Rivista Anarchica Online
Al di là degli slogan
di Gianfranco Bertoli
Con questo stesso titolo è
apparsa sullo scorso numero una presa di posizione redazionale.
Approfondendo e sviluppando quegli spunti, il nostro collaboratore
Gianfranco Bertoli - dal carcere di Porto Azzurro, dove sta scontando
l'ergastolo - analizza alcuni aspetti della questione palestinese,
senza nulla concedere ai luoghi comuni ed alla retorica trasmessi dai
mass-media e fatti propri da tanta parte della "sinistra".
Indipendentemente dalle bandiere che
vengono sventolate, dagli slogan che vengono gridati e perfino al di
là della spontaneità o della eventualità di
possibili strumentalizzazioni, ogni esplosione di moti popolari e di
forme collettive di protesta rappresenta la prova della sussistenza
di un malessere sociale diffuso, che ha le sue radici in problemi
reali. L'ampiezza di tali fenomeni, così come il grado di
combattività di chi vi partecipa e la decisione nel
persistervi anche di fronte alla brutalità di una repressione
violenta, offrono adeguati criteri di valutazione in merito alla
gravità dei problemi che ne sono all'origine ed al livello di
rabbia e di frustrazione collettiva per la loro mancata soluzione. Di per sé stessi, per il fatto
di verificarsi e per la decisione con cui vengono portati avanti,
tali episodi dimostrano tutto questo, ma anche solo questo.
Dalla portata del coinvolgimento popolare e dalla maggiore o
minore durezza della reazione repressiva, poco o nulla, invece, è
possibile dedurre sulla validità degli obiettivi perseguiti.
Un illuminante esempio, tra i tanti che potrebbero venire citati, è
quello dei cosiddetti "fatti di Reggio Calabria", al
principio degli anni '70, quando elementi sobillatori di aperta e
dichiarata ispirazione fascista, facendo leva su di una situazione di
diffuso e legittimo scontento, ebbero facile gioco nello scatenare
una vera e propria rivolta popolare, di lunga durata, e ad
egemonizzarla, indirizzandola verso il pretestuoso e insulso
obiettivo della conquista di un futile primato regionale. Sul piano del significato reale che è
possibile attribuire ad una protesta popolare e dell'individuazione
dei contenuti e delle implicazioni, di ben poco aiuto possono essere
gli aspetti spettacolari e la drammaticità degli avvenimenti. Questo vale anche per i drammatici
eventi di Gaza e di Cisgiordania, dove la protesta palestinese è
venuta a scontrarsi con la pesante repressione del governo di
Gerusalemme, col conseguente verificarsi di ripetuti e durissimi
scontri, nel corso dei quali le truppe israeliane di occupazione
hanno sparato ed ucciso. Non vi è alcun possibile dubbio
sul fatto che le condizioni di vita nei campi dei rifugiati
palestinesi siano terribilmente amare e su quello che una situazione
del genere, e che si protrae da decenni, renda più che
giustificato lo stato d'animo e l'esasperazione di quella popolazione
e del tutto comprensibile la sua protesta e la sua rivolta. Un po'
meno ovvio, però, dedurne che siano giusti anche gli indirizzi
e gli obiettivi immediati di quelle lotte e sia condivisibile
l'atteggiamento di chi le conduce, sul piano della individuazione
delle cause e delle responsabilità che sono all'origine della
situazione contro cui quelle popolazioni si ribellano. Né può
facilmente dirsi se, e in quale misura, l'eventuale successo,
l'ottenimento cioè dello sgombero di quei territori da parte
delle truppe occupanti, determinerebbe un reale miglioramento della
situazione in cui versano gli abitanti (e, più in generale,
contribuirebbe ad una soluzione del "problema mediorientale",
nel senso di favorire un processo di pace in quell'area) o se, al
contrario, potrebbe finire col rivelarsi come un primo passo verso
una nuova guerra, dall'esito incerto e, comunque, molto sanguinosa
