Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 17 nr. 148
estate 1987


Rivista Anarchica Online

Perché no
di Agostino Manni

Avrebbe dovuto presentarsi in caserma il 29 luglio. Invece no. Agostino Manni, di Racale (Lecce), non si è presentato. Ed ha inviato due scritti, uno ad "A" ed uno a "Senzapatria", per spiegare le ragioni del suo rifiuto della naia (ed anche del servizio civile). Lo aspetta un anno di carcere militare. Nel frattempo, il 9 luglio, è stato scarcerato l'obiettore totale (ma, per la legge, "disertore") Orazio Valastro, dopo 10 mesi di carcere militare.

"...L'uomo muore in tutti coloro che mantengono il silenzio di fronte alla tirannia...in qualsiasi popolo che volontariamente si sottopone alla quotidiana umiliazione della paura, l'uomo muore".

Wole Soyinka, "L'uomo è morto: note di prigionia"

"Abbiamo desiderio e breve sapere ma poca azione e - cosa che spiega la sua mancanza - nessuna ampiezza, nessuna prospettiva, nessun fine, nessuna soglia da noi varcata presaghi, nessun concetto del principio utopico. Trovarlo, trovare il giusto per cui merita vivere, organizzarsi, avere tempo, e ciò muoviamo, perciò apriamo le vie della fantasia, invochiamo ciò che non è, costruiamo nell'azzurro, ci costruiamo nell'azzurro e cerchiamo il vero e il reale là dove scompare il semplice dato - incipit vita nova".

Ernst Bloch. "Spirito dell'Utopia "


"Il giusto per cui merita vivere".
Molti lo smarriscono definitivamente, o smettono definitivamente di cercarlo. Sono più di 100 ragazzi, ogni anno, nelle caserme di tutta Italia; quelli di cui si ha notizia. Qualcuno anche prima di partire: alle volte basta solo l'idea di qualcosa per decidere di ammazzarsi.
Si sparano, perlopiù, o si buttano giù dalle scale, magari dopo che qualche stupido tenente ha respinto l'ennesima loro domanda di licenza.
La maggior parte, però, lo mette tra parentesi, "il giusto per cui merita vivere". E d'altra parte molti di loro non l'hanno nemmeno mai trovato, forse. "Passerà", si dicono. Sanno che sarà dura, che lascerà il segno; ma sanno anche che passerà. Tutti gli altri che lo hanno fatto sono lì a testimoniarlo; quasi tutti gli altri. E le cose sicure, per quanto temibili, per quanto certamente brutte, sono sempre quelle che fanno meno paura.
Così, ogni anno, più o meno 200.000 giovani vengono sequestrati nelle caserme di tutta Italia, per essere sottoposti al più concentrato e potente lavaggio di cervello, alla più umiliante esperienza di sottomissione, al più feroce attentato alla dignità che abbiano subito, presumibilmente, fino a quel momento della loro vita.
La maggior parte di questi ragazzi non ha più di 19, 20 anni: si appresta a conoscere il mondo, l'essenza dei rapporti sociali, la realtà dello sfruttamento economico, la gerarchia delle classi e dei ruoli, la violenza e l'ingiustizia, nascoste o ostentate, che dominano nel corpo sociale.
E l'esercito svolge qui la sua funzione di interprete, di maestro, di guida, di padre autoritario, di rappresentante dello status quo. Filtra le loro sensazioni, ne ammortizza la rabbia, insegna loro a convivere con le più profonde insoddisfazioni, con le esperienze più angosciose e più frustranti; li abitua alla arbitrarietà del dominio, del comando, alla umiliazione dell'obbedienza; li convince, falsamente, della illusorietà del cambiamento, della inutilità della ribellione.
Per mio padre e per molti altri è solo una vacanza, l'occasione per vedere qualche città mai visitata. Per mio fratello, che ha solo 18 anni e fa finta di non pensarci, un'incognita che da qualche mese riempie di timore i suoi pensieri di adolescente.
Un saggio di psicosociologia, che ho letto anni fa, lo paragonava a quei riti di iniziazione che in alcune tribù ancora oggi mediano il passaggio dei giovani al mondo degli adulti, o a quelle simboliche manifestazioni che anche nelle società occidentali svolgono tuttora parte di quelle funzioni. Ricordo che se ne analizzavano le fasi, le simbologie, i linguaggi, i gesti e che una delle conclusioni era che la sua struttura è assolutamente non funzionale, anche da questo limitato punto di vista, perché in luogo della consapevolezza, della responsabilità, della autonomia del soggetto che nei riti tribali sono il fine perseguito, il servizio militare, la naia, ricerca e ottiene piuttosto la remissività, la subordinazione, il disordine mentale, la dipendenza del soggetto da autorità esterne. Veniva definito un "rituale castrato", con un linguaggio volutamente "maschile" come quello militaresco.

