Rivista Anarchica Online
Perché no
di Agostino Manni
Avrebbe dovuto
presentarsi in caserma il 29 luglio. Invece no. Agostino Manni, di
Racale (Lecce), non si è presentato. Ed ha inviato
due scritti, uno ad "A" ed uno a "Senzapatria",
per spiegare le ragioni del suo rifiuto della naia (ed anche del
servizio civile). Lo aspetta un anno di carcere militare. Nel frattempo,
il 9 luglio, è stato scarcerato l'obiettore totale (ma, per la
legge, "disertore") Orazio Valastro, dopo 10 mesi di
carcere militare.
"...L'uomo
muore in tutti coloro che mantengono il silenzio di fronte alla tirannia...in
qualsiasi popolo che volontariamente si sottopone alla quotidiana
umiliazione della paura, l'uomo muore".Wole Soyinka, "L'uomo è
morto: note di prigionia"
"Abbiamo
desiderio e breve sapere ma poca azione e - cosa che spiega la sua
mancanza - nessuna ampiezza, nessuna prospettiva, nessun fine,
nessuna soglia da noi varcata presaghi, nessun concetto del principio
utopico. Trovarlo, trovare il giusto per cui merita vivere,
organizzarsi, avere tempo, e ciò muoviamo, perciò apriamo le vie
della fantasia, invochiamo ciò che non è, costruiamo nell'azzurro,
ci costruiamo nell'azzurro e cerchiamo il vero e il reale là dove
scompare il semplice dato - incipit vita nova". Ernst Bloch. "Spirito
dell'Utopia "
"Il giusto per cui
merita vivere". Molti lo
smarriscono definitivamente, o smettono definitivamente di cercarlo.
Sono più di 100 ragazzi, ogni anno, nelle caserme di tutta Italia;
quelli di cui si ha notizia. Qualcuno anche prima di partire: alle
volte basta solo l'idea di qualcosa per decidere di ammazzarsi. Si sparano,
perlopiù, o si buttano giù dalle scale, magari dopo che qualche
stupido tenente ha respinto l'ennesima loro domanda di licenza. La maggior parte,
però, lo mette tra parentesi, "il giusto per cui merita
vivere". E d'altra parte molti di loro non l'hanno nemmeno mai
trovato, forse. "Passerà", si dicono. Sanno che sarà
dura, che lascerà il segno; ma sanno anche che passerà. Tutti gli
altri che lo hanno fatto sono lì a testimoniarlo; quasi tutti gli
altri. E le cose sicure, per quanto temibili, per quanto certamente
brutte, sono sempre quelle che fanno meno paura. Così, ogni anno,
più o meno 200.000 giovani vengono sequestrati nelle caserme di
tutta Italia, per essere sottoposti al più concentrato e potente
lavaggio di cervello, alla più umiliante esperienza di
sottomissione, al più feroce attentato alla dignità che abbiano
subito, presumibilmente, fino a quel momento della loro vita. La maggior parte di
questi ragazzi non ha più di 19, 20 anni: si appresta a conoscere il
mondo, l'essenza dei rapporti sociali, la realtà dello sfruttamento
economico, la gerarchia delle classi e dei ruoli, la violenza e
l'ingiustizia, nascoste o ostentate, che dominano nel corpo sociale. E l'esercito svolge
qui la sua funzione di interprete, di maestro, di guida, di padre
autoritario, di rappresentante dello status quo. Filtra le loro
sensazioni, ne ammortizza la rabbia, insegna loro a convivere con le
più profonde insoddisfazioni, con le esperienze più angosciose e
più frustranti; li abitua alla arbitrarietà del dominio, del
comando, alla umiliazione dell'obbedienza; li convince, falsamente,
della illusorietà del cambiamento, della inutilità della
ribellione. Per mio padre e per
molti altri è solo una vacanza, l'occasione per vedere qualche città
mai visitata. Per mio fratello, che ha solo 18 anni e fa finta di non
pensarci, un'incognita che da qualche mese riempie di timore i suoi
pensieri di adolescente. Un saggio di
psicosociologia, che ho letto anni fa, lo paragonava a quei riti di
iniziazione che in alcune tribù ancora oggi mediano il passaggio dei
giovani al mondo degli adulti, o a quelle simboliche manifestazioni
che anche nelle società occidentali svolgono tuttora parte di quelle
funzioni. Ricordo che se ne analizzavano le fasi, le simbologie, i
linguaggi, i gesti e che una delle conclusioni era che la sua
struttura è assolutamente non funzionale, anche da questo limitato
punto di vista, perché in luogo della consapevolezza, della
responsabilità, della autonomia del soggetto che nei riti tribali
sono il fine perseguito, il servizio militare, la naia, ricerca e
ottiene piuttosto la remissività, la subordinazione, il disordine
mentale, la dipendenza del soggetto da autorità esterne. Veniva
definito un "rituale castrato", con un linguaggio
volutamente "maschile" come quello militaresco.