per tutti, destinata a lasciare strascichi ancora più
dolorosi. Non è mai facile analizzare
obiettivamente le cause dei mali che ci si trova a dover sopportare
ingiustamente. Ancora più difficile quando, come nel caso dei
palestinesi più giovani, tutto ha avuto origine prima ancora
che nascessero. Quasi impossibile, poi, quando si viene sottoposti,
fin dalla prima infanzia, al martellamento propagandistico di una
retorica faziosa e sorretta dalla narrazione di ricostruzioni
storiche fittizie. Che chi si trova nel bel mezza della lotta, ha
visto cadere dei compagni e si sta battendo con un coraggio che
sfiora l'eroismo, sia certo di essere nel giusto e che egli ritenga
la sua una "buona causa", è cosa naturale e
scontata. Non è, però, dall'onestà, dalla
sincerità e dal coraggio dei protagonisti di una lotta che si
possono ricavare delle conclusioni sulla validità degli
obiettivi perseguiti. Talvolta (e così è,
probabilmente, anche in questo caso) può essere facile
avvicinarsi alla comprensione del senso di certi avvenimenti se si
evita un eccessivo coinvolgimento emotivo e se si cercano di prendere
in considerazione i loro effetti indotti, sul piano delle reazioni e
delle prese di posizione esterne, più che cercare di seguire
lo svolgimento materiale dei fatti, attraverso i resoconti
giornalistici.
I mille volti dell'antisemitismo
Per quanto concerne tali reazioni,
dirò subito che i timori espressi da qualcuno del possibile
riemergere di atteggiamenti antisemiti, come conseguenza indiretta
della campagna propagandistica di sostegno alla causa
arabo-palestinese, mi sembrano quasi commoventi per la loro
ingenuità. L'antisemitismo non rischia di rispuntare a causa
degli attuali avvenimenti e del modo in cui vengono riferiti, per la
semplice ragione che esso è già presente, probabilmente
più radicato e diffuso di quanto, almeno in Italia, sia mai
stato prima, mentre l'attuale ondata di ostilità
antiisraeliana che prende spunto dai fatti di Gaza e della
Cisgiordania, non ne è tanto una potenziale causa di
riapparizione quanto un sintomo ed un effetto. Quale altra spiegazione trovare alla
apparente superficialità e faciloneria con cui si fa ricorso,
tanto frequentemente e a sproposito da inflazionarli e snaturarne il
significato, a termini come ,"genocidio" e "deportazione"?
A che cosa attribuire, se non ad una sottile, subdola (e magari
inconscia) forma di antisemitismo, il fatto che, in ogni circostanza,
nel giudicare i comportamenti di Israele e le eventuali malefatte dei
suoi governanti, venga sistematicamente fatto ricorso ad un metro ed
a criteri morali che non vengono mai fatti valere nel giudicare
nessun altro paese della stessa area geografica? Certo, l'antisemitismo contemporaneo
assume aspetti e linguaggi molto meno grossolani di quelli
dell'antisemitismo tradizionale. Ma questo è solo il sintomo
del fatto che ha contagiato lettori ed aree politico-ideologiche che
prima ne erano immuni. Adesso vi è anche un antisemitismo di
"sinistra". In questa sua versione esso non si
autodefinisce più esplicitamente, assumendo invece l'etichetta
di "antisionismo", cerca di nobilitarsi attraverso
l'aggancio a tutta una serie di vocaboli tratti dal bagaglio
culturale della sinistra, come "antimperialismo",
"anticolonialismo", ecc... Respinge sdegnosamente l'epiteto di
antisemitismo ricorrendo ad una argomentazione, di tipo sillogistico,
apparentemente ineccepibile e che può venire formulata così:
"Noi siamo contro il sionismo perché siamo a favore dei
palestinesi; ora i palestinesi sono degli arabi e tutti gli arabi
sono dei semiti; quindi non possiamo essere certo degli antisemiti".
Argomentazione formalmente rigorosa, ma che si configura in una
classica "fallacia sofistica". Essa gioca, infatti,
sull'ambiguità semantica del termine "antisemitismo".