L'immagine del carcere
Per me, onestamente, il militare non è mai stato il "servizio" militare. Nei miei pensieri, nelle mie prospettive ha dominato un'altra immagine, un'immagine che ha cominciato a formarsi fin da quando, anni fa, ho deciso che io non sarei mai stato un soldato. Questa immagine, che è quella della "punizione", l'immagine del carcere, ha accompagnato negli anni ogni mia riflessione sul militare, al punto da diventarmi "familiare" - per quanto può diventarlo una cosa che comunque non hai mai conosciuto direttamente -, al punto da diventare una delle possibilità che avrebbero interessato la mia vita, o potuto interessarla.
Si è trasformata così in una cosa nota, in una prospettiva probabile, e ha smesso così di essere quello che è, nei fatti, per tutti coloro che anche solo pensano di non voler fare il soldato: un muro, l'ostacolo che scoraggia, il deterrente, il fantasma (neanche tanto irreale) della repressione. È come se si fosse operata nel mio immaginario, nell'insieme delle mie aspettative, dei miei desideri, delle mie paure, una inversione del ruolo di queste due entità, il carcere e la caserma; per cui non è più la caserma, o il servizio, qualcosa da accettare per paura del carcere, ma è il carcere che diventa una prospettiva accettabile di fronte all'assurdità, alla follia, alla insopportabilità, all'umiliazione, all'ingiustizia del "servizio" militare.
Io mi risparmio complicate riflessioni sull'esercito, che pure ritengo indispensabili; non mi dilungo in considerazioni più o meno "esperte" sul ruolo delle forze armate o dei corpi paramilitari nella società italiana o nei diversi contesti internazionali. Ritengo naturalmente questo genere di analisi imprescindibile per chiunque abbia compreso la necessità di conoscere la realtà in cui vive, perché i progetti di una sua futura trasformazione si realizzino. Ma non è questo, per me, il punto.
Io non rifiuto l'esercito "solo" perché è un'istituzione creata dalle classi dominanti per la difesa dei propri interessi, che sono opposti ai miei e a quelli di tutti gli sfruttati; io non rifiuto di prestare il servizio militare "solo" perché l'esercito è il luogo in cui si compie un processo educativo, che comincia dalla nostra nascita, il cui fine è non tanto quello di insegnare ai giovani come mio fratello che in questo mondo non siamo tutti uguali e non siamo affatto liberi, quanto piuttosto quello di abituarli ad accettare questo stato di cose, di farglielo considerare necessario, indistruttibile e, in fondo, quasi il migliore che si possa realizzare.

