anche solo questo. Dalla portata del coinvolgimento popolare e dalla maggiore o minore durezza della reazione repressiva, poco o nulla, invece, è possibile dedurre sulla validità degli obiettivi perseguiti. Un illuminante esempio, tra i tanti che potrebbero venire citati, è quello dei cosiddetti "fatti di Reggio Calabria", al principio degli anni '70, quando elementi sobillatori di aperta e dichiarata ispirazione fascista, facendo leva su di una situazione di diffuso e legittimo scontento, ebbero facile gioco nello scatenare una vera e propria rivolta popolare, di lunga durata, e ad egemonizzarla, indirizzandola verso il pretestuoso e insulso obiettivo della conquista di un futile primato regionale.
Sul piano del significato reale che è possibile attribuire ad una protesta popolare e dell'individuazione dei contenuti e delle implicazioni, di ben poco aiuto possono essere gli aspetti spettacolari e la drammaticità degli avvenimenti.
Questo vale anche per i drammatici eventi di Gaza e di Cisgiordania, dove la protesta palestinese è venuta a scontrarsi con la pesante repressione del governo di Gerusalemme, col conseguente verificarsi di ripetuti e durissimi scontri, nel corso dei quali le truppe israeliane di occupazione hanno sparato ed ucciso.
Non vi è alcun possibile dubbio sul fatto che le condizioni di vita nei campi dei rifugiati palestinesi siano terribilmente amare e su quello che una situazione del genere, e che si protrae da decenni, renda più che giustificato lo stato d'animo e l'esasperazione di quella popolazione e del tutto comprensibile la sua protesta e la sua rivolta. Un po' meno ovvio, però, dedurne che siano giusti anche gli indirizzi e gli obiettivi immediati di quelle lotte e sia condivisibile l'atteggiamento di chi le conduce, sul piano della individuazione delle cause e delle responsabilità che sono all'origine della situazione contro cui quelle popolazioni si ribellano. Né può facilmente dirsi se, e in quale misura, l'eventuale successo, l'ottenimento cioè dello sgombero di quei territori da parte delle truppe occupanti, determinerebbe un reale miglioramento della situazione in cui versano gli abitanti (e, più in generale, contribuirebbe ad una soluzione del "problema mediorientale", nel senso di favorire un processo di pace in quell'area) o se, al contrario, potrebbe finire col rivelarsi come un primo passo verso una nuova guerra, dall'esito incerto e, comunque, molto sanguinosa per tutti, destinata a lasciare strascichi ancora più dolorosi.
Non è mai facile analizzare obiettivamente le cause dei mali che ci si trova a dover sopportare ingiustamente. Ancora più difficile quando, come nel caso dei palestinesi più giovani, tutto ha avuto origine prima ancora che nascessero. Quasi impossibile, poi, quando si viene sottoposti, fin dalla prima infanzia, al martellamento propagandistico di una retorica faziosa e sorretta dalla narrazione di ricostruzioni storiche fittizie. Che chi si trova nel bel mezza della lotta, ha visto cadere dei compagni e si sta battendo con un coraggio che sfiora l'eroismo, sia certo di essere nel giusto e che egli ritenga la sua una "buona causa", è cosa naturale e scontata. Non è, però, dall'onestà, dalla sincerità e dal coraggio dei protagonisti di una lotta che si possono ricavare delle conclusioni sulla validità degli obiettivi perseguiti. Talvolta (e così è, probabilmente, anche in questo caso) può essere facile avvicinarsi alla comprensione del senso di certi avvenimenti se si evita un eccessivo coinvolgimento emotivo e se si cercano di prendere in considerazione i loro effetti indotti, sul piano delle reazioni e delle prese di posizione esterne, più che cercare di seguire lo svolgimento materiale dei fatti, attraverso i resoconti giornalistici.