Poco importa, in questi casi, il significato letterale del termine,
rispetto a quello che ha sempre avuto, fin da quando è stato
coniato, nell'uso e nel riferimento estensionale pragmatico. La
parola "antisemitismo" è sempre e soltanto stata (e
rimane) sinonimo di "antiebraismo". Se così non
fosse, lo stesso Hitler (che nel suo "Mein Kampf" esprimeva
molta ammirazione per gli arabi) non dovrebbe essere considerato
antisemita. E questo, francamente, mi pare un po' troppo! A scanso di equivoci, tengo a
precisare che, per quanto mi riguarda, pur ritenendola molto meno
aberrante e più giustificabile nelle sue motivazioni di altre
forme di nazionalismo, nutro anche per il sionismo la stessa
diffidenza che riservo a tutti gli altri movimenti di ispirazione
nazionalistica e a concetti come "patria" e "nazione".
Non ho, pertanto, la minima intenzione di pretendere di stabilire una
equazione tra l'ostilità al sionismo, in quanto movimento ed
ideologia, e l'antisemitismo. Quello, invece, di cui sono convinto è
che vi sono profonde connotazioni antisemite nella retorica
propagandistica e nelle distorsioni della verità storica,
attraverso le quali si cerca di "demonizzare" l'idea
sionista e a presentare questo movimento come espressione di un
colonialismo con aspirazioni imperialiste ed una congenita vocazione
ad aggredire ed opprimere altri popoli. Giacché la storia
recente viene spesso dimenticata ed ignorata assai più
facilmente di quella remota, sarà bene cercare di sgomberare
il campo da una grossa menzogna, che tutti sembrano prendere per un
dato di fatto ed una verità certa e scontata. Mi riferisco
alla mistificante leggenda secondo cui vi sarebbe stata, nel 1967,
una aggressione militare israeliana per appropriarsi di Gaza e della
Cisgiordania, sottraendole al popolo palestinese e assoggettandolo,
per rinchiuderlo nei famigerati "campi". In verità,
e anche se quella menzogna si è affermata e mostrano di
credere ad essa in buona fede i più giovani tra coloro che
sfilano oggi per le strade (magari dopo essersi avvolti la testa
nella "kefiah", quasi a voler imitare Lawrence d'Arabia o
travestirsi da "figlio dello sceicco") per imprecare contro
Israele e per bruciare bandiere con la "stella di David",
le cose non stanno proprio così.
Nel 1967 andò così
La guerra del 1967 non è stata
voluta da Israele, ma provocata dal dittatore egiziano Abdel Nasser
nel quadro del suo progetto di realizzazione di una grande "Nazione
Araba" e che passava per la preliminare eliminazione della
presenza ebraica in Palestina. Nel maggio del 1967 si era
ricostituita una certa unità dei paesi arabi attorno alla RAU,
con un rilancio del prestigio di Nasser; ne conseguì una
ventata di isterismo bellicista che fece rapidamente precipitare la
situazione. Fermamente convinto della raggiunta superiorità
militare e certo di avere l'appoggio degli altri paesi arabi, il
dittatore egiziano chiese all'allora segretario generale dell'ONU, U
Thant, il ritiro immediato delle forze dell'ONU stanziate da undici
anni alla frontiera israelo-egiziana. La ottiene subito e quelle
posizioni vengono immediatamente occupate da truppe egiziane e, a
Gaza, dall'Armata di liberazione della Palestina di Ahmed Shukairy.
Il 22 maggio Nasser annuncia la chiusura del golfo di Akaba alle navi
israeliane e a quelle di altri paesi dirette in Israele e che
"trasportino materiale strategico". Il 31 c'è la
riconciliazione tra Hussein di Giordania e Nasser e la firma di un
patto militare di azione comune. Le radio e la stampa di tutti i
paesi arabi si scatenano in quotidiani inviti alla "guerra
santa" e diffondono proclami e dichiarazioni ufficiali in tal
senso. Stretta dalla pressione militare degli eserciti arabi che la
circondano e minacciata di soffocamento per il blocco del porto di
Eilat e del golfo di Akaba, Israele non aveva altra scelta se non
quella di cercare di colpire subito e di spezzare l'accerchiamento.
