Rivista Anarchica Online
Cari anarchici, parliamone
Mentre mi accingo a stendere queste
brevi note, fiocca tutt'attorno a me la consueta, annuale e
ritualista nevicata di auguri, più o meno sinceri, più o meno
ipocriti o dettati da "ragioni di stato", più o meno
"accalorati" o imbevuti di machiavellismo. La gente sorride, si scambia locuzioni
speranzose, si abbraccia, si bacia e dissimula con sapiente eleganza,
la perfidia che muove la mano dell'assassino che alberga in ognuno di
noi, pronta a stringere l'ansa del pugnale e ad affondare la lama
nella debolezza altrui. Naturalmente, in quest'orchestrale
preoccupazione per le sorti dei nostri simili, non manca l'apporto
delle principali voci politiche, che fanno il punto della situazione,
comparano e confrontano, rassicurano gli animi sensibili ed inquieti
e si autoincensano versando lacrimoni di gioia alla loro abilità di
piccoli intrallazzatori di casa nostra, di "trafficoni" di
poltrone, di "compromessari" da periferia povera. Si alza un "Alleluia" corale
alla meschinità beffarda, alla farsa casalinga e grottesca, che
caratterizza la scena politica italiana. L'87 è trasvolato verso i lidi della
memoria, ma è anno degno di entrare a pieno titolo negli annali
delle disfatte memorabili, delle "mazzate sulla capoccia"
di quel popolo bue che tristemente consuma sulle pagine dei
rotocalchi, attraverso le gesta di vip da quattro soldi, le ultime
briciole di quello che comunemente si ha l'ardire di definire dignità
di un popolo libero. Nell'augurio dei politici, si cela
l'auspicio che l'88 possa rinnovare il miracolo della presa per i
fondelli di quei 56 e rotti milioni di italiani, che ancora una volta
si possa consumare il rito della "sottrazione", con piena
licenza e approvazione dei più, arraffando l'arraffabile e stornando
lo stornabile. Ma non voglio dilungarmi oltre, nella filippica
triviale e penosamente banale del "governo ladro" che non
giova a nessuno, ma piuttosto, rilevare come l'87 abbia dato credito
in particolar modo, ad un establishment politico arroccato alle sue
seggiole come un naufrago alla sua zattera. Un establishment che ha
ridicolizzato, con eloquenza quanto mai esplicita, uno degli
strumenti superstiti di democrazia che ci erano rimasti: il
referendum. La raccolta di firme sulla caccia, sia
in ambito nazionale che regionale, è stata respinta e apertamente
osteggiata con motivazioni futili e cavillose; il referendum
sull'opzione nucleare con le sue parvenze di libera decisione del
popolo è stato svuotato, con subdole manovre, del suo autentico
significato; quello più specifico, relativo alla vicenda della
Farmoplant, addirittura annullato dall'infermità mentale di un TAR
che ha trasformato la vicenda in un assurdo: si tenga conto che il
70% dei cittadini di Massa, Carrara e Montignoso si era espresso per
la chiusura dello stabilimento inquinante e produttore di pericolosi
fitofarmaci. Ma si sa, la salute del singolo cittadino non è cosa
che lo riguardi: le ragioni dell'interesse hanno tutte l'autorità
per passarci sopra e a maggior ragione sui cadaveri. È
proprio in merito a quest'ultimo referendum, promosso a seguito di
un'attiva militanza del gruppo della Lega Ambiente locale affiancato
dagli anarchici di Massa e Carrara, che vorrei muovere alcune
riflessioni. Pur conoscendo l'esito della vicenda,
rimane il fatto che un momento importante di lotta ha potuto
concretizzarsi e ottenere, allargandosi fino a coinvolgere tutti i
cittadini, un riscontro a livello sociale e politico di rilievo. È
su questo aspetto, infatti, che vorrei sollevare un "j'accuse", sia pur amichevole, alle fila anarchiche. Dispiace sottolineare, difatti, la
strana diatriba che ha movimentato l'azione pre-referendaria in
quell'occasione, soprattutto alla luce del notevole impegno di parte
anarchica. Attivisti insostituibili e accusatori ferrei e precisi,
essi hanno tuttavia miseramente tergiversato, esternando in pieno
quell'insoluta contraddizione che investe la questione del voto, al
momento decisivo dell'azione. Da una parte, è ammirevole la
