Rivista Anarchica Online
Anarchica
di AA. VV.
Il femminismo "rampante" degli anni '60 e '70 sembra aver ceduto il posto al femminismo "in crisi" degli anni '80. È questa, almeno, un'opinione largamente (anche se non unanimamente) condivisa. È una crisi strutturale o congiunturale? È l'esaurimento di un progetto e di un'impostazione o il passaggio ad una fase successiva, forse più matura? Il dibattito è aperto e s'impone la riconsiderazione di un ambito (quello della disuguaglianza sessuale) in cui le tensioni, nonostante la crisi, non si sono affatto acquietate, in cui la spinta al cambiamento dei modelli tradizionali rimane operante. Gli anni '80 hanno visto un progressivo e consistente aumento della partecipazione femminile alla vita politica e sociale, anche in quei movimenti sociali con tratti libertari che più vivamente e creativamente contestano lo status quo (i movimenti pacifisti, anti-nucleari, ecologisti, ecc.). La cosiddetta "crisi", dunque, non sembra aver congelato una ben più vasta, articolata, potente mutazione culturale che sta lentamente trasformando i tradizionali concetti di donna e uomo ed i ruoli sociali ad essi connessi. In questo contesto si sta sviluppando, in campo libertario internazionale, una riflessione sulla disuguaglianza sessuale. Tale riflessione - cui le promotrici hanno dato il nome Anarchica - prevede una molteplicità di momenti di incontro e di riflessione, prima tra i quali quelli di Milano (3/4 ottobre) e Lyon (30 ottobre / 1 novembre) annunciati in "Agenda" (pag. 18). A promuovere questi incontri sono il Centro Studi Libertari (Milano) e l'Atelier de Création Libertaire (Lyon). In queste pagine pubblichiamo, dopo una premessa del C.S.L., i riassunti delle relazioni che per questi primi due incontri hanno preparato Roberto Ambrosoli (Torino), Eduardo Colombo (Parigi), Rossella Di Leo (Milano), Maria Matteo (Torino), Franco Melandri (Forli) ed il Collettivo &Quot;Le Scimmie" (Milano).
Superare
l'impasse
L'idea di dedicare,
oggi, una ricerca al problema della diseguaglianza sessuale è nata
proprio dall'esigenza di uscire dall'impasse in cui si è
cristallizzato il "femminismo" (un termine ambiguo che
definiremo meglio), che sembra aver esaurito la sua carica
sovversiva. Ma se l'esaurimento
di un ciclo è palese, altrettanto palese è che il problema della
diseguaglianza sessuale rimane centrale sia all'interno della cultura
antiautoritaria, sia nella più generale cultura sociale (quantomeno
nel mondo occidentale). Prima di procedere,
è però necessario chiarire l'ambiguità contenuta dal termine
"femminismo". Con questo, infatti, si può intendere sia
quel vasto processo di mutazione culturale che ha visto le donne
protagoniste della più capillare rivoluzione di valori dell'ultimo
mezzo secolo, sia quel movimento, più o meno strutturato, che ha
coagulato le frange militanti del più ampio movimento sociale. Per non confondere
i due livelli, quando qui parliamo di femminismo, ci riferiamo al più
generale movimento sociale, mentre quando parliamo di "movimento
femminista" ci riferiamo al suo settore militante ed "ideologico". Questa distinzione
è utile per aver chiaro che quando si parla di "crisi del
femminismo", in realtà si sta parlando di crisi del movimento
femminista. Se quest'ultimo infatti si trova, per vari motivi, in un
vicolo cieco, il primo non ha smesso di operare (soprattutto a
livello micro-sociale) continuando ad erodere la tradizionale cultura
sessista ed i ruoli sociali che ne procedono, innescando una delle
più profonde mutazioni dell'immaginario sociale. Il percorso del
femminismo non si esaurisce dunque con il percorso del movimento
femminista, anche se va riconosciuto che quest'ultimo ne è stato a
lungo il centro motore. Tuttavia, l'accentuazione di alcune linee di
tendenza, tra loro divergenti e divenute prevalenti (anche se non
uniche), hanno irrigidito il movimento femminista su posizioni
(scarsamente condivisibili da un punto di vista libertario) che non
sembrano offrire uno sbocco soddisfacente alla domanda di mutazione
sociale. Molto
sommariamente possiamo identificare queste due tendenze principali,
da un lato, in una spinta ad integrarsi nella società gerarchica
ribaltando la sola diseguaglianza sessuale, e dall'altro, nel
separatismo, spesso con connotazioni lesbiche. Se la prima tendenza,
che privilegia una soluzione individuale (o "affidata") al
problema della diseguaglianza ha spinto il movimento su posizioni
francamente reazionarie, la seconda, di cultura più comunitaria e
antigerarchica, ha però proposto un femminismo riduttivo ed un
sessismo con pretese genetiche che è solo l'immagine speculare del
sessismo maschilista. Superare questo
impasse cui è giunto il movimento femminista è uno degli obiettivi
di questa riflessione, che si propone di partire dalla diseguaglianza
sessuale per arrivare ad una critica più articolata e globale della
gerarchia, superando l'angusto ambito di interessi cui una certa
cultura femminista aveva spinto l'analisi della diseguaglianza
sessuale. Il rifiuto di questa diseguaglianza, cioè, non deve essere
inteso come l'unico universo femminile ma piuttosto l'approccio
privilegiato per una comprensione più generale della società del
dominio, il punto di partenza per una più ampia visione egualitaria
dei rapporti sociali. Quello che viene
proposto non è dunque una riflessione di donne sulle donne (nel
senso restrittivo che tale definizione ha avuto in passato), ma
piuttosto una ricerca che, attraverso l'analisi di una delle più
importanti differenziazioni gerarchiche che compongono la struttura
del dominio, porti all'identificazione di un "femminismo"
che non sia unicamente "femminile", ma che aspira a
diventare patrimonio culturale di chiunque riconosca
nell'uguaglianza (e nella diversità) un valore fondante.