Le tesi su chi abbia sparato per primo in quel 5 giugno 1967 sono
discordanti, anche se tutto sembra indicare che gli israeliani siano
stati i primi ad attaccare. Ma la questione è inessenziale,
perché non vi erano altre vie d'uscita. Fatto sta che,
costretta a combattere, Israele riuscì a rovesciare la
situazione strategica. Dopo avere, in sei giorni di guerra,
completamente distrutto le forze aeree dell'Egitto, della Giordania,
della Siria e Iraq, annientato l'esercito egiziano e inflitto una
dura sconfitta alla Legione Araba giordana e alle truppe siriane, gli
israeliani si trovavano ad avere occupato tutto il Sinai, la
Cisgiordania e le alture del Golan. In queste condizioni potevano sperare
nell'apertura di trattative di pace con i paesi vicini. Ma non fu
così. Proprio come dopo la guerra del 1948 si assistette al
rifiuto arabo di accettare la realtà di una sconfitta e ad una
ancora maggiore intransigenza e radicalizzazione nella posizione di
rifiuto della stessa esistenza dello stato israeliano. A questo punto
i governanti di Israele si trovavano di fronte ad un dilemma che
appariva irrisolvibile. Se da un lato, infatti, la conquista delle
nuove posizioni, alleggerendone il perimetro difensivo, miglioravano
la posizione strategica di Israele, dall'altro, l'inserimento di una
ingente popolazione araba all'interno dei suoi confini ed il trovarsi
ad avere ereditato il problema dei profughi arabi della guerra del
1948, venivano a complicare enormemente i termini politici ed etici
della questione.
Una riserva esplosiva
A differenza di quanto era, per
esempio, avvenuto per problemi analoghi rappresentati, alla fine
della seconda guerra mondiale, dai profughi italiani dalla Dalmazia e
dall'Istria e per gli oltre due milioni di tedeschi dei Sudeti che
erano stati espulsi dalla Cecoslovacchia, non vi fu alcun tentativo,
da parte dei paesi arabi che avevano scatenato la guerra del 1948, di
risolvere il problema dei profughi, né nel senso di una
assimilazione, né in quello di dare loro la possibilità
di costituire uno stato autonomo nei territori sotto il loro
controllo. Questi esuli furono invece confinati in campi, spesso mal
tollerati ma anche tenuti in gran conto in qualità di riserva
esplosiva nella prospettiva di una rivincita militare su Israele e
come area e materiale umano di reclutamento per le diverse
organizzazioni di resistenza e di guerriglia, variamente
sponsorizzate dai differenti governi. Le ragioni dell'atteggiamento dei
paesi arabi in tutta la vicenda, a partire dall'intervento militare
del 1948 a tutt'oggi, possono venire comprese solo se, andando oltre
le demagogiche e pretestuose affermazioni ufficiali, relative a
questioni di "aiuto fraterno" al popolo palestinese, si
tiene presente una caratteristica specifica che è all'origine
di tutte le manifestazioni del nazionalismo arabo. Questa
caratteristica è quella di essere sempre stato legato, pur nel
quadro di frequenti e reciproche contrapposizioni, all'idea di
ricreare quella struttura politica mondiale in cui era fiorita, in
secoli lontani, la loro antica civiltà. Già Ibn Alì
al Husayn , negoziando con l'Inghilterra le condizioni per la rivolta
araba contro la Turchia, aveva chiesto la costituzione di uno stato
arabo unitario, comprendente la Penisola arabica, la Siria, la
Palestina, la Giordania, il Libano e l'Iraq. Da allora, pur mutando
di volta in volta i personaggi ed i paesi che ne diventavano il punto
di riferimento contingente, il sogno di una grande "Nazione
araba" unitaria ha continuato a venire accarezzato e coltivato.