I mille volti dell'antisemitismo
Per quanto concerne tali reazioni, dirò subito che i timori espressi da qualcuno del possibile riemergere di atteggiamenti antisemiti, come conseguenza indiretta della campagna propagandistica di sostegno alla causa arabo-palestinese, mi sembrano quasi commoventi per la loro ingenuità. L'antisemitismo non rischia di rispuntare a causa degli attuali avvenimenti e del modo in cui vengono riferiti, per la semplice ragione che esso è già presente, probabilmente più radicato e diffuso di quanto, almeno in Italia, sia mai stato prima, mentre l'attuale ondata di ostilità antiisraeliana che prende spunto dai fatti di Gaza e della Cisgiordania, non ne è tanto una potenziale causa di riapparizione quanto un sintomo ed un effetto.
Quale altra spiegazione trovare alla apparente superficialità e faciloneria con cui si fa ricorso, tanto frequentemente e a sproposito da inflazionarli e snaturarne il significato, a termini come ,"genocidio" e "deportazione"? A che cosa attribuire, se non ad una sottile, subdola (e magari inconscia) forma di antisemitismo, il fatto che, in ogni circostanza, nel giudicare i comportamenti di Israele e le eventuali malefatte dei suoi governanti, venga sistematicamente fatto ricorso ad un metro ed a criteri morali che non vengono mai fatti valere nel giudicare nessun altro paese della stessa area geografica?
Certo, l'antisemitismo contemporaneo assume aspetti e linguaggi molto meno grossolani di quelli dell'antisemitismo tradizionale. Ma questo è solo il sintomo del fatto che ha contagiato lettori ed aree politico-ideologiche che prima ne erano immuni. Adesso vi è anche un antisemitismo di "sinistra". In questa sua versione esso non si autodefinisce più esplicitamente, assumendo invece l'etichetta di "antisionismo", cerca di nobilitarsi attraverso l'aggancio a tutta una serie di vocaboli tratti dal bagaglio culturale della sinistra, come "antimperialismo", "anticolonialismo", ecc...
Respinge sdegnosamente l'epiteto di antisemitismo ricorrendo ad una argomentazione, di tipo sillogistico, apparentemente ineccepibile e che può venire formulata così: "Noi siamo contro il sionismo perché siamo a favore dei palestinesi; ora i palestinesi sono degli arabi e tutti gli arabi sono dei semiti; quindi non possiamo essere certo degli antisemiti". Argomentazione formalmente rigorosa, ma che si configura in una classica "fallacia sofistica". Essa gioca, infatti, sull'ambiguità semantica del termine "antisemitismo". Poco importa, in questi casi, il significato letterale del termine, rispetto a quello che ha sempre avuto, fin da quando è stato coniato, nell'uso e nel riferimento estensionale pragmatico. La parola "antisemitismo" è sempre e soltanto stata (e rimane) sinonimo di "antiebraismo". Se così non fosse, lo stesso Hitler (che nel suo "Mein Kampf" esprimeva molta ammirazione per gli arabi) non dovrebbe essere considerato antisemita. E questo, francamente, mi pare un po' troppo!
A scanso di equivoci, tengo a precisare che, per quanto mi riguarda, pur ritenendola molto meno aberrante e più giustificabile nelle sue motivazioni di altre forme di nazionalismo, nutro anche per il sionismo la stessa diffidenza che riservo a tutti gli altri movimenti di ispirazione nazionalistica e a concetti come "patria" e "nazione". Non ho, pertanto, la minima intenzione di pretendere di stabilire una equazione tra l'ostilità al sionismo, in quanto movimento ed ideologia, e l'antisemitismo.
Quello, invece, di cui sono convinto è che vi sono profonde connotazioni antisemite nella retorica propagandistica e nelle distorsioni della verità storica, attraverso le quali si cerca di "demonizzare" l'idea sionista e a presentare questo movimento come espressione di un colonialismo con aspirazioni imperialiste ed una congenita vocazione ad aggredire ed opprimere altri popoli. Giacché la storia recente viene spesso dimenticata ed ignorata assai più facilmente di quella remota, sarà bene cercare di sgomberare il campo da una grossa menzogna, che tutti sembrano prendere per un dato di fatto ed una verità certa e scontata. Mi riferisco alla mistificante leggenda secondo cui vi sarebbe stata, nel 1967, una aggressione militare israeliana per appropriarsi di Gaza e della Cisgiordania, sottraendole al popolo palestinese e assoggettandolo, per rinchiuderlo nei famigerati "campi". In verità, e anche se quella menzogna si è affermata e mostrano di credere ad essa in buona fede i più giovani tra coloro che sfilano oggi per le strade (magari dopo essersi avvolti la testa nella "kefiah", quasi a voler imitare Lawrence d'Arabia o travestirsi da "figlio dello sceicco") per imprecare contro Israele e per bruciare bandiere con la "stella di David", le cose non stanno proprio così.