Centro studi
libertari (Milano)
Un bisogno di
differenza?
La riflessione
libertaria sulla condizione femminile ha ormai superato i confini
della contestazione sociologica del ruolo imposto alla donna in seno
alla famiglia e al processo produttivo. Partendo dall'esigenza di
rapporti egualitari tra i sessi, essa ha progressivamente ampliato il
proprio orizzonte, interrogandosi sulla legittimità delle
attribuzioni (comportamentali, "caratteriali",...)
considerate tipiche di ciascun sesso, fino a porre il problema della
natura della differenziazione sessuale, nonché dei rapporti di
questa con la creazione di una cultura della libertà. La differenziazione
sessuale, infatti, pur presentandosi tradizionalmente come di origine
"biologica", e quindi "data", è in realtà così
pesantemente infarcita di elementi culturali, così condizionata
dalle contingenze storiche e sociali, da far dubitare della sua reale
autosufficienza, della sua capacità di trovare in se stessa le
ragioni della propria esistenza. Di più, la critica femminista
radicale (libertaria e non) in questi ultimi anni ha frequentemente e
motivatamente sottolineato la relazione profonda che esiste tra
questa "cultura" del maschile e del femminile e la più
generale cultura del dominio, dell'autorità, della gerarchia,
mostrando come gli elementi identificativi intorno ai quali si
organizza la suddivisione degli esseri umani in maschi e femmine
siano sempre, storicamente, funzionali ad una qualche situazione di
"asimmetricità" sociale degli uni rispetto alle altre. Al
punto da far ritenere plausibile il sospetto che tale asimmetricità
si nasconda in ogni riconoscimento della rilevanza culturale della
differenziazione sessuale, e che ammettere la seconda equivale a
postulare implicitamente la prima. Così stando le
cose, la creazione di una cultura della libertà, o anche, più
semplicemente, il tentativo di praticare, qui ed ora, modelli
esistenziali coerenti con l'aspirazione a rapporti paritetici tra gli
individui, sembra passare inevitabilmente per la negazione della
differenziazione sessuale, rifiutando di accettarla in quanto
principio di identificazione personale. In sostanza, mentre in
passato il problema era semplicemente quello di "liberare"
la sessualità dai vincoli e dalle restrizioni impostale, oggi (più
consapevolmente, forse) ci si chiede quale sessualità sia
"compatibile" con l'esistenza liberata, quale sia il
comportamento che ci permette di sfuggire alla trappola della
ripetizione involontaria dei cliché del dominio e
dell'autorità. E nascono da ciò una serie di atteggiamenti che
ambiscono a prescindere dai modelli comportamentali iscritti
nell'ambito della differenziazione sessuale. L'omosessualità, la
bisessualità, non sono più "diversità" che domandano
"tolleranza", ma opzioni che rivendicano il rispetto dovuto
allo sforzo di essere coerenti con il rifiuto di un'identità
altrettanto funzionale al mantenimento della società gerarchica
quanto l'accettazione passiva del ruolo di produttori e/o
consumatori. E in fondo al percorso, si agita l'immagine
dell'androginia, come "forma" culturale finale di questo
processo di omogeneizzazione sessuale. Senonché, la
differenziazione sessuale sembra sopravvivere ad ogni dichiarazione
di guerra culturale contro di essa. Essa è pur sempre presente nella
scelta omosessuale, definendo i confini tra quanto è preferito e
quanto non lo è, e fornendo all'immaginario i connotati somatici del
partner ideale. E lo stesso può dirsi della scelta
bisessuale, il cui apparente agnosticismo è destinato a cadere, ove
si abbia il coraggio di considerare come esso si realizza "sul
campo". E anche quando sfreniamo la nostra fantasia ad
oltrepassare i limiti delle attribuzioni biologiche, non sappiamo
dare all'androginia altra rappresentazione che quella
dell'ermafroditismo, fisico o "spirituale" che sia. La
differenziazione sessuale continua ad essere il polo intorno a cui si
organizza l'immaginario della nostra sessualità, anche se può
cambiare la "valenza" culturale attribuita al riconoscimento
di tale differenziazione. E il problema
iniziale, se sia cioè possibile gettare le basi di una società di
liberi ed uguali mantenendo in vita il "senso" della
differenziazione tra i sessi, risulta complicato dall'insorgere di un
altro problema, che interviene a mettere in dubbio le soluzioni
troppo perentorie: è possibile una sessualità, quale che sia, che
faccia a meno del "senso" della differenziazione tra i sessi? A voler ben vedere,
però, questo secondo problema non è che un aspetto di un problema
più generale, che oltrepassa i limiti dei rapporti tra i sessi e
della vita sessuale degli individui, e pretende di andare a scavare
nell'intimo della nostra coscienza di esseri umani. È possibile una
cultura deII'indifferenziazione? Non è forse antitetica al
nostro bisogno, tutto umano, di identità, e quindi di
senso, e quindi di differenza? (E d'altronde, non è
proprio sul terreno della differenziazione che gli anarchici hanno da
tempo accettato di giocare la partita della libertà e
dell'uguaglianza, rifiutando di identificarla con quella
dell'uniformità?) .