Da qui il ruolo, involontario, di elemento unificatore, in quanto
obiettivo verso cui è possibile riversare l'ostilità
collettiva, assunto dallo stato ebraico. Da questo, anche, la
necessità di tenere sempre vivo e di esasperare con ogni mezzo
il problema dei profughi palestinesi. In questo contesto, la situazione in
cui sono venuti a trovarsi i differenti governi israeliani, rispetto
alle decisioni da prendere sulla sorte dei territori occupati, non
può non essere apparso loro che come un dilemma senza
possibile soluzione. Abbandonare quei territori senza la
contropartita di un accordo di pace che offra certe garanzie,
vorrebbe dire tornare al punto di partenza e restituire a dei nemici
dichiarati delle basi avanzate per futuri attacchi. Restare
indefinitamente ad occupare quei territori per annetterseli, vorrebbe
dire trasformarsi progressivamente in un paese di tipo "fascista"
sul modello sudafricano. Facendo questo, oltre a porsi in
contraddizione con tutti i suoi principi originari, con la possibile
conseguenza di un disfacimento interno dovuto alla non-accettazione
di parte della grande maggioranza della stessa popolazione ebraica di
una simile involuzione, lo stato israeliano si troverebbe come già
ha cominciato a verificarsi, a dover fare i conti con l'isolamento
internazionale e con l'insofferenza, la protesta e le rivolte
continue della popolazione araba della Palestina.
La fine del sogno
Purtroppo, nonostante le ottimistiche
previsioni dei suoi precursori e l'effettiva buona volontà dei
suoi realizzatori lo stato israeliano è nato male. Non poteva
probabilmente, essere diversamente, perché il sionismo è,
pur sempre, stato un fenomeno nazionalistico e tutti i nazionalismi
hanno lo stesso destino, quello di dare origine, se vincono, ad uno
stato che non potrà che essere analogo a tutti gli altri, non
potrà che essere, seppur in maggiore o minore misura, che un
oppressore e trovarsi sempre a scontrarsi con nazionalismi
contrapposti. D'altra parte, al di là di una comunanza di
intenti relativamente alla costituzione di una società ebraica
in Palestina, il movimento sionista non era mai stato unitario
rispetto alle forme che avrebbe dovuto assumere tale entità
nazionale. La visione che ne avevano i primi "kibbutznikim"
oppure quella del progetto di Martin Buber, per la creazione di uno
stato binazionale federato arabo ed ebraico con assoluta parità
di diritti, erano del tutto diverse da quella caldeggiata dalla
frazione di destra dello schieramento sionistico che era capeggiata
da Vladimir Jabotinsky. I rapporti con la popolazione araba
furono molto differenti nei diversi periodi, e influenzati anche dal
tipo e dagli orientamenti delle diverse ondate immigratorie. Tanto
per fare un esempio, il consolidarsi in Polonia della dittatura del
maresciallo Pilsudsky e le misure antiebraiche del suo ministro
Grabski determinarono, a partire dal 1924, una ondata immigratoria
composta in gran parte da elementi della media borghesia e da
professionisti, che affluirono prevalentemente a Tel Aviv e ad Haifa,
che cominciarono così ad assumere rapidamente l'aspetto di
grandi città moderne. D'altra parte, già in passato e
contemporaneamente all'insediamento dei villaggi comunitari di
orientamento socialista a forti connotazioni libertarie, vi era stata
la costituzione di aziende agricole (per lo più finanziate dai
Rothschild) e di altre imprese commerciali e industriali di tipo
capitalistico, che facevano grande ricorso a manodopera araba
sottopagata. Tuttavia, anche se altamente