Non solo per questo
Io non sono contrario all'esercito "solo" per questo, che già sarebbe molto. Non è solo per questo che non farò il soldato.
Molti altri compagni hanno sviluppato analisi anche più complesse delle mie e ne hanno tratto queste conclusioni e molte altre, tali da odiare tutti gli eserciti e il potere di cui sono l'espressione. Ma questo non è bastato a far dire loro: io non farò il soldato. E, forse, se fosse stato "solo" per questo, forse neanch'io avrei preso questa decisione.
Quello che voglio dire è, in fondo, una banalità, sulla quale però mi sembra che non si sia riflettuto abbastanza. Non è sufficiente, cioè, che un individuo raggiunga la coscienza della negatività, della follia, della violenza di una istituzione come l'esercito perché questo determini di per sé nell'individuo, automaticamente, il rifiuto concreto dell'istituzione stessa. Non è un problema "solo" di consapevolezza, di coscienza. Altrimenti non si potrebbe spiegare la irrisoria incidenza dei casi di reale rifiuto dell'esercito anche solo nel movimento anarchico, se non dicendo che anche qui vi è scarsa coscienza del ruolo dell'esercito, delle sue funzioni, ecc... E io sono sicuro che non è così.
La verità è che perché un individuo, in generale, rifiuti qualcosa - un'imposizione, un valore, un comportamento, un'istituzione - specialmente quando questo rifiuto comporta delle conseguenze niente affatto trascurabili sulla sua vita, è necessario che quella cosa gli sia diventata anche solo idealmente così ripugnante, così offensiva della sua dignità, così inumana, così ingiusta da fargliela sembrare insopportabile, al punto che piuttosto che accettarla preferisce subire tutte le conseguenze del suo rifiuto.
Nei casi in cui poi questa cosa sia per lui realmente necessaria (come non lo è di certo la "difesa della patria o del territorio", ma come potrebbe esserlo, per esempio, il lavoro, la produzione di beni necessari al proprio sostentamento), alla ripugnanza della soluzione offerta dallo status quo (lo sfruttamento, il lavoro salariato) è necessario che si aggiunga la possibilità di praticare soluzioni a queste alternative (dei modi di produzione che distruggano lo sfruttamento economico). Se tutto questo non c'è, o se non si riesce ad intravederne perlomeno la possibilità, la praticabilità, ho idea che resterà sempre molto difficile convincere qualcuno a praticare il rifiuto del "mondo" in cui vive.

Tutto questo vorrebbero da me
Per tornare al discorso sull'esercito: è giusto - forse è biologico - che si abbia paura della limitazione della propria libertà, qualunque forma essa assuma; anzi, per un anarchico questa dovrebbe essere una "garanzia" della validità delle sue idee, e una delle più importanti. Si dovrebbe avere almeno tanta paura di perdere la propria libertà quanta sete si ha di conquistarne ancora; e il discorso vale anche al contrario.
Ma quando la scelta è tra due o più limitazioni, entrambe penose, quale accettare? Quale subire? Perché di questo qui si tratta. Vorrebbero che io facessi il soldato, vorrebbero che per un anno della mia vita fossi l'esecutore dei loro ordini, il loro numero urlato, la loro licenza concessa o rifiutata, gli scarponi del loro addestramento, la vittima del loro cinismo e delle loro frustrazioni. Vorrebbero fare di me "un uomo", dicono. Vorrebbero che non mi chiamassi più Agostino, o compagno, o sfruttato, o persona: vorrebbero che fossi numero, divisa, maschera, moschetto, saluto, tacchi sbattuti; e nel migliore dei casi, se non gli dovesse riuscire, vorrebbero che fossi suicida, anche lì numero, anche lì tutt'al più variabile sfuggita, stupida, debole, "femmina", fragile. Ma persona mai. Tutto questo vorrebbero, da me. Da me che non sopporto nemmeno l'idea di dire signorsì a me stesso; da me che odio la violenza e disprezzo il potere; da me che ho cercato per anni, con fatica, di diventare tutto il contrario del soldato, tutto l'opposto di quello che per loro è un "uomo". Tutto questo vorrebbero da me, da me che non voglio darglielo.
Si apre così l'altra prospettiva, quella della repressione, della punizione del ribelle, della costrizione fisica (ma non si è "costretti", sequestrati anche in una caserma?), dell'ingabbiamento materiale, della cattura del tuo corpo che sostituisce la cattura della tua mente, la soppressione della tua personalità, l'uccisione del rispetto che nutri per te stesso, di quella dignità che fa della tua esistenza un valore, quello che conta di più, questo che ti permette di rispettare tutti gli altri.
In fondo, la scelta è questa: tra un soldato, che però può tornare a casa a Pasqua e a Natale, o anche un giorno si e uno no, o anche tutte le sere, e un uomo, che non vedrà il suo mare e i suoi alberi di ulivo per un anno o forse più.
La scelta, in fondo, è questa: tra i signorsì, e le adunate, e le marce, e le umiliazioni, e la divisa, e il saluto, tra tutto questo e tutto quello che non c'è, perché "io non sono un soldato". La scelta può essere dura, ed è tra un soldato che la sera cerca il sesso nelle piazze d'Italia, lontano dalla sua donna, e un uomo che farà l'amore con le sue idee, per un anno e forse più.
La scelta, in fondo, se vogliamo, è tutta qui: è la scelta tra un soldato e un uomo. Lo chiedo a voi: è poco?
Qualcuno, però, a questo punto potrebbe trovare da ridire, e rilevare che non ho preso affatto in considerazione un altro aspetto della questione "naia": la possibilità, cioè, di "optare" - come si dice - per il servizio civile sostitutivo.
Poche parole, per una opportunità a cui io non ho mai pensato: se qualcuno cerca, con questa alternativa, di sottrarsi alla follia del servizio militare fa benissimo, per me, purché dica chiaramente che il fine è solo quello di non fare il servizio militare.
Sebbene negli ultimi tempi l'universo degli obiettori sia stato percorso da coraggiose forme di lotta tese al miglioramento del servizio (autoriduzioni, autotrasferimenti, scioperi, ecc.), pagate anche in alcuni casi con una dura repressione, queste lotte rimangono, a mio parere, all'interno di un'ottica sindacale che poco incide sulla integrità della struttura esercito. A parte la discutibile contraddizione di un servizio che sempre più tende ad assomigliare a lavoro nero e mal pagato, a procacciamento di manodopera a buon mercato, in un paese che conta più di due milioni e mezzo di disoccupati; il problema centrale è, a mio parere, che l'adesione al servizio sostitutivo significa, nei fatti, la piena accettazione di una imposizione certo più sopportabile ma speculare, funzionale allo stesso servizio militare, espressione dello stesso potere di cui l'esercito è semplicemente la manifestazione più violenta, senza però esserne l'unica.
Con questo non intendo assolutamente dire che gli obiettori civili sostengano, nei fatti, quasi inconsciamente, l'esercito. Al contrario, penso che la determinazione e la profonda coscienza sociale di molti di loro abbiano contribuito in alcuni casi a togliere all'esercito un po' di quello smalto, di quella vernice di utilità sociale con cui oggi tenta di coprire la realtà delle sue funzioni repressive e della sua natura violenta. Ma sono profondamente convinto che la scelta degli obiettori è soprattutto la "scelta" di una sottomissione, se non all'esercito, ai decreti di quel potere, di quella struttura sociale del dominio di cui l'esercito è solo la manifestazione più evidente. Sono convinto che quella scelta - che, ripeto, è la scelta di una sottomissione - non vada comunque al cuore del problema e non intacchi minimamente, quindi, le ragioni stesse dell'esistenza degli eserciti e l'essenza del loro potere.