Roberto Ambrosoli
La donna e il
potere
L'universo
sacrale del politico è posto sotto il segno della Santissima
Trinità: il Potere, la Legge ed il Sesso. Tre simbologie differenti
ed una sola oppressione reale. È
al livello della riproduzione simbolica del potere che si collocherà
la nostra analisi. Nella dimensione istituente del sociale si
inserisce un elemento di dominio politico che è a nostro avviso un
corollario della divisione gerarchica dei ruoli sessuali. La
condizione femminile di dipendenza rispetto al potere
istituzionalizzato (politico) - una condizione che sembra
generalizzata a
tutte le culture e a tutte le epoche -
deve basarsi su qualcosa di più che non una semplice cospirazione
maschile o patriarcale.
È illusorio vedere
nella donna solo una
vittima sottoposta a sfruttamento: la condizione femminile risiede
tanto nella dimensione palese quanto nell'inconscio,
tanto dentro l'uomo quanto nella donna. Desiderare
la scomparsa di una situazione intollerabile è un primo passo,
che per lo meno indica una certa consapevolezza, ma è assolutamente
insufficiente, poiché questo desiderio è del tutto compatibile con
la riproduzione incosciente di quella stessa situazione. Un'altra
persistente illusione è quella di cercare l'"origine",
come se in essa ci fosse la chiave della soluzione futura e della
situazione attuale. "Là dove le cose iniziano la loro storia -
scrive Foucault - quel che si trova non è l'identità ancora
preservata della loro origine, ma la discordia delle altre cose, il
disparato". (Microfisica del potere, Einaudi, Torino
1971). Collocando
all'origine quell'elemento che la nostra situazione presente spinge
in primo piano, la logica circolare della coscienza mitica "fa
credere al lavoro oscuro d'una destinazione che cercherebbe di farsi
strada sin dal primo momento". (Ibidem). I dati
antropologici e le ipotesi connesse che utilizziamo non devono essere
riferiti a un qualche tempo remoto, "primitivo", preistorico,
bensì al corpus semantico delle rappresentazioni storico sociali
moderne. In realtà la struttura simbolica a partire dalla quale si
costituisce e si riproduce il potere politico o dominio
dev'essere vista come una forma significativa - o "blocco
immaginario" - di rappresentazioni attive che operano sia a
livello d'istituzionalizzazione della società sia a livello di
formazione del "soggetto" (della singola persona). Un
"blocco immaginario" legato all'evoluzione storica d'un
certo tipo di società e la cui supposta "universalità" è un
altro problema di cui non ci occuperemo in questa sede. Partiamo da
un'ipotesi generale: il Potere (potere politico o dominio) è
conseguenza dell'espropriazione, da parte d'una minoranza o gruppo
specializzato, della capacità simbolico-istituente propria
della totalità del sociale. Questa espropriazione non potrebbe
sussistere senza la propria riproduzione a tutti i livelli
dell'immaginario effettuale (o "blocco immaginario" come
l'abbiamo chiamato): miti, ideologie, credenze, religioni, paradigmi
interpretativi del mondo. Così, la
riproduzione simbolica del Potere s'organizza in funzione della
trasformazione della Regola - propria e necessaria all'ordine
simbolico - in Legge primordiale. Questa trasformazione è il
risultato di una articolazione contingente della Regola (elemento
universale e positivo della normatività, cioè dell'ordinamento
socio-istituente) con un tipo specifico di proibizione, che è in
realtà il negativo delle norme che regolano le alleanze nelle
strutture esogamiche: la proibizione dell'incesto, che è il
prototipo di ogni Legge. Se si considerano
le proibizioni "endogamiche" come prescrizioni di carattere
sociale che, lungi dal fondare l'ordine significante, sono riprese ad
altri livelli dell'istituito per perpetuare il potere politico, si
può considerare questa "incarnazione" della regola nella
Legge (seconda articolazione del simbolico) (Eduardo Colombo, Il
potere e la sua riproduzione, "Volontà" 2/83) come una
scelta, come un progetto sociale. Nella realizzazione
di questo "progetto" la metafora paterna si trasforma
nell'operatore simbolico generico che organizza la totalità del
campo della significazione. Il Padre, in quanto significante
inconscio, è il supporto della Legge e vieta l'incesto con minaccia
di "castrazione". In questo modo la
sessualità ed il Padre sono strettamente associati, amalgamati si
potrebbe dire, nella struttura del dominio, e
quest'associazione deriva da un modo particolare di legare filiazione
e scambio, generazioni e sessi, a partire da una stessa proibizione:
la proibizione dell'incesto. Tanto il concetto di "lignaggio"
quanto il concetto globale di scambio sono troppo generali per
spiegare l'asimmetria d'una relazione gerarchizzata. Per poterlo fare
bisogna introdurre una differenza specifica e riferirsi alla
proibizione dell'incesto. Per fondare il potere bisogna che una
gerarchia di status entri nel processo di filiazione e allo stesso
scopo bisogna che nello scambio entri una gerarchia dei sessi. La logica
strutturale dello "scambio" si basa sulla reciprocità.