sfruttata, la manodopera araba trovava allettanti queste offerte di
lavoro che permettevano condizioni di vita più elevate di
quelle esistenti in tutte le altre parti dell'impero ottomano e ciò
aveva favorito un notevole aumento numerico della popolazione araba,
proveniente dai paesi vicini e che finì col considerarsi
palestinese. Piano piano e parallelamente alla formazione di una
entità nazionale ebraica, veniva a costituirsi una vera e
propria entità nazionale arabo-palestinese che prendeva
consapevolezza di sé. Il progredire della costruzione,
l'introduzione di idee e di principi moderni, il miglioramento delle
condizioni di vita e l'esempio del movimento nazionale ebraico, al
tempo stesso che risvegliarono fermenti ed aspirazioni analoghe
all'interno della minoranza intellettuale della popolazione araba,
suscitavano il timore ed il sospetto della classe dirigente composta
dai grandi latifondisti arabi. Si verificò una confluenza,
apparentemente paradossale, nell'ostilità verso gli immigrati
ebrei, che si concretò in sentimenti xenofobi, alimentati da
fattori di contrapposizione religiosa. L'anno della svolta decisiva fu il
1929, quando prendendo spunto da una controversia circa l'accesso al
"Muro del pianto", l'eccitazione della popolazione araba,
istigata dalla propaganda del Gran Muftì di Gerusalemme, Hai
Amin el Hussaini (ambigua figura di capo religioso e ricco
proprietario terriero che, dapprima legato agli interessi britannici,
doveva poi intrattenere rapporti strettissimi con il nazismo, fino a
rifugiarsi nella Germania di Hitler dopo il fallimento della
insurrezione filotedesca in Iraq, e che doveva poi venire salvato dal
dover essere processato a Norimberga per intercessione di De Gaulle),
si scatenò in una serie di attacchi contro numerosi centri
ebraici che provocarono molti morti e feriti da entrambe le parti.
La fine del sogno di poter arrivare ad
un accordo di convivenza pacifica tra le due comunità, però,
fu determinato dall'esplodere, nell'aprile del 1936, della grande
rivolta araba che durò fino all'autunno del 1939, sotto la
guida del siriano Fauzi Kawukgi. Fu allora che i villaggi ebraici
cominciarono a munirsi di recinzioni protettive e ad innalzare torri
di guardia, che si strutturarono militarmente le forze di autodifesa
dell'"Hagana" e che trovarono anche spazio le posizioni,
del tutto minoritarie e fino ad allora emarginate, degli estremisti
ebrei fautori della rappresaglia, anche indiscriminata. La comparsa
sulla scena dell'Irgùn Tzevaì Leumì e più
tardi della cosiddetta "Banda Stern", furono elementi che
contribuirono con le loro azioni terroristiche di rappresaglia
sistematica a scavare un solco ancora più profondo fra arabi
ed ebrei di Palestina e ad esasperare l'odio e i rancori. Il primo
episodio del genere, che ebbe un impatto sconvolgente per la sua
novità, si verificò il 19 aprile del 1936 quando, in
risposta all'uccisione nello stesso giorno di nove ebrei, vennero a
loro volta assassinati tre arabi, due uomini e una donna, nei vicoli
di Giaffa. Da allora, con alti e bassi a seconda
dei momenti, continuarono a verificarsi attacchi e rappresaglie,
attentati e violenze da tutte le due parti. Continuò anche
dopo la cessazione della guerra del 1948 (gli israeliani ebbero 405
morti e 589 feriti nel solo periodo dal 1950 al 1956, per attacchi
provenienti dalla zona di Gaza e dalla Cisgiordania) con
infiltrazioni dall'esterno e con attentati all'estero ad opera di
gruppi della guerriglia palestinese, e con le risposte di
rappresaglia israeliane.