Nel 1967 andò così
La guerra del 1967 non è stata voluta da Israele, ma provocata dal dittatore egiziano Abdel Nasser nel quadro del suo progetto di realizzazione di una grande "Nazione Araba" e che passava per la preliminare eliminazione della presenza ebraica in Palestina. Nel maggio del 1967 si era ricostituita una certa unità dei paesi arabi attorno alla RAU, con un rilancio del prestigio di Nasser; ne conseguì una ventata di isterismo bellicista che fece rapidamente precipitare la situazione. Fermamente convinto della raggiunta superiorità militare e certo di avere l'appoggio degli altri paesi arabi, il dittatore egiziano chiese all'allora segretario generale dell'ONU, U Thant, il ritiro immediato delle forze dell'ONU stanziate da undici anni alla frontiera israelo-egiziana. La ottiene subito e quelle posizioni vengono immediatamente occupate da truppe egiziane e, a Gaza, dall'Armata di liberazione della Palestina di Ahmed Shukairy. Il 22 maggio Nasser annuncia la chiusura del golfo di Akaba alle navi israeliane e a quelle di altri paesi dirette in Israele e che "trasportino materiale strategico". Il 31 c'è la riconciliazione tra Hussein di Giordania e Nasser e la firma di un patto militare di azione comune. Le radio e la stampa di tutti i paesi arabi si scatenano in quotidiani inviti alla "guerra santa" e diffondono proclami e dichiarazioni ufficiali in tal senso. Stretta dalla pressione militare degli eserciti arabi che la circondano e minacciata di soffocamento per il blocco del porto di Eilat e del golfo di Akaba, Israele non aveva altra scelta se non quella di cercare di colpire subito e di spezzare l'accerchiamento. Le tesi su chi abbia sparato per primo in quel 5 giugno 1967 sono discordanti, anche se tutto sembra indicare che gli israeliani siano stati i primi ad attaccare. Ma la questione è inessenziale, perché non vi erano altre vie d'uscita. Fatto sta che, costretta a combattere, Israele riuscì a rovesciare la situazione strategica. Dopo avere, in sei giorni di guerra, completamente distrutto le forze aeree dell'Egitto, della Giordania, della Siria e Iraq, annientato l'esercito egiziano e inflitto una dura sconfitta alla Legione Araba giordana e alle truppe siriane, gli israeliani si trovavano ad avere occupato tutto il Sinai, la Cisgiordania e le alture del Golan.
In queste condizioni potevano sperare nell'apertura di trattative di pace con i paesi vicini. Ma non fu così. Proprio come dopo la guerra del 1948 si assistette al rifiuto arabo di accettare la realtà di una sconfitta e ad una ancora maggiore intransigenza e radicalizzazione nella posizione di rifiuto della stessa esistenza dello stato israeliano. A questo punto i governanti di Israele si trovavano di fronte ad un dilemma che appariva irrisolvibile. Se da un lato, infatti, la conquista delle nuove posizioni, alleggerendone il perimetro difensivo, miglioravano la posizione strategica di Israele, dall'altro, l'inserimento di una ingente popolazione araba all'interno dei suoi confini ed il trovarsi ad avere ereditato il problema dei profughi arabi della guerra del 1948, venivano a complicare enormemente i termini politici ed etici della questione.

Una riserva esplosiva
A differenza di quanto era, per esempio, avvenuto per problemi analoghi rappresentati, alla fine della seconda guerra mondiale, dai profughi italiani dalla Dalmazia e dall'Istria e per gli oltre due milioni di tedeschi dei Sudeti che erano stati espulsi dalla Cecoslovacchia, non vi fu alcun tentativo, da parte dei paesi arabi che avevano scatenato la guerra del 1948, di risolvere il problema dei profughi, né nel senso di una assimilazione, né in quello di dare loro la possibilità di costituire uno stato autonomo nei territori sotto il loro controllo. Questi esuli furono invece confinati in campi, spesso mal tollerati ma anche tenuti in gran conto in qualità di riserva esplosiva nella prospettiva di una rivincita militare su Israele e come area e materiale umano di reclutamento per le diverse organizzazioni di resistenza e di guerriglia, variamente sponsorizzate dai differenti governi.
