Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 17 nr. 148
estate 1987


Rivista Anarchica Online

A senso unico
di Paolo Finzi

Yankee go home! Se dovessi identificare uno slogan come colonna sonora della mia adolescenza, credo non potrei sceglierne un altro.
Yankee go home! L'abbiamo urlato per anni davanti alle sedi diplomatiche USA, alle basi militari NATO, in occasione delle visite in Italia delle autorità americane. Yankee go home! Dalla Bolivia. Dal Vietnam. Da Santo Domingo. No all'imperialismo USA! Johnson boia! E nei cortei si cantava tutti uniti "Gettiamo a mare le basi americane / Smettiamo di fare da spalla agli assassini".
La lotta contro la politica estera statunitense, contro l'intervento diretto o mascherato delle sue truppe e dei suoi servizi segreti (la famigerata CIA), è stato - soprattutto negli anni intorno al '68 - un elemento unificante, a livello mondiale, dei grandi movimenti di massa scaturiti in quel periodo. Di quei movimenti noi anarchici siamo stati parte attiva (ma non acritica).
Yankee go home! Per una fortuita coincidenza (abitavo allora con i miei genitori, sul lato opposto della piazza su cui si affacciava il Consolato USA), mi fu difficile in quegli anni perdermi anche una sola delle frequentissime manifestazioni antiamericane che attraversavano Milano e finivano inevitabilmente lì, sotto il grattacielo che ospitava la sede diplomatica USA. Anche se non ero sceso in piazza con gli altri all'inizio della dimostrazione, quando il corteo mi passava quasi sotto casa, prendevo il casco (allora non era ancora reato...) e pochi minuti dopo eravamo tutti a gridare la nostra rabbia antiyankee alle mura del grattacielo, alle forze dell'ordine che lo proteggevano ed ai passanti perlopiù scocciati. Salvo in caso di scontri, non andavamo nemmeno sul giornale.
Sono cambiati i presidenti alla Casa Bianca ed i governi "servi USA" in Italia, ma non è poi cambiato granché. Non c'è più il Vietnam, né Santo Domingo. Ma c'è il Nicaragua, c'è sempre Panama, c'è Timor, c'è il Cile. Ci sono le mille situazioni più o meno mascherate in cui gli USA la fanno da padroni. E poi c'è sempre la NAT0, e nel Pacifico la SEATO.
Insomma, il lupo statunitense ha certo modificato un po' il pelo, ma non ha perso il vizio di considerarsi e di comportarsi come "il gendarme del mondo libero".
Un contributo interessante per conoscere e comprendere i meccanismi che, soprattutto nell'intreccio tra potere politico e mass-media, presiedono alla (dis)informazione ed alla costruzione del consenso all'interno degli Stati Uniti verso questa politica neo-colonialista, è offerto dall'ultimo libro di Noam Chomsky Turning the tide, appena pubblicato in traduzione italiana dalle Edizioni Eleuthera (cas. post. 17025, 20170 Milano, tel. 02/2853950 ore 16-20) con il titolo La quinta libertà (pagg. 450, lire 22.000).
Chomsky, docente di linguistica al Massachusetts lnstitute of Tecnology, è stato, proprio negli anni '60 che ricordavo all'inizio, una figura di rilievo per la nostra generazione impegnata contro l'imperialismo USA, soprattutto nel Sud-Est asiatico. Il suo impegno, i suoi scritti, i suoi attacchi documentati alle varie amministrazioni USA, tanto più validi e clamorosi perché provenienti dall'interno dell'intellighenzia statunitense, ebbero il loro peso. Il fatto, poi, che nel suo I nuovi mandarini (pubblicato da Einaudi nel '69 e subito diventato uno dei testi-base del movimento di contestazione) un intero capitolo fosse dedicato alla ricostruzione dei fatti di Spagna del '36 -'37, con l'esplicita denuncia delle responsabilità dei comunisti staliniani e la valorizzazione del ruolo svolto dagli anarchici, ci fece ulteriormente sentir vicini a quel figlio di ebrei russi, immigrato come tantissimi altri, ma per niente disposto ad ingraziarsi il Potere con il silenzio e l'acquiescenza.
Negli anni '70, finita l'epoca del Vietnam, Chomsky ha continuato ad occuparsi oltre che, professionalmente, di linguistica - della politica estera americana. Ha scritto molti saggi ed alcuni libri. Ho letto qualcosa di questa sua produzione, provando disagio e disaccordo per quella che mi appariva sempre più una concezione monomaniacale, a senso unico "anti-USA". Quel che denunciava della politica estera di Washington mi appariva interessante, nell'insieme, ma l'assenza di dati e di valutazioni sulle altre forze politiche e potenze in gioco (prima fra tutte, l'URSS) mi pareva a dir poco fuorviante.