Quel monito di Buber
Ora si è aperta una nuova fase
che vede la rivolta aperta, anche se per ora disarmata, delle
popolazioni arabe dei territori occupati e la repressione violenta
della polizia e dell'esercito di Israele. Da parte israeliana si
sembra decisamente avviati a dimenticare l'ammonimento rivolto da
Martin Buber nel 1929: "Ricordiamoci in che modo gli altri
popoli ci hanno trattato e come ci trattano ancora dappertutto, come
stranieri, come inferiori. Guardiamoci dal considerare e dal
trattenere quale cosa inferiore ciò che ci è estraneo e
non abbastanza noto! Guardiamoci dal far noi quello che ci è
stato fatto". Da parte araba, invece, si continua a
persistere nel sognare la distruzione totale dello stato ebraico,
sicché anche le attuali, e di per sé giuste,
rivendicazioni vengono portate avanti in nome dell'odio e
riconoscendosi in organizzazioni che hanno fatto della eliminazione
della presenza ebraica in Palestina la loro stessa ragion d'essere.
Un fenomeno preoccupante è quello che sta cominciando ad
apparire e consiste negli episodi (fino qui tenuti sotto controllo
dalle stesse truppe israeliane, ma fino a quando?) di gruppi di
civili ebrei armati che intendono affrontare direttamente i
manifestanti arabi e operare azioni di attacco nei confronti dei
villaggi abitati da palestinesi. Le poche note positive sembrano
essere, in questo momento, rappresentate solo dai segnali che vengono
da una parte (abbastanza consistente a giudicare dal numero di
partecipanti, oltre 100.000, alla manifestazione del 23 gennaio a Tel
Aviv, promossa dal movimento pacifista israeliano "Shalom
Akhshaw") della popolazione ebraica di Israele. Quelle prese di
posizione hanno, infatti, un significato che trascende quello
dell'invito al governo perché cessi la repressione nei
territori occupati e si decida a prendere in considerazione
l'opportunità di lasciarli. Se l'interlocutore diretto
apparente dei pacifisti israeliani è il loro stesso governo,
il discorso che cercano di portare avanti è destinato a
cercare un interlocutore diverso, e questi altri non è se non
la stessa popolazione palestinese di Israele e dei territori
occupati. Si tratta di una mano tesa che, se raccolta, può
voler dire l'inizio di una vera pace tra le due comunità. È certo che prima o poi, per
amore o per forza, Israele dovrà abbandonare Gaza e la
Cisgiordania. Ma il destino futuro dei due popoli dipende dal modo in
cui questo avverrà. Se sarà per imposizioni
internazionali o in seguito ad un inasprimento ulteriore dello
scontro, le cose non si fermeranno. Questo tipo di vittoria
incoraggerà a maggiori pretese i gruppi della guerriglia
palestinese e gli stati loro sponsorizzatori. Si riproporrà
l'obiettivo della distruzione degli ebrei di Palestina e vi saranno
nuove guerre sanguinose.
L'unica via un'utopia?
Sarebbe ben diverso se l'abbandono di
quei territori venisse imposto dall'azione comune del movimento
pacifista ebraico e di forze analoghe che dovessero trovare il
coraggio di sorgere anche in campo arabo. Una speranza che può
sembrare utopica e forse lo è, ma che è anche l'unica
possibile. Ed è questa soluzione che dovrebbe essere auspicata
anche da quei movimenti europei che dicono di sentirsi solidali con
il popolo palestinese e forse lo sono veramente, ma non riescono a
far meglio e a guardare un po' più in là che non sia
manifestare un insulso appoggio ad organizzazioni politico-militari
che non hanno mai nascosto di accarezzare sogni di rivincite belliche
e di vendetta.
"Disarmiamo i generali!"
All'indomani della "guerra dei
sei giorni" (giugno 1967), il settimanale anarchico Umanità
Nova (a. XLVII, n.ro 23, 17 giugno 1967) pubblicava in prima pagina,
sotto il titolo "Ora bisogna disarmare i generali", il
seguente "appello della Federazione Anarchica Italiana per una
pace sociale in Medio Oriente".
