Rivista Anarchica Online
Al posto di una
recensione
di Paolo Finzi
Ne avevamo parlato
recentemente in redazione. Anzi, se n'era parlato più volte, da
quando era uscito il suo ultimo libro - quel Sommersi e salvati
nel quale ognuno di noi, ciascuno con la propria sensibilità e la
propria storia, si era ritrovato. Siamo tuttora convinti che, insieme
con gli altri due volumetti di questa trilogia concentrazionaria (Se
questo è un uomo e La tregua), costituisca un qualcosa
probabilmente di indefinibile, ma certamente fondamentale per la
formazione nostra. Di noi come
individui, delle nostre generazioni nate all'indomani dell'olocausto,
dell'umanità intesa non solo come aggregato di persone. Mi ero
proposto di farne la recensione, tutti d'accordo, "è un libro che
dobbiamo far conoscere". Avevo iniziato
varie volte a scriverla: tra una stesura e l'altra mi rileggevo il
libro, o alcuni suoi capitoli. Più leggevo, più sentivo che
Sommersi e salvati è uno di quei rari libri sui quali è
meglio non scrivere niente. L'unica cosa da
fare è consigliarlo, magari regalarlo agli amici, a quelli che si sa
essere persone sensibili, profonde. Poi, per il numero di febbraio,
Maria Teresa scrive quell'articolo (Shoah, l'annientamento,
"A", 143) che, partendo dall'asciutto documentario omonimo
mandato in onda da RAI3, sviluppa una serie di considerazioni che a
tutti noi paiono particolarmente felici: in sintonia, nella sostanza,
con la "lezione" di Primo Levi. Perché non affiancare a
quell'articolo una bella recensione di Sommersi e salvati? Ci riprovo, ma
vengo sommerso dalla quantità di stimoli emozionali e razionali che
da quel volumetto sprizzano. Ne parlo con le altre/altri della
redazione. Accenno alla difficoltà in cui mi trovo, ma anche alla
mia volontà di non "suonare il piffero" nemmeno per Primo
Levi. Leggi e rileggi i suoi libri, ma pare di aver identificato un
"punto critico" sul quale innestare una riflessione di segno
libertario, magari un dibattito. Si tratta della questione del
potere, centrale nella riflessione anarchica ma anche - necessariamente
- nell'analisi e nella riflessione sull'universo concentrazionario.
Il lager - osserva Maria Teresa Romiti nel suo citato articolo
-, ogni lager, era il simbolo vivente e vissuto del dominio al suo
stadio brutale, il dominio e basta. L'obbedienza assoluta,
cieca, senza perché, veniva riproposta ostinatamente, continuamente.
Una piramide che riproduceva ad ogni gradino se stessa. Come spesso capita
quando non si riesce a fare una cosa, ci si propone di farne un'altra
ancora più difficile. Niente recensioni, dunque. Al suo posto, una
bella intervista a Primo Levi, una chiacchierata serena, distesa,
approfondita. Siamo tutti d'accordo. Fausta ricorda però che
recentemente lei ha telefonato a Primo Levi, per invitarlo a
presentare il suo libro alla libreria Utopia. E che lui, gentilissimo
e dispiaciuto, le aveva detto di attraversare un brutto momento, con
la madre anziana molto malata. "Ne riparleremo più avanti.
Comunque grazie". Forse per un
colloquio, a casa sua o dove avesse preferito, queste difficoltà
sarebbero state superabili. E mi ero rimesso all'opera, leggendo,
rileggendo e soprattutto pensando. Perché i suoi libri sono di
quelli che leggi una frase, una piccola osservazione, un'annotazione.
E ti ritrovi, un quarto d'ora dopo, con il libro aperto e la mente
che ancora vaga, passa da una riflessione all'altra, crea immagini,
suscita ricordi, pone domande. E invece, da sabato
11 aprile, so che quell'intervista mai chiesta, eppure così
intensamente preparata, non ci sarà mai.
*
* *
Ho letto molto di
quanto è stato scritto di lui, dopo il suo suicidio. Accanto a
validi scritti (Claudio Magris sul Corriere della Sera,
Rossana Rossanda su Il Manifesto), molte banalità, molta
retorica, qualche ipocrisia. Capanna fa sapere che tempo addietro
Levi aveva dichiarato di votare DP. Tullia Zevi, presidente delle
Comunità israelitiche, lo ricorda come ebreo "non praticante"
(mentre lui, ateo anche prima di Auschwitz, lo era ancor più
decisamente dopo: un po' riduttiva la definizione "non
praticante"...). Sul suicidio, poi,
si scatena lo psicologismo d'accatto dei mass-media: ognuno pensa di
interpretarlo a suo modo, c'è chi afferma che Levi era già morto ad
Auschwitz, altri lo definiscono l'ultima vittima di quell'epoca. Il
democristiano TG1, con pretesca ipocrisia, si limita a parlare di
"tragica morte" (il suicidio, si sa, non piace a dio). Noi non l'abbiamo
conosciuto personalmente. Una ragione di più per tacere. A parlare
restano i suoi libri, come pochi altri nitida testimonianza di una
storia unica, terribile, ma non irripetibile. Come pochi altri,
dicevamo, a testimoniare. Ma unici, purtroppo unici, nell'andare
oltre la testimonianza, oltre la denuncia, dentro i gorghi perlopiù
inesplorati della psicologia e del comportamento degli uomini. Con
una tensione etica che sentiamo nostra. Anche nei momenti
"importanti" ed a volte in quelli tragici, come ha descritto
Primo Levi con la sua acutezza, siamo portati a pensieri banali,
terra terra, magari un po' egoistici. E a me quell'intervista
mancata...
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