Le ragioni dell'atteggiamento dei paesi arabi in tutta la vicenda, a partire dall'intervento militare del 1948 a tutt'oggi, possono venire comprese solo se, andando oltre le demagogiche e pretestuose affermazioni ufficiali, relative a questioni di "aiuto fraterno" al popolo palestinese, si tiene presente una caratteristica specifica che è all'origine di tutte le manifestazioni del nazionalismo arabo. Questa caratteristica è quella di essere sempre stato legato, pur nel quadro di frequenti e reciproche contrapposizioni, all'idea di ricreare quella struttura politica mondiale in cui era fiorita, in secoli lontani, la loro antica civiltà. Già Ibn Alì al Husayn , negoziando con l'Inghilterra le condizioni per la rivolta araba contro la Turchia, aveva chiesto la costituzione di uno stato arabo unitario, comprendente la Penisola arabica, la Siria, la Palestina, la Giordania, il Libano e l'Iraq. Da allora, pur mutando di volta in volta i personaggi ed i paesi che ne diventavano il punto di riferimento contingente, il sogno di una grande "Nazione araba" unitaria ha continuato a venire accarezzato e coltivato. Da qui il ruolo, involontario, di elemento unificatore, in quanto obiettivo verso cui è possibile riversare l'ostilità collettiva, assunto dallo stato ebraico. Da questo, anche, la necessità di tenere sempre vivo e di esasperare con ogni mezzo il problema dei profughi palestinesi.
In questo contesto, la situazione in cui sono venuti a trovarsi i differenti governi israeliani, rispetto alle decisioni da prendere sulla sorte dei territori occupati, non può non essere apparso loro che come un dilemma senza possibile soluzione. Abbandonare quei territori senza la contropartita di un accordo di pace che offra certe garanzie, vorrebbe dire tornare al punto di partenza e restituire a dei nemici dichiarati delle basi avanzate per futuri attacchi. Restare indefinitamente ad occupare quei territori per annetterseli, vorrebbe dire trasformarsi progressivamente in un paese di tipo "fascista" sul modello sudafricano. Facendo questo, oltre a porsi in contraddizione con tutti i suoi principi originari, con la possibile conseguenza di un disfacimento interno dovuto alla non-accettazione di parte della grande maggioranza della stessa popolazione ebraica di una simile involuzione, lo stato israeliano si troverebbe come già ha cominciato a verificarsi, a dover fare i conti con l'isolamento internazionale e con l'insofferenza, la protesta e le rivolte continue della popolazione araba della Palestina.

La fine del sogno
Purtroppo, nonostante le ottimistiche previsioni dei suoi precursori e l'effettiva buona volontà dei suoi realizzatori lo stato israeliano è nato male. Non poteva probabilmente, essere diversamente, perché il sionismo è, pur sempre, stato un fenomeno nazionalistico e tutti i nazionalismi hanno lo stesso destino, quello di dare origine, se vincono, ad uno stato che non potrà che essere analogo a tutti gli altri, non potrà che essere, seppur in maggiore o minore misura, che un oppressore e trovarsi sempre a scontrarsi con nazionalismi contrapposti. D'altra parte, al di là di una comunanza di intenti relativamente alla costituzione di una società ebraica in Palestina, il movimento sionista non era mai stato unitario rispetto alle forme che avrebbe dovuto assumere tale entità nazionale. La visione che ne avevano i primi "kibbutznikim" oppure quella del progetto di Martin Buber, per la creazione di uno stato binazionale federato arabo ed ebraico con assoluta parità di diritti, erano del tutto diverse da quella caldeggiata dalla frazione di destra dello schieramento sionistico che era capeggiata da Vladimir Jabotinsky.