Riflessioni amare
So che qualcuno obietterà, a questo punto, che neanche il rifiuto del servizio militare praticato da due o tre persone all'anno incide davvero, nei fatti, sull'integrità dell'esercito; che in fondo si tratta solo di una scelta simbolica, per di più pagata a caro prezzo, e che quindi non vale la pena praticarla.
Questi argomenti hanno una buona dose di verità e di ragionevolezza: la stessa buona dose che serve per sopportare questo mondo a chi tira avanti a forza di compromessi e mezze misure, perché "in fondo bisogna pur vivere" perché, "in fondo, non ne vale la pena".
Sono argomenti, a mio parere, che distorcono la realtà dei fatti e che forse, alle volte, nascondono degli alibi.
Da cosa deriverebbe, infatti, la simbolicità del rifiuto del servizio militare? Forse dal fatto che le sue motivazioni sono lontane, meramente intuibili? No di certo. Anzi, quale opposizione, quale lotta è più chiara e più evidente, e più incisiva, di quella di chi rifiuta totalmente, senza compromessi, ciò che non è giusto, ciò che attenta alla sua libertà? Allora la simbolicità deriva dal fatto che sono in pochi a praticarlo, e solo da questo. Ma qui le riflessioni non dovrebbe farle tanto chi rifiuta il servizio militare, o in generale chi rifiuta i decreti, gli obblighi, le imposizioni di questo sistema; quanto piuttosto chi subisce tutto questo senza ribellarsi, senza reagire. E dovrebbero essere riflessioni amare. Perché sono davvero tempi bui quelli in cui le scelte di libertà sono così rare da essere considerate "simboliche".