Rivista Anarchica Online
A senso unico
di Paolo Finzi
Yankee go home!
Se dovessi identificare uno slogan come colonna sonora della mia
adolescenza, credo non potrei sceglierne un altro. Yankee go home!
L'abbiamo urlato per anni davanti alle sedi diplomatiche USA, alle
basi militari NATO, in occasione delle visite in Italia delle
autorità americane. Yankee go home! Dalla Bolivia. Dal
Vietnam. Da Santo Domingo. No all'imperialismo USA! Johnson boia! E
nei cortei si cantava tutti uniti "Gettiamo a mare le basi
americane / Smettiamo di fare da spalla agli assassini". La lotta contro la
politica estera statunitense, contro l'intervento diretto o
mascherato delle sue truppe e dei suoi servizi segreti (la famigerata
CIA), è stato - soprattutto negli anni intorno al '68 - un
elemento unificante, a livello mondiale, dei grandi movimenti di
massa scaturiti in quel periodo. Di quei movimenti noi anarchici
siamo stati parte attiva (ma non acritica). Yankee go home!
Per una fortuita coincidenza (abitavo allora con i miei genitori,
sul lato opposto della piazza su cui si affacciava il Consolato USA),
mi fu difficile in quegli anni perdermi anche una sola delle
frequentissime manifestazioni antiamericane che attraversavano Milano
e finivano inevitabilmente lì, sotto il grattacielo che
ospitava la sede diplomatica USA. Anche se non ero sceso in piazza
con gli altri all'inizio della dimostrazione, quando il corteo mi
passava quasi sotto casa, prendevo il casco (allora non era ancora
reato...) e pochi minuti dopo eravamo tutti a gridare la nostra
rabbia antiyankee alle mura del grattacielo, alle forze dell'ordine
che lo proteggevano ed ai passanti perlopiù scocciati. Salvo
in caso di scontri, non andavamo nemmeno sul giornale. Sono cambiati i
presidenti alla Casa Bianca ed i governi "servi USA" in
Italia, ma non è poi cambiato granché. Non c'è
più il Vietnam, né Santo Domingo. Ma c'è il
Nicaragua, c'è sempre Panama, c'è Timor, c'è il
Cile. Ci sono le mille situazioni più o meno mascherate in cui
gli USA la fanno da padroni. E poi c'è sempre la NAT0, e nel
Pacifico la SEATO. Insomma, il lupo
statunitense ha certo modificato un po' il pelo, ma non ha perso il
vizio di considerarsi e di comportarsi come "il gendarme del
mondo libero". Un contributo
interessante per conoscere e comprendere i meccanismi che,
soprattutto nell'intreccio tra potere politico e mass-media,
presiedono alla (dis)informazione ed alla costruzione del consenso
all'interno degli Stati Uniti verso questa politica neo-colonialista,
è offerto dall'ultimo libro di Noam Chomsky Turning the
tide, appena pubblicato in traduzione italiana dalle Edizioni
Eleuthera (cas. post. 17025, 20170 Milano, tel. 02/2853950 ore 16-20)
con il titolo La quinta libertà (pagg. 450, lire
22.000). Chomsky, docente di
linguistica al Massachusetts lnstitute of Tecnology, è stato,
proprio negli anni '60 che ricordavo all'inizio, una figura di
rilievo per la nostra generazione impegnata contro l'imperialismo
USA, soprattutto nel Sud-Est asiatico. Il suo impegno, i suoi
scritti, i suoi attacchi documentati alle varie amministrazioni USA,
tanto più validi e clamorosi perché provenienti
dall'interno dell'intellighenzia statunitense, ebbero il loro peso.