I rapporti con la popolazione araba furono molto differenti nei diversi periodi, e influenzati anche dal tipo e dagli orientamenti delle diverse ondate immigratorie. Tanto per fare un esempio, il consolidarsi in Polonia della dittatura del maresciallo Pilsudsky e le misure antiebraiche del suo ministro Grabski determinarono, a partire dal 1924, una ondata immigratoria composta in gran parte da elementi della media borghesia e da professionisti, che affluirono prevalentemente a Tel Aviv e ad Haifa, che cominciarono così ad assumere rapidamente l'aspetto di grandi città moderne. D'altra parte, già in passato e contemporaneamente all'insediamento dei villaggi comunitari di orientamento socialista a forti connotazioni libertarie, vi era stata la costituzione di aziende agricole (per lo più finanziate dai Rothschild) e di altre imprese commerciali e industriali di tipo capitalistico, che facevano grande ricorso a manodopera araba sottopagata.
Tuttavia, anche se altamente sfruttata, la manodopera araba trovava allettanti queste offerte di lavoro che permettevano condizioni di vita più elevate di quelle esistenti in tutte le altre parti dell'impero ottomano e ciò aveva favorito un notevole aumento numerico della popolazione araba, proveniente dai paesi vicini e che finì col considerarsi palestinese. Piano piano e parallelamente alla formazione di una entità nazionale ebraica, veniva a costituirsi una vera e propria entità nazionale arabo-palestinese che prendeva consapevolezza di sé. Il progredire della costruzione, l'introduzione di idee e di principi moderni, il miglioramento delle condizioni di vita e l'esempio del movimento nazionale ebraico, al tempo stesso che risvegliarono fermenti ed aspirazioni analoghe all'interno della minoranza intellettuale della popolazione araba, suscitavano il timore ed il sospetto della classe dirigente composta dai grandi latifondisti arabi. Si verificò una confluenza, apparentemente paradossale, nell'ostilità verso gli immigrati ebrei, che si concretò in sentimenti xenofobi, alimentati da fattori di contrapposizione religiosa.
L'anno della svolta decisiva fu il 1929, quando prendendo spunto da una controversia circa l'accesso al "Muro del pianto", l'eccitazione della popolazione araba, istigata dalla propaganda del Gran Muftì di Gerusalemme, Hai Amin el Hussaini (ambigua figura di capo religioso e ricco proprietario terriero che, dapprima legato agli interessi britannici, doveva poi intrattenere rapporti strettissimi con il nazismo, fino a rifugiarsi nella Germania di Hitler dopo il fallimento della insurrezione filotedesca in Iraq, e che doveva poi venire salvato dal dover essere processato a Norimberga per intercessione di De Gaulle), si scatenò in una serie di attacchi contro numerosi centri ebraici che provocarono molti morti e feriti da entrambe le parti.
La fine del sogno di poter arrivare ad un accordo di convivenza pacifica tra le due comunità, però, fu determinato dall'esplodere, nell'aprile del 1936, della grande rivolta araba che durò fino all'autunno del 1939, sotto la guida del siriano Fauzi Kawukgi. Fu allora che i villaggi ebraici cominciarono a munirsi di recinzioni protettive e ad innalzare torri di guardia, che si strutturarono militarmente le forze di autodifesa dell'"Hagana" e che trovarono anche spazio le posizioni, del tutto minoritarie e fino ad allora emarginate, degli estremisti ebrei fautori della rappresaglia, anche indiscriminata. La comparsa sulla scena dell'Irgùn Tzevaì Leumì e più tardi della cosiddetta "Banda Stern", furono elementi che contribuirono con le loro azioni terroristiche di rappresaglia sistematica a scavare un solco ancora più profondo fra arabi ed ebrei di Palestina e ad esasperare l'odio e i rancori. Il primo episodio del genere, che ebbe un impatto sconvolgente per la sua novità, si verificò il 19 aprile del 1936 quando, in risposta all'uccisione nello stesso giorno di nove ebrei, vennero a loro volta assassinati tre arabi, due uomini e una donna, nei vicoli di Giaffa.