L'immagine del
carcere
Per me,
onestamente, il militare non è mai stato il "servizio"
militare. Nei miei pensieri, nelle mie prospettive ha dominato
un'altra immagine, un'immagine che ha cominciato a formarsi fin da
quando, anni fa, ho deciso che io non sarei mai stato un soldato.
Questa immagine, che è quella della "punizione", l'immagine
del carcere, ha accompagnato negli anni ogni mia riflessione sul
militare, al punto da diventarmi "familiare" - per quanto può
diventarlo una cosa che comunque non hai mai conosciuto direttamente
-, al punto da diventare una delle possibilità che avrebbero
interessato la mia vita, o potuto interessarla. Si è trasformata
così in una cosa nota, in una prospettiva probabile, e ha smesso
così di essere quello che è, nei fatti, per tutti coloro che anche
solo pensano di non voler fare il soldato: un muro, l'ostacolo che
scoraggia, il deterrente, il fantasma (neanche tanto irreale) della
repressione. È come se
si fosse operata nel mio immaginario, nell'insieme delle mie
aspettative, dei miei desideri, delle mie paure, una inversione del
ruolo di queste due entità, il carcere e la caserma; per cui non è
più la caserma, o il servizio, qualcosa da accettare per paura del
carcere, ma è il carcere che diventa una prospettiva accettabile di
fronte all'assurdità, alla follia, alla insopportabilità,
all'umiliazione, all'ingiustizia del "servizio" militare. Io mi risparmio
complicate riflessioni sull'esercito, che pure ritengo
indispensabili; non mi dilungo in considerazioni più o meno
"esperte" sul ruolo delle forze armate o dei corpi
paramilitari nella società italiana o nei diversi contesti
internazionali. Ritengo naturalmente questo genere di analisi
imprescindibile per chiunque abbia compreso la necessità di
conoscere la realtà in cui vive, perché i progetti di una sua
futura trasformazione si realizzino. Ma non è questo, per me, il
punto. Io non rifiuto
l'esercito "solo" perché è un'istituzione creata dalle
classi dominanti per la difesa dei propri interessi, che sono opposti
ai miei e a quelli di tutti gli sfruttati; io non rifiuto di prestare
il servizio militare "solo" perché l'esercito è il luogo in
cui si compie un processo educativo, che comincia dalla nostra
nascita, il cui fine è non tanto quello di insegnare ai giovani come
mio fratello che in questo mondo non siamo tutti uguali e non siamo
affatto liberi, quanto piuttosto quello di abituarli ad accettare
questo stato di cose, di farglielo considerare necessario,
indistruttibile e, in fondo, quasi il migliore che si possa
realizzare.
Non solo per
questo
Io non sono
contrario all'esercito "solo" per questo, che già sarebbe
molto. Non è solo per questo che non farò il soldato. Molti altri
compagni hanno sviluppato analisi anche più complesse delle mie e ne
hanno tratto queste conclusioni e molte altre, tali da odiare tutti
gli eserciti e il potere di cui sono l'espressione. Ma questo non è
bastato a far dire loro: io non farò il soldato. E, forse, se fosse
stato "solo" per questo, forse neanch'io avrei preso questa
decisione. Quello che voglio
dire è, in fondo, una banalità, sulla quale però mi sembra che non
si sia riflettuto abbastanza. Non è sufficiente, cioè, che un
individuo raggiunga la coscienza della negatività, della follia,
della violenza di una istituzione come l'esercito perché questo
determini di per sé nell'individuo, automaticamente, il rifiuto
concreto dell'istituzione stessa. Non è un problema "solo"
di consapevolezza, di coscienza. Altrimenti non si potrebbe spiegare
la irrisoria incidenza dei casi di reale rifiuto dell'esercito anche
solo nel movimento anarchico, se non dicendo che anche qui vi è
scarsa coscienza del ruolo dell'esercito, delle sue funzioni, ecc...