Qualche anno fa alcuni di noi ci eravamo incontrati con Chomsky (di passaggio da Milano): ma non c'era stato tempo per approfondire queste riflessioni. Al contempo, in un'intervista al Corriere della Sera Chomsky ripeteva la sua classica impostazione, aggiungendo una valutazione quasi entusiastica sul PCI.
Ora, la pubblicazione de La quinta libertà permette al lettore italiano di dissipare dubbi e perplessità sulla sua analisi e sulla concezione che la sottende.
Il libro - dicevamo - costituisce un valido (e molto documentato) strumento per andare al di là della propaganda di regime, più o meno mascherata, e identificare i meccanismi di costruzione e di regolazione del consenso dell'opinione pubblica per la politica estera di
Washington. Particolare attenzione viene dedicata alla situazione centro-americana, soprattutto al Nicaragua.
Chomsky si occupa anche del Sudest Asiatico (Vietnam, Cambogia, ecc.), del Medio Oriente, delle trattative sul disarmo. Al di là della documentazione - a volte interessante - ciò che lascia a dir poco perplessi è la concezione che sottilmente sottende il libro e ne costituisce il vero mastice: quella che vorrebbe gli USA comunque agenti del Male, con la speculare convinzione che chi si trovi schierato contro gli USA sia almeno in parte, forse inconsciamente, ma comunque oggettivamente dalla parte del Bene.
Il regime sandinista chiude d'autorità l'unico quotidiano d'opposizione? Per Chomsky non è poi gran cosa: La Prensa è notoriamente sovvenzionata dalla CIA, e allora... I miskitos sono stati strappati alle loro terre e deportati? Sarà, ma gli Americani con gli Indiani sono stati forse migliori? - si domanda il Nostro. I khmer rossi cambogiani hanno sterminato due milioni di concittadini (circa un terzo dell'intera popolazione)? Macché milioni - replica Chomsky - si trattava di migliaia: l'ha riconosciuto anche Lacouture (che per primo aveva parlato dei 2 milioni). E poi i khmer rossi sono stati spinti al "fanatismo totalitario" dalla "violenza americana" (i bombardamenti del 1970).
Ancora una volta per Chomsky i conti tornano subito: la colpa non può essere che degli USA.
Un intero capitolo è dedicato alle "trattative per il disarmo". Una farsa, un gioco truccato che ha per protagonisti due bari (USA e URSS). Ma per Chomsky l'importante è sottolineare la strumentalità e la falsità delle affermazioni dei negoziatori USA, presentati come la quintessenza dell'ipocrisia e della malcelata volontà bellicista - il che è, a occhio e croce, verisimile. Ma sul fronte opposto, silenzio. Peggio ancora: le proposte sovietiche vengono presentate sotto una luce di credibilità.
Leggendo certe pagine di Chomsky provo la stessa sensazione che mi procura la lettura del settimanale filosovietico Nuova Unità (quand'ero piccolo, era filo-cinese. Chissà fra 20 anni...): "la sincera volontà di pace dell'URSS" ecc. ecc.
Si potrebbe andare avanti, ma lasciamo perdere gli esempi, anche perché al di là dei singoli fatti è tutta l'impostazione del volume, è la tesi che lo sottende a spiccare per unilateralità. L'anti-imperialismo a senso unico che caratterizza La quinta libertà mi pare del tutto simile a quello che ha caratterizzato la sinistra italiana con particolare virulenza negli anni '60 e '70, per giungere - attenuato più dallo "svacco" che da una presa di coscienza critica - fino ai giorni nostri. Un anti-imperialismo che proprio per questa sua unidirezionalità perde gran parte della sua credibilità e finisce davvero - mi si perdoni il luogo comune - per "fare il gioco del nemico".
Se in qualcosa è valido il paragone tra l'opera di Chomsky e quella di Solzenicyn - proposto dagli editori sulla controcopertina - mi pare lo si debba ricercare nell'essere arrivato - per voluta cecità - a non vedere nell'altro imperialismo almeno una parte di quello spirito malefico e diabolico che con tanta lucidità si denuncia nel proprio imperialismo.
Yankee go home!, dunque. Ma con la stessa forza Russkij za dome! O Kabul vale meno di Managua?