Da allora, con alti e bassi a seconda dei momenti, continuarono a verificarsi attacchi e rappresaglie, attentati e violenze da tutte le due parti. Continuò anche dopo la cessazione della guerra del 1948 (gli israeliani ebbero 405 morti e 589 feriti nel solo periodo dal 1950 al 1956, per attacchi provenienti dalla zona di Gaza e dalla Cisgiordania) con infiltrazioni dall'esterno e con attentati all'estero ad opera di gruppi della guerriglia palestinese, e con le risposte di rappresaglia israeliane.

Quel monito di Buber
Ora si è aperta una nuova fase che vede la rivolta aperta, anche se per ora disarmata, delle popolazioni arabe dei territori occupati e la repressione violenta della polizia e dell'esercito di Israele. Da parte israeliana si sembra decisamente avviati a dimenticare l'ammonimento rivolto da Martin Buber nel 1929: "Ricordiamoci in che modo gli altri popoli ci hanno trattato e come ci trattano ancora dappertutto, come stranieri, come inferiori. Guardiamoci dal considerare e dal trattenere quale cosa inferiore ciò che ci è estraneo e non abbastanza noto! Guardiamoci dal far noi quello che ci è stato fatto".
Da parte araba, invece, si continua a persistere nel sognare la distruzione totale dello stato ebraico, sicché anche le attuali, e di per sé giuste, rivendicazioni vengono portate avanti in nome dell'odio e riconoscendosi in organizzazioni che hanno fatto della eliminazione della presenza ebraica in Palestina la loro stessa ragion d'essere. Un fenomeno preoccupante è quello che sta cominciando ad apparire e consiste negli episodi (fino qui tenuti sotto controllo dalle stesse truppe israeliane, ma fino a quando?) di gruppi di civili ebrei armati che intendono affrontare direttamente i manifestanti arabi e operare azioni di attacco nei confronti dei villaggi abitati da palestinesi.
Le poche note positive sembrano essere, in questo momento, rappresentate solo dai segnali che vengono da una parte (abbastanza consistente a giudicare dal numero di partecipanti, oltre 100.000, alla manifestazione del 23 gennaio a Tel Aviv, promossa dal movimento pacifista israeliano "Shalom Akhshaw") della popolazione ebraica di Israele. Quelle prese di posizione hanno, infatti, un significato che trascende quello dell'invito al governo perché cessi la repressione nei territori occupati e si decida a prendere in considerazione l'opportunità di lasciarli. Se l'interlocutore diretto apparente dei pacifisti israeliani è il loro stesso governo, il discorso che cercano di portare avanti è destinato a cercare un interlocutore diverso, e questi altri non è se non la stessa popolazione palestinese di Israele e dei territori occupati. Si tratta di una mano tesa che, se raccolta, può voler dire l'inizio di una vera pace tra le due comunità.
È certo che prima o poi, per amore o per forza, Israele dovrà abbandonare Gaza e la Cisgiordania. Ma il destino futuro dei due popoli dipende dal modo in cui questo avverrà. Se sarà per imposizioni internazionali o in seguito ad un inasprimento ulteriore dello scontro, le cose non si fermeranno. Questo tipo di vittoria incoraggerà a maggiori pretese i gruppi della guerriglia palestinese e gli stati loro sponsorizzatori. Si riproporrà l'obiettivo della distruzione degli ebrei di Palestina e vi saranno nuove guerre sanguinose.

L'unica via un'utopia?
Sarebbe ben diverso se l'abbandono di quei territori venisse imposto dall'azione comune del movimento pacifista ebraico e di forze analoghe che dovessero trovare il coraggio di sorgere anche in campo arabo. Una speranza che può sembrare utopica e forse lo è, ma che è anche l'unica possibile. Ed è questa soluzione che dovrebbe essere auspicata anche da quei movimenti europei che dicono di sentirsi solidali con il popolo palestinese e forse lo sono veramente, ma non riescono a far meglio e a guardare un po' più in là che non sia manifestare un insulso appoggio ad organizzazioni politico-militari che non hanno mai nascosto di accarezzare sogni di rivincite belliche e di vendetta.


"Disarmiamo i generali!"

All'indomani della "guerra dei sei giorni" (giugno 1967), il settimanale anarchico Umanità Nova (a. XLVII, n.ro 23, 17 giugno 1967) pubblicava in prima pagina, sotto il titolo "Ora bisogna disarmare i generali", il seguente "appello della Federazione Anarchica Italiana per una pace sociale in Medio Oriente".