"Come l'esogamia, anche la proibizione dell'incesto è una
regola di reciprocità". (...) "Il fatto che io possa avere
una donna è, in ultima analisi, la conseguenza del fatto che un
fratello od un padre hanno rinunciato ad essa". Claude
Levi-Strauss, Le strutture elementari della parentela,
Feltrinelli 1978). Però, palesemente, questa logica esclude la
donna. Questa logica esige che la donna occupi il posto di materiale
di scambio, cioè il posto di un bene, di un valore, di un segno, di
un simbolo. La relazione tra i due sessi è, così, radicalmente
asimmetrica. Il risultato di
questa struttura non è solo, come si potrebbe ritenere, la
supremazia del sesso maschile su quello femminile, ma anche e
fondamentalmente l'istituzionalizzazione di un principio di
gerarchizzazione globale della società. Il modello
strutturale - il paradigma di base - che resta inscritto in modo
implicito, latente o inconscio, dentro il "blocco immaginario"
della società contemporanea, a livello sia dell'istituzione sia del
mito o del "fantasma", potrebbe essere schematizzato nel
modo seguente:
FILIAZIONE (Gerarchia generazionale / status)
|
|
|
Dominante Padre ----- Madre
|
|
|
Scambio Uomo |
(Gerarchia sessuale) | Donna
|
|
Figlio ----- Figlia
|
| Dominato
|
Così, in questo
tipo di società gerarchica, il modello strutturale del dominio
marchierà ogni relazione asimmetrica con l'impronta
dominante-dominato.
Eduardo Colombo
Il luogo della
differenza
È proprio della
cultura attribuire significato alla differenza. Nell'ambito della
differenza sessuale, noi abbiamo ereditato dalla cultura patriarcale
(cioè da una cultura gerarchica che ordina ogni significato lungo
l'asse inferiore/superiore ) un' interpretazione di questa differenza
in termini di diseguaglianza. Superare il
concetto di diseguaglianza esige un'altra chiave di lettura sociale.
Il concetto di diversità (ripreso dal linguaggio ecologico)
consente appunto una lettura della differenza come molteplicità, una
lettura che attribuisce valore alla complessità ed alla multiformità
naturale e sociale, contro la semplificazione e l'uniformità
perseguite dalla logica del dominio. Il concetto di
diversità, oltretutto, amplia ed arricchisce il concetto di
eguaglianza sessuale, sviluppatosi soprattutto nell'ambito del
politico (come parità di diritti e doveri). Ed evita altresì il
pericolo, insito nel concetto di eguaglianza, di un'androginia
culturale che spingerebbe verso la soppressione della differenza:
questa, infatti, una volta estrapolata dal concetto perverso di
diseguaglianza ed interpretata positivamente come diversità, diventa
valore in sé. Ma qual è il luogo
della differenza? Qual è il suo nocciolo "irriducibile"?
Quanto vi è di determinazione biologica e quanto di interpretazione
culturale? Prima di tentare una risposta a questi interrogativi è
necessaria una distinzione concettuale e terminologica che serve a
dissipare un'ambiguità creatasi tra ambito biologico e culturale. In italiano il
termine genere ha un uso quasi esclusivamente limitato alla
struttura grammaticale invece di avere quel significato più ampio
(presente in altre lingue) di dualità sessuale con attributi
specifici. Il termine sesso,
al contrario, viene caricato di molteplici significati, di cui alcuni
rimandano al puro dato biologico, altri alle elaborazioni culturali
derivate dal primo. Questa coincidenza terminologica di aspetti che,
pur strettamente interrelati, non sono tuttavia sovrapponibili, ha
reso concettualmente ambiguo questo termine. Si propone quindi l'uso
di entrambi i termini, attribuendo a "sesso" i significati che
più direttamente rimandano al fattore biologico, ed a "genere"
quelli che invece rimandano più direttamente ai ruoli ed ai
comportamenti sociali. Partiamo
dall'ipotesi che la capacità culturale (ovvero ciò che costituisce
la specificità della specie umana) nasca nel momento in cui si forma
- nel senso che prende coscienza di sé - un'entità pensante che si
pone al centro di un processo cognitivo che rende intellegibile un
"tutto" sinora inconoscibile nella sua globalità. È
la comparsa dell'Uno in relazione al quale l'Altro assume
significato, un processo che pone nello stesso tempo le basi ed i
limiti della conoscenza umana. Non è ancora l'Uno che domina l'Altro
nella relazione soggetto/oggetto propria alla società del dominio,
società dimidiata per eccellenza che moltiplica i binomi
contrapposti: natura/cultura, uomo/donna, ecc. È
ancora l'Uno che si sente parte integrante di un tutto che non è più
"ammasso" inconoscibile ma rete di interrelazioni
intellegibili. Da questo tutto con cui interagisce (niente affatto
percepito come inanimato ma percorso da un flusso costante di
energie), la specie mutua molte delle forme sociali che andranno ad
occupare lo spazio lasciato libero dalla natura (cioè dalle
determinazioni genetiche) e che la cultura deve organizzare. In questo processo
di codificazione simbolica determinato dall'emergere dell'Uno (e
dell'Altro) la prima "irriducibile" differenza, riscontrata
in natura e applicata al sociale, è quella sessuale, che assunta e
mediata dalla cultura determina la nascita del genere. La differenza in
maschile e femminile è dunque alla base, informa, la cultura umana,
è la prima grande sistematizzazione del mondo. La successiva