Il fatto, poi, che nel suo I nuovi mandarini (pubblicato da
Einaudi nel '69 e subito diventato uno dei testi-base del movimento
di contestazione) un intero capitolo fosse dedicato alla
ricostruzione dei fatti di Spagna del '36 -'37, con l'esplicita
denuncia delle responsabilità dei comunisti staliniani e la
valorizzazione del ruolo svolto dagli anarchici, ci fece
ulteriormente sentir vicini a quel figlio di ebrei russi, immigrato
come tantissimi altri, ma per niente disposto ad ingraziarsi il
Potere con il silenzio e l'acquiescenza. Negli anni '70,
finita l'epoca del Vietnam, Chomsky ha continuato ad occuparsi oltre
che, professionalmente, di linguistica - della politica estera
americana. Ha scritto molti saggi ed alcuni libri. Ho letto qualcosa
di questa sua produzione, provando disagio e disaccordo per quella
che mi appariva sempre più una concezione monomaniacale, a
senso unico "anti-USA". Quel che denunciava della politica
estera di Washington mi appariva interessante, nell'insieme, ma
l'assenza di dati e di valutazioni sulle altre forze politiche e
potenze in gioco (prima fra tutte, l'URSS) mi pareva a dir poco
fuorviante. Qualche anno fa
alcuni di noi ci eravamo incontrati con Chomsky (di passaggio da
Milano): ma non c'era stato tempo per approfondire queste
riflessioni. Al contempo, in un'intervista al Corriere della Sera
Chomsky ripeteva la sua classica impostazione, aggiungendo una
valutazione quasi entusiastica sul PCI. Ora, la
pubblicazione de La quinta libertà permette al lettore
italiano di dissipare dubbi e perplessità sulla sua analisi e
sulla concezione che la sottende. Il libro - dicevamo
- costituisce un valido (e molto documentato) strumento per andare al
di là della propaganda di regime, più o meno
mascherata, e identificare i meccanismi di costruzione e di
regolazione del consenso dell'opinione pubblica per la politica
estera di
Washington.
Particolare attenzione viene dedicata alla situazione
centro-americana, soprattutto al Nicaragua. Chomsky si occupa
anche del Sudest Asiatico (Vietnam, Cambogia, ecc.), del Medio
Oriente, delle trattative sul disarmo. Al di là della
documentazione - a volte interessante - ciò che lascia a dir
poco perplessi è la concezione che sottilmente sottende il
libro e ne costituisce il vero mastice: quella che vorrebbe gli USA
comunque agenti del Male, con la speculare convinzione che chi
si trovi schierato contro gli USA sia almeno in parte, forse
inconsciamente, ma comunque oggettivamente dalla parte del Bene. Il regime
sandinista chiude d'autorità l'unico quotidiano d'opposizione?
Per Chomsky non è poi gran cosa: La Prensa è
notoriamente sovvenzionata dalla CIA, e allora... I miskitos sono
stati strappati alle loro terre e deportati? Sarà, ma gli
Americani con gli Indiani sono stati forse migliori? - si domanda il
Nostro. I khmer rossi cambogiani hanno sterminato due milioni di
concittadini (circa un terzo dell'intera popolazione)? Macché
milioni - replica Chomsky - si trattava di migliaia: l'ha
riconosciuto anche Lacouture (che per primo aveva parlato dei 2
milioni). E poi i khmer rossi sono stati spinti al "fanatismo
totalitario" dalla "violenza americana" (i
bombardamenti del 1970). Ancora una volta
per Chomsky i conti tornano subito: la colpa non può essere
che degli USA. Un intero capitolo
è dedicato alle "trattative per il disarmo". Una
farsa, un gioco truccato che ha per protagonisti due bari (USA e
URSS). Ma per Chomsky l'importante è sottolineare la
strumentalità e la falsità delle affermazioni dei
negoziatori USA, presentati come la quintessenza dell'ipocrisia e
della malcelata volontà bellicista - il che è, a occhio
e croce, verisimile. Ma sul fronte opposto, silenzio. Peggio ancora:
le proposte sovietiche vengono presentate sotto una luce di
credibilità. Leggendo certe
pagine di Chomsky provo la stessa sensazione che mi procura la
lettura del settimanale filosovietico Nuova Unità
(quand'ero piccolo, era filo-cinese. Chissà fra 20 anni...):
"la sincera volontà di pace dell'URSS" ecc. ecc. Si potrebbe andare
avanti, ma lasciamo perdere gli esempi, anche perché al di là
dei singoli fatti è tutta l'impostazione del volume, è
la tesi che lo sottende a spiccare per unilateralità.
L'anti-imperialismo a senso unico che caratterizza La quinta
libertà mi pare del tutto simile a quello che ha
caratterizzato la sinistra italiana con particolare virulenza negli
anni '60 e '70, per giungere - attenuato più dallo "svacco"
che da una presa di coscienza critica - fino ai giorni nostri. Un
anti-imperialismo che proprio per questa sua unidirezionalità
perde gran parte della sua credibilità e finisce davvero - mi
si perdoni il luogo comune - per "fare il gioco del nemico". Se in qualcosa è
valido il paragone tra l'opera di Chomsky e quella di Solzenicyn -
proposto dagli editori sulla controcopertina - mi pare lo si debba
ricercare nell'essere arrivato - per voluta cecità - a non
vedere nell'altro imperialismo almeno una parte di quello
spirito malefico e diabolico che con tanta lucidità si
denuncia nel proprio imperialismo. Yankee go home!,
dunque. Ma con la stessa forza Russkij za dome! O Kabul vale
meno di Managua?
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