La Federazione Anarchica Italiana non
ha salutato la vittoria degli eserciti dello Stato d'Israele, ma oggi
esulta per la deposizione delle armi. La distruzione del popolo
d'Israele, vaticinata da dittatori e da monarchi medievali che
opprimono e sfruttano ignobilmente le fanatizzate popolazioni arabe,
non è avvenuta e non potrà mai avvenire, come non
l'hanno potuto le barbare legioni di Hitler. Ma la vittoria dei generali dello stato
d'Israele, poiché la ragione e l'umanità non hanno
potuto prevalere per impedire il sanguinoso scontro delle armi per
l'affermazione del diritto e della giustizia, non deve glorificare la
bruta violenza degli eserciti che, vittoriosi o sconfitti, sempre
preparano nuovi conflitti e approfondiscono il solco degli odi che
dividono i popoli fomentati da sordidi interessi privati, di stati,
di chiese. La vittoria di Israele non deve essere
quella dei generali, ma dell'umanità che vuole rinnovarsi e
rinnovare. Non deve consegnare ai rigurgiti del colonialismo
imperialista i popoli arabi indifesi, schiacciati, riversando su di
essi quelle "soluzioni finali" che i loro capi si
proponevano di riservare ad Israele. I trionfi militari non devono far
esultare i vecchi massacratori dell'OAS in Algeria e in Indocina, i
fascisti, i razzisti più arrabbiati, tutti compatti esaltatori
della "blitzkrieg" (guerra-lampo, n.d.r.) vittoriosa
del generale Dayan, preso a prestito quale vendicatore dei
colonialisti rimasti senza colonie. Per costoro, oltre tutto, battere i
paesi arabi significa vibrare un duro colpo al prestigio dello stato
russo in Medio Oriente e rendere così un servizio a Johnson
per la sua guerra personale in Vietnam. Domani si schiereranno, come già
nel passato, contro ogni tentativo di riunire in una moderna
Confederazione arabi ed israeliani per dissodare le aride sabbie del
deserto; insorgeranno contro l'affermarsi di una possibile convivenza
dei due popoli su basi sociali nel Medio Oriente e torneranno al
razzismo antiebraico, accusando Israele di fomentare la "sovversione"
del mondo arabo. L'opinione pubblica è sincera e
spontanea quando parteggia per il più debole e perseguitato –
e Israele appariva tale all'inizio del conflitto – e si esalta
quando Davide atterra Golia. Ma essa ha orrore anche per la strage
dei vinti e per le montagne di morti, uccisi dalle bombe al napalm in
Giordania, e dei villaggi distrutti. Gli anarchici respingono decisamente
ogni idea che si possa ricostruire una convivenza di arabi e ebrei in
Medio Oriente fondata sulla supremazia militare, sugli interessi di
stato e sui miti religiosi. Essi pongono alla base della loro
solidarietà le esemplari realizzazioni sociali del popolo
d'Israele, le sue collettività agricole, i "kibbutz",
che, fin dal loro nascere, gli anarchici hanno salutato quale
conquista del socialismo libertario. La gioventù che vive ed opera in
Israele non è che una piccola frazione della gioventù
ebraica sparsa in tutto il mondo, e che opera per un mondo migliore,
disertando le sinagoghe ed i miti religiosi del passato. Il popolo d'Israele dovrà essere
un popolo come tutti gli altri, operoso, intelligente, coraggioso ed
aperto al progresso sociale: questo sarà il suo genuino segno
distintivo, e non più la razza, la fede religiosa che rende
"santa" ogni guerra, ogni persecuzione, ogni isolamento,
ogni aggressione, che offre armi al cieco fanatismo di altri miti
religiosi. Questo è il significato della
solidarietà che gli anarchici hanno sempre dato e daranno in
avvenire al popolo d'Israele, anche in unione con i loro compagni che
vivono ed operano nei "kibbutz" o all'estero. Un messaggio sociale al mondo arabo per
aiutarlo nella sua lotta di liberazione dalla schiavitù
economica e religiosa, ben altamente nobile, è affidato al
popolo d'Israele, togliendo di mano ai generali una vittoria che, in
altro modo, si trasformerebbe in tempi non lontani in sconfitta e
causa di nuovi e più terribili genocidi.
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