definizione dei generi, pur non muovendosi subito nel senso di una
scissura nella specie umana, tuttavia si muove già nel senso di un
progressivo irrigidimento in ruoli, comportamenti e sensibilità
differenziate. Ancor prima che si affermi il dominio, dunque, si
verifica una prima istituzionalizzazione della differenza. Si può
forse avanzare l'ipotesi che la cultura umana nel proporre la
ripetizione sociale di ruoli e comportamenti propenda verso la
semplificazione e l'uniformità. Comunque proceda lo
sviluppo, a noi interessa ora sottolineare come l'immaginario stesso
della specie nasca sessuato, o meglio composto da due generi che
stanno tra loro in relazione di complementarietà. È una prima
fondamentale affermazione di differenza che tuttavia deriva da
un'identica capacità di produzione simbolica: il codice è unico per
tutta la specie. Trasformato il sesso in genere, questa prima lettura
del dato biologico ben rientra nell'ambito della diversità. Sarà la
successiva elaborazione culturale della differenza che,
cristallizzando i generi in modelli rigidi, si muoverà nel senso
opposto al principio di diversità, perché non terrà conto che la
molteplicità esiste anche all'interno dei generi e non solo
tra i generi. Su questa prima frattura, la società gerarchica
inserirà facilmente il suo attacco alla molteplicità
"ingovernabile", trasformando la diversità in
diseguaglianza e la dualità in dicotomia. In questo processo
di elaborazione culturale della differenza molte delle forme sociali
vengono mutuate dal mondo naturale. Si sviluppa cioè un processo di
imitazione culturale della natura (ed in particolare
degli animali sociali) da cui vengono tratti molti dei ruoli e dei
comportamenti attribuiti ai generi. È possibile che anche la
tendenza alla perpetuazione di questi ruoli e comportamenti - che
abbiamo prima ipotizzato come una possibile propensione della cultura
umana - venga anch'essa mutuata dalla natura, perché se è vero che
l'ordine generale della natura è improntato alla diversità ed alla
complessità, l'ordine particolare prevede la ripetizione ciclica o
istintuale, che poi ritroviamo nell'ambito umano. Cerchiamo adesso di
individuare dove passa la differenza "irriducibile" tra i
generi. Alcune delle correnti femministe che più hanno riflettuto
sulla questione (e fieramente opposte all'ipotesi di una cultura
androgina) sembrano porre il luogo della differenza ai due estremi
dell'arco ideale tra cultura e natura. La corrente che propugna il
pensiero sessuato sembra addirittura porlo a livello della capacità
simbolica, mettendo in dubbio l'esistenza di un unico codice per i
due generi. In tal caso non di generi si tratterebbe bensì di
specie, simili ma diverse. Ma l'"indicibilità" da
parte delle donne del linguaggio maschile - come loro affermano - non
tiene conto della profonda differenza che c'è tra il linguaggio come
codice della specie ed i linguaggi come insieme di regole e valori
espressi dalle diverse culture storiche (come quella patriarcale).
Questo esser "mute" delle donne non è quindi l'indicatore
di una diversa capacità simbolica, in quanto tale capacità si situa
molto più a monte del linguaggio "maschile". Altre correnti
(come il cosiddetto femminismo "culturale" americano o la
parte meno sofisticata dell'eco-femminismo) pongono invece il luogo
della differenza nuovamente nell'ambito della natura. Le
determinazioni biologiche, e dunque il sesso, condizionano il
comportamento sociale del genere e non viceversa. Vengono anche
dualisticamente riproposti i classici binomi donna/uomo,
natura/cultura con i classici abbinamenti ereditati dal patriarcato
ma con valenza però capovolta. Su questa base "naturale"
viene poi sviluppato un discorso culturale fortemente condizionato
dal dato biologico: un revival in chiave femminista della
socio-biologia. A nostro avviso,
invece, lo spazio della differenza è altrove, in quella fascia
mediana tra capacità simbolica e dato biologico che è lo spazio
dell'interpretazione culturale. Da una parte infatti abbiamo
l'unicità della specie ed una capacità simbolica che precede il
genere ma che lo riconosce nel momento stesso in cui si forma il
codice simbolico. Dall'altra, c'è il "semplice" dato biologico la
cui influenza nella formazione del genere rimane "muta" se
non viene trascritta in termini culturali. Tra questi due poli,
nell'ambito cioè in cui ruoli, comportamenti e sensibilità assumono
significato e valore, si situa la differenza "irriducibile",
essendo questo l'ambito della complessità e della multiformità in
cui la differenza è valore in sé. Certamente questo è anche
l'ambito in cui si sono prodotte l'istituzionalizzazione della
differenza, l'uniformità all'interno dei generi, la trasformazione
della dualità in dicotomia e della diversità in diseguaglianza. Ma è anche
l'ambito della plasticità culturale della specie in cui l'unico
processo necessario è l'attribuzione di valori e significati mentre
rimane infinita la possibilità di interpretazioni diverse. È dunque
in questo ambito che dobbiamo operare per una riformulazione di
valori e significati alla luce di una cultura non gerarchica e per
una ridistribuzione di ruoli, comportamenti e sensibilità tra i
generi e nei generi che rispetti un principio di molteplicità e
complessità essenziale per una più ricca e articolata cultura
umana.