E io sono sicuro che non è così. La verità è che
perché un individuo, in generale, rifiuti qualcosa - un'imposizione,
un valore, un comportamento, un'istituzione - specialmente quando
questo rifiuto comporta delle conseguenze niente affatto trascurabili
sulla sua vita, è necessario che quella cosa gli sia diventata anche
solo idealmente così ripugnante, così offensiva della sua dignità,
così inumana, così ingiusta da fargliela sembrare insopportabile,
al punto che piuttosto che accettarla preferisce subire tutte le
conseguenze del suo rifiuto. Nei casi in cui poi
questa cosa sia per lui realmente necessaria (come non lo è di certo
la "difesa della patria o del territorio", ma come potrebbe
esserlo, per esempio, il lavoro, la produzione di beni necessari al
proprio sostentamento), alla ripugnanza della soluzione offerta dallo
status quo (lo sfruttamento, il lavoro salariato) è necessario che
si aggiunga la possibilità di praticare soluzioni a queste
alternative (dei modi di produzione che distruggano lo sfruttamento
economico). Se tutto questo non c'è, o se non si riesce ad
intravederne perlomeno la possibilità, la praticabilità, ho idea
che resterà sempre molto difficile convincere qualcuno a praticare
il rifiuto del "mondo" in cui vive.
Tutto questo
vorrebbero da me
Per tornare al
discorso sull'esercito: è giusto - forse è biologico - che si abbia
paura della limitazione della propria libertà, qualunque forma essa
assuma; anzi, per un anarchico questa dovrebbe essere una "garanzia"
della validità delle sue idee, e una delle più importanti. Si
dovrebbe avere almeno tanta paura di perdere la propria libertà
quanta sete si ha di conquistarne ancora; e il discorso vale anche al
contrario. Ma quando la scelta
è tra due o più limitazioni, entrambe penose, quale accettare?
Quale subire? Perché di questo qui si tratta. Vorrebbero che io
facessi il soldato, vorrebbero che per un anno della mia vita fossi
l'esecutore dei loro ordini, il loro numero urlato, la loro licenza
concessa o rifiutata, gli scarponi del loro addestramento, la vittima
del loro cinismo e delle loro frustrazioni. Vorrebbero fare di me "un
uomo", dicono. Vorrebbero che non mi chiamassi più Agostino, o
compagno, o sfruttato, o persona: vorrebbero che fossi numero,
divisa, maschera, moschetto, saluto, tacchi sbattuti; e nel migliore
dei casi, se non gli dovesse riuscire, vorrebbero che fossi suicida,
anche lì numero, anche lì tutt'al più variabile sfuggita, stupida,
debole, "femmina", fragile. Ma persona mai. Tutto questo
vorrebbero, da me. Da me che non sopporto nemmeno l'idea di dire
signorsì a me stesso; da me che odio la violenza e disprezzo il
potere; da me che ho cercato per anni, con fatica, di diventare tutto
il contrario del soldato, tutto l'opposto di quello che per loro è
un "uomo". Tutto questo vorrebbero da me, da me che non
voglio darglielo. Si apre così
l'altra prospettiva, quella della repressione, della punizione del
ribelle, della costrizione fisica (ma non si è "costretti",
sequestrati anche in una caserma?), dell'ingabbiamento materiale,
della cattura del tuo corpo che sostituisce la cattura della tua
mente, la soppressione della tua personalità, l'uccisione del
rispetto che nutri per te stesso, di quella dignità che fa della tua
esistenza un valore, quello che conta di più, questo che ti permette
di rispettare tutti gli altri. In fondo, la scelta
è questa: tra un soldato, che però può tornare a casa a Pasqua e a
Natale, o anche un giorno si e uno no, o anche tutte le sere, e un
uomo, che non vedrà il suo mare e i suoi alberi di ulivo per un anno
o forse più. La scelta, in
fondo, è questa: tra i signorsì, e le adunate, e le marce, e le
umiliazioni, e la divisa, e il saluto, tra tutto questo e tutto
quello che non c'è, perché "io non sono un soldato". La
scelta può essere dura, ed è tra un soldato che la sera cerca il
sesso nelle piazze d'Italia, lontano dalla sua donna, e un uomo che
farà l'amore con le sue idee, per un anno e forse più. La scelta, in
fondo, se vogliamo, è tutta qui: è la scelta tra un soldato e un