granitica intransigenza, l'incontaminabilità intrisa di pura
coerenza, ma d'altro canto, proprio in questo caso l'atteggiamento
rigido e "tutto d'un pezzo" ha mostrato con evidenza la sua
debolezza. Invischiati nelle pastoie
dell'ideologia, gli anarchici non hanno saputo cogliere gli elementi
positivi che si andavano delineando e con i quali l'intera vicenda si
sarebbe andata trasformando in successo. Forse, è più preciso dire
che l'intransigente applicazione di una lettura ideologica della fede
anarchica ha offuscato e limitato la lungimiranza strategica contro
quel "nemico" che fa della labilità organizzativa del
proprio avversario un appunto vincente. In effetti, quale senso ha
stringere alla corda l'interlocutore per poi lasciare indefinita la
questione? Scuoterlo alla base, metterlo in difficoltà, infastidirlo
nel suo percorso, denunciarne gli intenti perversi e la spietata
logica che lo muove non è sufficiente: bisogna inchiodarlo alle sue
responsabilità, ratificare le conquiste, demarcare con inchiostro
indelebile i limiti del suo agire. In questo compito gli anarchici
falliscono, drasticamente categorici come vogliono apparire. Non voglio inneggiare, sia ben inteso,
al compromesso, al patteggio, all'indispensabilità di trattare o di
entrare nella logica dei rapporti di forza: ben lungi da ciò! Non si può trattare con chi,
appropriatosi dei tuoi beni, vorrebbe dare una parvenza di legalità
al suo comportamento, invitandoti con condiscendenza al tavolo delle
trattative. Altresì, non voglio entrare in merito al rifiuto dello
strumento elettorale in genere e sulle motivazioni che lo
determinano, ma piuttosto sull'applicazione intransigente e
categorica del rifiuto, in qualsiasi situazione, di uno strumento, il
referendum, che permette di individuare e far esprimere ad una
comunità di individui la propria opinione e volontà con precisione. Il caso della Farmoplant, sembra
esemplificativo di come uno strumento agile e facilmente applicabile
quale è il referendum, possa raccogliere e rappresentare
un'importante espressione globale del parere della popolazione locale
su di un dato problema. Mi pare che siano proprio questi i
frangenti, il locale e il decentrato, in cui appare tutta la
versatilità e l'indispensabilità dello strumento referendario.
L'adozione del meccanismo di voto, in ambiti locali, su piccola
scala, per saggiare e rilevare l'autentica espressione della
collettività mi pare strada da perseguire, giacché permette a chi è
isolato o marginalizzato, a chi non ha le mani in pasta, a chi non è
ammanicato con nessuno, a chi non ha la voce grossa o a chi non
eccelle in capacità retoriche, di esprimere AL PARI Dl QUALSIASI
ALTRO il proprio parere. Se la linea ideologica e di coerenza
anarchica, pone una decisa bollatura sullo strumento elettorale o di
sondaggio d'opinione, è altresì vero, che in talune circostanze,
esso può rappresentare un valido ausilio per far esprimere fasce
altrimenti escluse dai meccanismi di potere esistenti, quali le
deleghe, gli interessi di parte, gli accentramenti decisionali,
ecc... L'indubbia valenza positiva desumibile
da un uso accorto dello strumento referendario e qui sottolineo
accorto intendendone l'applicazione su piccola scala per problemi
definibili in ambito locale e quindi soggetti ad un controllo più
agevole da parte della popolazione interessata, appare allora
evidente e vedrebbe auspicabile la sua adozione su ampio spettro
affinché, questioni altrimenti destinate a dibattersi nei giri
viziosi e verticistici dell'élite politica, abbiano modo di essere
patrimonio e responsabilità di tutti. Ricondurre, dunque, su quegli aspetti
di gestione sociale fondamentali e legati strettamente alla vita e
all'interesse di tutta la popolazione, il dibattito nelle strade e
nelle case d'ognuno. Attraverso questa democratizzazione
decisionale c'è il tentativo di incentivare, agevolare e focalizzare
la partecipazione dei cittadini ai propri fondamentali problemi
socio-politici, invalidando quel processo di "escamotage"
della volontà popolare che tende ad annullare l'impegno, la presenza