Rossella Di Leo
Una sfida
stimolante
Parlare di
femminismo libertario è, specie oggi, assai problematico, poiché
quel che si indaga è poco più di un'ipotesi e non un ambito teorico
e pratico già sviluppato. La storia dei rapporti tra femminismo ed
anarchismo è la storia di un appuntamento mancato. Tra gli anarchici è
prevalsa la convinzione che il femminismo non avesse nulla da dire,
perché l'anarchismo risolveva in una visione meno parziale e più
complessiva le stesse questioni. Queste posizioni rispecchiano la
mania idealistica di negare verità al particolare, se posto al di
fuori della dialettica con l'universale. Ciò è anche dipeso
dall'aver considerato il femminismo come un'ideologia, un che di
sostanzialmente omogeneo, mentre altro non è stato se non un insieme
eterogeneo di pratiche, esperienze e riflessioni volte a dare
presenza alla differenza sessuale. All'interno di questo magma è
possibile individuare elementi di un pensiero e di una prassi di
sicuro interesse per i libertari. Penso ai piccoli
gruppi non gerarchici che negli anni '70 sono stati l'ossatura del
movimento ma soprattutto ai grandi dibattiti su natura e cultura, su
universale umano e particolare femminile, su identità e ruolo che
hanno posto le basi di un pensiero non totalizzante ma parziale,
plurimo, che esalta e non appiattisce le diversità individuali. Sinora il femminile
è stato pensato all'interno di un codice simbolico che colloca le
donne in posizione eteronoma. L'universale della cultura occidentale
è un'astrazione formalmente asessuata ma in realtà maschile, che
pretendendo di assimilare (ossia di far simile a sé) il femminile
semplicemente lo esclude. Il dominio non è
indifferente alla sessualità: questa non è un quid che vi si
aggiunge per determinarlo; dominio e dominio maschile sono
cooriginari (in senso logico, non storico). La capacità del dominio
di controllare la parola, di definire, fa sì che il femminile non si
dia altro che come carenza come mancanza, come di meno in rapporto
alla totalità che il dominio definisce con la sua stessa presenza.
Tuttavia in tal modo il femminile non sfugge in alcun modo al
dominio, ma diviene elemento di negatività intorno al quale esso può
giustificare il proprio intervento. Il femminile è in rapporto con
il maschile come il vuoto con il pieno, il debole con il forte,
l'irrazionale con il logico, il naturale con il culturale. Il
femminile non dice quel che è, ma quel che non è. L'anarchismo, nel
negare il dominio, capovolge lo schema ma non lo supera. Esso pone le
basi per un superamento della differenza come disvalore, ma non
sempre riesce a creare le condizioni per cui le singole differenze
trovino i luoghi della propria valorizzazione. L'anarchismo, così
come il femminismo, è a pieno titolo figlio della nostra epoca. La modernità,
infatti, si apre con la richiesta di autonomia di un individuo che è
e si vuole libero, perché, scioltosi dalle pastoie della tradizione
e della religione, si identifica con l'universalità della ragione.
Caratteristica di un tale individuo è la disponibilità, una
disponibilità indispensabile in una società in cui la posizione dei
singoli dipende da un contratto e non dalla volontà divina. In tale
contesto il femminile diviene elemento di contraddizione, poiché
definisce un ambito, quello privato, che si pone al di fuori del
contratto. Il femminismo nasce
da questa contraddizione ma non sempre la supera, poiché si dibatte
fra la velleità di affermarsi all'interno della società
(eguaglianza di diritti - doveri) e quella di ribadire un'identità
femminile la cui definizione risulta oltremodo problematica. D'altro canto anche
l'anarchismo si è mosso nel solco aperto dall'illuminismo,
privilegiando la distruzione del passato rispetto alla costruzione
del presente. L'amore per la libertà, l'uguaglianza e la differenza
si è tradotto nel progetto di edificazione della società futura. La
tensione verso l'avvenire ha posto in secondo piano i problemi del
presente nella convinzione che, eliminate le strutture del dominio, i
singoli avrebbero "spontaneamente" espresso la propria
personalità. Tale atteggiamento si motiva allorché si pensa che la
"libertà da" coincida con la "libertà di".
Tuttavia nessuno di noi è una tabula rasa, ma si colloca in uno dei
possibili punti di intersezione nella griglia dei codici che
costituiscono la cultura in cui nasce. Tenendo conto di
ciò, quindi, un percorso di liberazione non può prescindere di
investire il dominio alle sue radici, che affondano in quel che
siamo, vogliamo, desideriamo. L'identità sessuale, maschile o
femminile che sia, è quanto di più simile alla natura è stato
prodotto dalla cultura, poiché investe l'individuo nella sua
interezza. Ciascuno di noi nel
corso della propria esistenza assume ed abbandona parecchi ruoli che,
di volta in volta, possono essere fortemente identificanti ma sono
comunque vissuti come libere scelte. L'identità sessuale ci
accompagna per tutta la vita e la dicotomia tra il maschile ed il
femminile è tale da non consentire passaggi, transiti, intersezioni.