uomo. Lo chiedo a voi: è poco? Qualcuno, però, a
questo punto potrebbe trovare da ridire, e rilevare che non ho preso
affatto in considerazione un altro aspetto della questione "naia":
la possibilità, cioè, di "optare" - come si dice - per il
servizio civile sostitutivo. Poche parole, per
una opportunità a cui io non ho mai pensato: se qualcuno cerca, con
questa alternativa, di sottrarsi alla follia del servizio militare fa
benissimo, per me, purché dica chiaramente che il fine è solo
quello di non fare il servizio militare. Sebbene negli
ultimi tempi l'universo degli obiettori sia stato percorso da
coraggiose forme di lotta tese al miglioramento del servizio
(autoriduzioni, autotrasferimenti, scioperi, ecc.), pagate anche in
alcuni casi con una dura repressione, queste lotte rimangono, a mio
parere, all'interno di un'ottica sindacale che poco incide sulla
integrità della struttura esercito. A parte la discutibile
contraddizione di un servizio che sempre più tende ad assomigliare a
lavoro nero e mal pagato, a procacciamento di manodopera a buon
mercato, in un paese che conta più di due milioni e mezzo di
disoccupati; il problema centrale è, a mio parere, che l'adesione al
servizio sostitutivo significa, nei fatti, la piena accettazione di
una imposizione certo più sopportabile ma speculare, funzionale allo
stesso servizio militare, espressione dello stesso potere di cui
l'esercito è semplicemente la manifestazione più violenta, senza
però esserne l'unica. Con questo non
intendo assolutamente dire che gli obiettori civili sostengano, nei
fatti, quasi inconsciamente, l'esercito. Al contrario, penso che la
determinazione e la profonda coscienza sociale di molti di loro
abbiano contribuito in alcuni casi a togliere all'esercito un po' di
quello smalto, di quella vernice di utilità sociale con cui oggi
tenta di coprire la realtà delle sue funzioni repressive e della sua
natura violenta. Ma sono profondamente convinto che la scelta degli
obiettori è soprattutto la "scelta" di una sottomissione,
se non all'esercito, ai decreti di quel potere, di quella struttura
sociale del dominio di cui l'esercito è solo la manifestazione più
evidente. Sono convinto che quella scelta - che, ripeto, è la scelta
di una sottomissione - non vada comunque al cuore del problema e non
intacchi minimamente, quindi, le ragioni stesse dell'esistenza degli
eserciti e l'essenza del loro potere.
Riflessioni amare
So che qualcuno
obietterà, a questo punto, che neanche il rifiuto del servizio
militare praticato da due o tre persone all'anno incide davvero, nei
fatti, sull'integrità dell'esercito; che in fondo si tratta solo di
una scelta simbolica, per di più pagata a caro prezzo, e che quindi
non vale la pena praticarla. Questi argomenti
hanno una buona dose di verità e di ragionevolezza: la stessa buona
dose che serve per sopportare questo mondo a chi tira avanti a forza
di compromessi e mezze misure, perché "in fondo bisogna pur
vivere" perché, "in fondo, non ne vale la pena". Sono argomenti, a
mio parere, che distorcono la realtà dei fatti e che forse, alle
volte, nascondono degli alibi. Da cosa
deriverebbe, infatti, la simbolicità del rifiuto del servizio
militare? Forse dal fatto che le sue motivazioni sono lontane,
meramente intuibili? No di certo. Anzi, quale opposizione, quale
lotta è più chiara e più evidente, e più incisiva, di quella di
chi rifiuta totalmente, senza compromessi, ciò che non è giusto,
ciò che attenta alla sua libertà? Allora la simbolicità deriva dal
fatto che sono in pochi a praticarlo, e solo da questo. Ma qui le
riflessioni non dovrebbe farle tanto chi rifiuta il servizio
militare, o in generale chi rifiuta i decreti, gli obblighi, le
imposizioni di questo sistema; quanto piuttosto chi subisce tutto
questo senza ribellarsi, senza reagire. E dovrebbero essere
riflessioni amare. Perché sono davvero tempi bui quelli in cui le
scelte di libertà sono così rare da essere considerate
"simboliche".
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