e la partecipazione di larghe fasce di popolazione ai problemi reali
di gestione. Lo svuotamento del potere, della
portata, e perché no della dignità di esprimere la propria
opinione, nonché la consapevolezza di una tale riduttiva
"minorazione" sono le condizioni ottimali per distogliere,
allontanare e far prevalere un atteggiamento sostanzialmente passivo
nei confronti di questioni che richiederebbero, invece, l'intervento
responsabile e ponderato della collettività nel suo insieme. Ciò che viene favorito dalle classi
dominanti, ieri come oggi - e ne sia testimone l'eterno ripetersi,
lungo la storia dell'umanità, del gioco di potere, dell'oppresso e
dell'oppressore, del forte e del debole - è l'esclusione, o più
sottilmente l'autoesclusione dal dibattito politico, scoraggiando la
partecipazione tramite meccanismi di delega, di accentramento, di
burocratizzazione. Le conseguenze di questo processo di
rottura e di assenteismo partecipativo sono, d'altronde, facilmente
riscontrabili, con maggior evidenza, nella scissione tra elettori e
eletti parlamentari, ma è pure individuabile agevolmente, anche se
in misura minore, tra il singolo cittadino e la propria
amministrazione locale. È rinuncia, da
una parte, a dibattere e a seguire l'andamento delle questioni di
gestione della vita del proprio territorio, e dall'altra
accentramento del potere decisionale sganciato dal vivo intervento
della comunità e con il quale entrano in lizza interessi privati e
influenze di parte. Opinione, da un lato, della gente
comune, che si arena nei locali pubblici e nei caffè, dove esprime
le proprie idee annaffiandole, un bicchiere dopo l'altro, insieme
alla coscienza della propria inutilità partecipativa, dall'altro
giochi di schieramenti, intrecci-intrallazzi, alleanze e tresche da
basso quartiere che danno ragione e potere decisionale ai delegati in
nome di una democrazia da Gran Guignol. La separazione reale e quasi palpabile
tra eletti e elettori, tra politica e quotidiano è un problema
d'oggi e si rispecchia proprio in quella crisi che investe tutte le
istituzioni e in particolare quelle politiche. Resta allora il fatto che, in
quest'epoca caratterizzata dal manifestarsi di drammatiche
contraddizioni, di disgregazioni delle classi tradizionali, dal
crescere di emergenze ambientali accompagnate dall'estraniazione di
masse sempre maggiori dalle logiche partitiche, s'impone un'opera
propositiva e di impegno volto al recupero di quella partecipazione
di ognuno di noi alle decisioni riguardanti lo svolgersi degli eventi
futuri. Ciò passa attraverso l'inderogabile
necessità di riconoscere il diritto di espressione di ogni
cittadino, ma ancora di più, nel rispettarne l'autorità del parere
senza nessuna discriminante. Solo se ciò avverrà, potremo sperare
che la responsabilità e la maturità del proprio agire e delle
proprie scelte quotidiane acquistino spessore e diventino
indispensabile bagaglio per un cambio di rotta, un freno e forse una
possibilità di salvare il salvabile. Se un movimento politico verde è
andato imponendosi oggi all'attenzione, è perché sono ravvisabili
in esso, e nel suo agire, quelle istanze, e perché no, quelle
speranze, che i grovigli di serpi in cui si sono trasformati i
palazzi della politica possano beneficiare di una ventata di luce e
di chiarezza, senza le quali sono destinati a diventare totalmente
staccati dalla realtà e dal tessuto quotidiano del popolo. Portare la politica fuori dai palazzi
o portarvi dentro le manguste, comunque sia la riconquista del luogo
politico e sociale ha come percorso obbligato la riscoperta delle
potenzialità democratiche che strumenti quali i referendum su
piccola scala sono in grado di offrire. È un mio auspicio che quanto detto
sopra possa essere di stimolo per una discussione sul tema anche in
ambiente anarchico al quale va tutta la nostra stima e apprezzamento
per il rigore politico manifestato e il contributo critico offerto al
movimento.
John Masnovo (Scarperia)
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