Riprova di ciò è la condizione degli omosessuali, per i quali il
rifiuto dell'identità sessuale "naturale" implica spesso
il tentativo di assumere quella opposta. È
a questo punto forse possibile definire il femminismo libertario come
teoria e pratica della liberazione degli individui. Là dove
l'individuo non è un punto di partenza ma un punto d'arrivo. Sinora
anche per gli anarchici l'individuo è stato un segmento
indistinguibile dagli altri, un'astrazione, non una persona reale. È
un percorso ineludibile ma molto gravoso, poiché quello che si tenta
di distruggere e quello che si cerca di costruire investono il
singolo in quello che più intimamente è. Il credere che gli
sfruttati, gli oppressi, gli umili, le donne, siano innocenti è un
pericoloso abbaglio, poiché non vi è forma di potere che non
dipenda da un certo consenso, o, quantomeno da un non-dissenso. Nel
femminile poi la dipendenza si fa complicità servile e la ricerca di
autonomia si scontra con un immaginario che non ci appartiene, ma la
separazione dal quale implica una lacerante perdita di identità. Assai difficile è
liberarsi dalle costrizioni che ci vengono dall'esterno, molto più
difficile è separarsi dall'immagine di noi che l'educazione ci ha
dato e che oggi intimamente siamo. Una società senza stato, padroni,
istituzioni coercitive genera un forte sgomento, una grande
incertezza, ma ancor più forte è lo sgomento, ancor più grande è
l'incertezza quando l'individuo non appare come una sostanza da
liberare ma come un'ipotesi da costruire. Si tratta comunque di
un'ipotesi affascinante, di una sfida stimolante per un anarchismo
che si ponga quale fulcro di una cultura della libertà.
Maria Matteo
Ruolo sociale e
libertà
In anni recenti il
movimento femminista è stato, probabilmente, quello che ha più
preso in esame la problematica del "ruolo sociale", giungendo in
genere (soprattutto nelle sue espressioni più rivoluzionarie e/o
libertarie) a rifiutare il concetto stesso di "ruolo" come
uno dei principali strumenti di perpetuazione di una società
gerarchica, oppressiva e appunto, ruolizzata, soprattutto
sessualmente. Senza voler negare validità a tali critiche (e
tralasciando la problematica della ruolizzazione sessuale) mi pare
però utile fare una piccola provocazione, cercando di dare risposta
alla domanda "è realmente possibile una società libertaria senza
ruoli sociali?" Tale domanda parte,
e trova il suo fondamento, in alcune delle caratteristiche
intrinseche al "ruolo sociale" ed in particolare a:
1) la capacità del
"ruolo" di contribuire alla "autoidentificazione"
del singolo e in quanto individuo con un proprio "valore sociale",
cioè con capacità e possibilità di influire nella vita degli altri
componenti la società. Da questo: 2) la possibilità
che l'appartenere ad un "ruolo sociale" dà ad ogni
individuo di avere una "forza contrattuale" nei confronti
degli altri, essendo così da essi riconosciuti come individui con
diritti e doveri, cioè dei "pari". Infine 3) la "prevedibilità
relativa", connaturata ad ogni ruolo, che permette di poter
contare su certi comportamenti sociali potendo così coordinare tali
comportamenti all'interno di un più generale "piano sociale". D'altra parte una
società libertaria abbisogna, a mio parere, di una discreta
prevedibilità nei comportamenti dei singoli; prevedibilità che può
essere assicurata solo da individui fortemente coscienti di sé, del
proprio valore sociale e della propria "forza contrattuale";
essendo così, fra l'altro, anche nelle migliori condizioni oggettive
e psicologiche per opporsi ad ogni possibile riemergere della
gerarchia e del dominio. Come si vede alcune
delle caratteristiche del "ruolo sociale" sono estremamente
funzionali (e, forse, addirittura necessarie) ad una società
libertaria. Questo potrebbe forse portare alla conclusione che non il
"ruolo sociale" in quanto tale è da rifiutare, quanto invece
la sessualizzazione e la gerarchizzazione fra di essi, cosa che porta
anche con sé la quasi-impossibilità (tipica delle società
autoritarie) che un individuo possa passare, nel corso della sua
vita, da un ruolo all'altro. In sostanza, è
forse possibile che una società libertaria possa essere tale e
funzionare mantenendo i ruoli socialmente utili (quindi eliminando
ruoli quali, ad es., il militare, il padrone, il manager, ecc.)
ponendoli però su un piano di effettiva parità (cosa questa
garantita dall'utilità sociale rappresenta da ogni ruolo) e mettendo
in opera meccanismi e possibilità per cui ogni individuo possa
passare, a seconda dei suoi desideri e delle possibilità sociali, da
un ruolo all'altro mantenendo inalterata la sua porzione di "potere"
ed il suo valore agli occhi degli altri. In questo senso, un
esempio di società non-gerarchica in cui i "ruoli"
rappresentavano un fattore di equilibrio sociale e di difesa contro
l'insorgere della gerarchia e del dominio, rendendo nel contempo
possibile una effettiva partecipazione di ognuno - maschio o femmina
- alla vita sociale ed al potere, può essere quello offerto dalle
società dei popoli nativi dell'America del nord e del Sud. Società
in cui la ruolizzazione degli individui, inserita in una rete
particolare di rapporti sociali, si accompagnava ad una notevole
possibilità di mobilità sociale ed alla mancanza di forme
gerarchiche.