La Federazione Anarchica Italiana non ha salutato la vittoria degli eserciti dello Stato d'Israele, ma oggi esulta per la deposizione delle armi. La distruzione del popolo d'Israele, vaticinata da dittatori e da monarchi medievali che opprimono e sfruttano ignobilmente le fanatizzate popolazioni arabe, non è avvenuta e non potrà mai avvenire, come non l'hanno potuto le barbare legioni di Hitler.
Ma la vittoria dei generali dello stato d'Israele, poiché la ragione e l'umanità non hanno potuto prevalere per impedire il sanguinoso scontro delle armi per l'affermazione del diritto e della giustizia, non deve glorificare la bruta violenza degli eserciti che, vittoriosi o sconfitti, sempre preparano nuovi conflitti e approfondiscono il solco degli odi che dividono i popoli fomentati da sordidi interessi privati, di stati, di chiese.
La vittoria di Israele non deve essere quella dei generali, ma dell'umanità che vuole rinnovarsi e rinnovare. Non deve consegnare ai rigurgiti del colonialismo imperialista i popoli arabi indifesi, schiacciati, riversando su di essi quelle "soluzioni finali" che i loro capi si proponevano di riservare ad Israele.
I trionfi militari non devono far esultare i vecchi massacratori dell'OAS in Algeria e in Indocina, i fascisti, i razzisti più arrabbiati, tutti compatti esaltatori della "blitzkrieg" (guerra-lampo, n.d.r.) vittoriosa del generale Dayan, preso a prestito quale vendicatore dei colonialisti rimasti senza colonie.
Per costoro, oltre tutto, battere i paesi arabi significa vibrare un duro colpo al prestigio dello stato russo in Medio Oriente e rendere così un servizio a Johnson per la sua guerra personale in Vietnam.
Domani si schiereranno, come già nel passato, contro ogni tentativo di riunire in una moderna Confederazione arabi ed israeliani per dissodare le aride sabbie del deserto; insorgeranno contro l'affermarsi di una possibile convivenza dei due popoli su basi sociali nel Medio Oriente e torneranno al razzismo antiebraico, accusando Israele di fomentare la "sovversione" del mondo arabo.
L'opinione pubblica è sincera e spontanea quando parteggia per il più debole e perseguitato – e Israele appariva tale all'inizio del conflitto – e si esalta quando Davide atterra Golia. Ma essa ha orrore anche per la strage dei vinti e per le montagne di morti, uccisi dalle bombe al napalm in Giordania, e dei villaggi distrutti.
Gli anarchici respingono decisamente ogni idea che si possa ricostruire una convivenza di arabi e ebrei in Medio Oriente fondata sulla supremazia militare, sugli interessi di stato e sui miti religiosi.
Essi pongono alla base della loro solidarietà le esemplari realizzazioni sociali del popolo d'Israele, le sue collettività agricole, i "kibbutz", che, fin dal loro nascere, gli anarchici hanno salutato quale conquista del socialismo libertario.
La gioventù che vive ed opera in Israele non è che una piccola frazione della gioventù ebraica sparsa in tutto il mondo, e che opera per un mondo migliore, disertando le sinagoghe ed i miti religiosi del passato.
Il popolo d'Israele dovrà essere un popolo come tutti gli altri, operoso, intelligente, coraggioso ed aperto al progresso sociale: questo sarà il suo genuino segno distintivo, e non più la razza, la fede religiosa che rende "santa" ogni guerra, ogni persecuzione, ogni isolamento, ogni aggressione, che offre armi al cieco fanatismo di altri miti religiosi.
Questo è il significato della solidarietà che gli anarchici hanno sempre dato e daranno in avvenire al popolo d'Israele, anche in unione con i loro compagni che vivono ed operano nei "kibbutz" o all'estero.
Un messaggio sociale al mondo arabo per aiutarlo nella sua lotta di liberazione dalla schiavitù economica e religiosa, ben altamente nobile, è affidato al popolo d'Israele, togliendo di mano ai generali una vittoria che, in altro modo, si trasformerebbe in tempi non lontani in sconfitta e causa di nuovi e più terribili genocidi.