Franco Melandri
Quei fili
sottilissimi
Lungo i mille
affluenti del rio Orinoco, nella vegetazione rigogliosa e nel caldo
soffocante della foresta amazzonica; risalendo il continente
americano verso il deserto dell'Arizona, attraverso le Grandi
Pianure, verso i laghi e le foreste del nord-ovest; più su, a
settentrione sui ghiacci della Groenlandia. E poi nel continente
nero, ai confini del Sahel, arido e assetato; tra le foreste
dell'Africa equatoriale fino a raggiungere, attraverso l'oceano
Indiano, e il mar della Cina, l'arcipelago trobriandese. Questo
l'itinerario (ma sempre più spesso si imponevano deviazioni verso
luoghi geografici e della mente ancora più sconosciuti e impervi)
del nostro viaggio immaginario, talvolta aiutate dalla macchina del
tempo, alla scoperta di popolazioni primitive e della loro cultura. Cinque anni fa,
quando abbiamo cominciato a incontrarci regolarmente, a studiare e ad
elaborare insieme impostando un lavoro di ricerca sull'immaginario
attraverso il confronto di varie culture (di cui una prima fase può
essere considerato l'articolo "Odissea nell'immaginario" su
Volontà n. 3/1986) certo non avremmo immaginato di continuare così
a lungo. Evidentemente il piacere è stato superiore alla fatica di
"lavorare" alla fine di una giornata di "lavoro per
vivere". Evidentemente abbiamo progressivamente scoperto non solo
che è possibile lavorare intellettualmente insieme ma
che è anche molto più divertente e produttivo (seppure più lungo)
per cui ci siamo trovate, senza accorgercene, cinque anni dopo, ad
avere tra le mani un lavoro che si è andato via via dilatando e
articolando ma che, per noi, continua ad essere innanzitutto
un'avventura della conoscenza. Non sappiamo cioè
se e quando lo porteremo a termine, né ci poniamo scadenze precise
(scherzando diciamo spesso che a 90 anni saremo ancora qui a
discutere animatamente tra sibili di dentiere). Non ci sembra così
importante. Mentre ci sembra importante il metodo di lavoro che siamo
riuscite a sviluppare e che ha permesso a tutte noi di "crescere"
come persone proprio attraverso il continuo confronto (e a volte
scontro) tra le nostre infinite diversità. Ma ecco, a grandi
linee, per ovvi motivi di spazio (chi volesse avere un'idea più
precisa può richiederci la scaletta dettagliata), il piano di lavoro
della nostra ricerca. Partite come dicevamo dall'esigenza di capire
l'origine del dominio attraverso lo studio di società "altre"
alla luce della asimmetria uomo/donna, siamo giunte un paio d'anni fa
a confermare una prima convinzione e cioè che non esista un
immaginario collettivo creato da uomini e donne, bensì un unico
immaginario androcentrico al quale le donne si sono adattate.
L'esistenza di un immaginario maschile e di sfere di competenze
separate non presuppone, nelle società altre, un giudizio di
valore/disvalore mentre questo si verifica nelle società statuali. Siamo quindi
ripartite da qui per individuare i fondamenti della nostra cultura:
abbiamo preso in esame il rapporto natura/cultura nelle società
tribali e in quelle statuali, i miti più ricorrenti (tra cui quello
della Grande Madre con le sue impronte positive o negative a seconda
del tipo di società), e la cultura greca con la nascita dello stato
e la contemporanea definizione filosofica della divisione tra eros e
logos. Ne abbiamo seguito i tortuosi percorsi evolutivi, l'innesto
della cultura ebraica e la mediazione del cristianesimo fino ad
arrivare al Seicento con la nascita della scienza moderna che si
caratterizza per una struttura maschile/femminile molto accentuata. Abbiamo poi
analizzato la filosofia alla luce del "maschile/femminile", e
la nascita, con Rousseau, del paradigma della donna "naturalmente
madre". Abbiamo seguito lo sviluppo del concetto di lavoro prima e
dopo la rivoluzione industriale con le sue valenze negative e
positive, e la collocazione della donna in questo campo fino ad oggi;
e inoltre abbiamo guardato con questa lente la psicanalisi, il
romanzo popolare, i fumetti, il cinema, la pubblicità, la
letteratura rosa. Insomma, abbiamo cercato di indagare in ogni
direzione e poi di collegare tutti i fili sottilissimi tra loro. L'ordito che ne è
risultato suggerisce che il nocciolo duro dell'immaginario attuale
non si discosta molto da quello di duemila anni fa, né sono cambiati
sostanzialmente i simboli fondanti della nostra cultura: logos/eros,
razionale/irrazionale, maschile/ femminile.
Collettivo Le
Scimmie
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