Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 17 nr. 146
maggio 1987


Rivista Anarchica Online

Al posto di una recensione
di Paolo Finzi

Ne avevamo parlato recentemente in redazione. Anzi, se n'era parlato più volte, da quando era uscito il suo ultimo libro - quel Sommersi e salvati nel quale ognuno di noi, ciascuno con la propria sensibilità e la propria storia, si era ritrovato. Siamo tuttora convinti che, insieme con gli altri due volumetti di questa trilogia concentrazionaria (Se questo è un uomo e La tregua), costituisca un qualcosa probabilmente di indefinibile, ma certamente fondamentale per la formazione nostra.
Di noi come individui, delle nostre generazioni nate all'indomani dell'olocausto, dell'umanità intesa non solo come aggregato di persone. Mi ero proposto di farne la recensione, tutti d'accordo, "è un libro che dobbiamo far conoscere".
Avevo iniziato varie volte a scriverla: tra una stesura e l'altra mi rileggevo il libro, o alcuni suoi capitoli. Più leggevo, più sentivo che Sommersi e salvati è uno di quei rari libri sui quali è meglio non scrivere niente.
L'unica cosa da fare è consigliarlo, magari regalarlo agli amici, a quelli che si sa essere persone sensibili, profonde. Poi, per il numero di febbraio, Maria Teresa scrive quell'articolo (Shoah, l'annientamento, "A", 143) che, partendo dall'asciutto documentario omonimo mandato in onda da RAI3, sviluppa una serie di considerazioni che a tutti noi paiono particolarmente felici: in sintonia, nella sostanza, con la "lezione" di Primo Levi. Perché non affiancare a quell'articolo una bella recensione di Sommersi e salvati?
Ci riprovo, ma vengo sommerso dalla quantità di stimoli emozionali e razionali che da quel volumetto sprizzano. Ne parlo con le altre/altri della redazione. Accenno alla difficoltà in cui mi trovo, ma anche alla mia volontà di non "suonare il piffero" nemmeno per Primo Levi. Leggi e rileggi i suoi libri, ma pare di aver identificato un "punto critico" sul quale innestare una riflessione di segno libertario, magari un dibattito. Si tratta della questione del potere, centrale nella riflessione anarchica ma anche - necessariamente - nell'analisi e nella riflessione sull'universo concentrazionario. Il lager - osserva Maria Teresa Romiti nel suo citato articolo -, ogni lager, era il simbolo vivente e vissuto del dominio al suo stadio brutale, il dominio e basta. L'obbedienza assoluta, cieca, senza perché, veniva riproposta ostinatamente, continuamente. Una piramide che riproduceva ad ogni gradino se stessa.
Come spesso capita quando non si riesce a fare una cosa, ci si propone di farne un'altra ancora più difficile. Niente recensioni, dunque. Al suo posto, una bella intervista a Primo Levi, una chiacchierata serena, distesa, approfondita. Siamo tutti d'accordo. Fausta ricorda però che recentemente lei ha telefonato a Primo Levi, per invitarlo a presentare il suo libro alla libreria Utopia. E che lui, gentilissimo e dispiaciuto, le aveva detto di attraversare un brutto momento, con la madre anziana molto malata. "Ne riparleremo più avanti. Comunque grazie".
Forse per un colloquio, a casa sua o dove avesse preferito, queste difficoltà sarebbero state superabili. E mi ero rimesso all'opera, leggendo, rileggendo e soprattutto pensando. Perché i suoi libri sono di quelli che leggi una frase, una piccola osservazione, un'annotazione. E ti ritrovi, un quarto d'ora dopo, con il libro aperto e la mente che ancora vaga, passa da una riflessione all'altra, crea immagini, suscita ricordi, pone domande.
E invece, da sabato 11 aprile, so che quell'intervista mai chiesta, eppure così intensamente preparata, non ci sarà mai.

* * *

Ho letto molto di quanto è stato scritto di lui, dopo il suo suicidio. Accanto a validi scritti (Claudio Magris sul Corriere della Sera, Rossana Rossanda su Il Manifesto), molte banalità, molta retorica, qualche ipocrisia. Capanna fa sapere che tempo addietro Levi aveva dichiarato di votare DP. Tullia Zevi, presidente delle Comunità israelitiche, lo ricorda come ebreo "non praticante" (mentre lui, ateo anche prima di Auschwitz, lo era ancor più decisamente dopo: un po' riduttiva la definizione "non praticante"...).
Sul suicidio, poi, si scatena lo psicologismo d'accatto dei mass-media: ognuno pensa di interpretarlo a suo modo, c'è chi afferma che Levi era già morto ad Auschwitz, altri lo definiscono l'ultima vittima di quell'epoca. Il democristiano TG1, con pretesca ipocrisia, si limita a parlare di "tragica morte" (il suicidio, si sa, non piace a dio).
Noi non l'abbiamo conosciuto personalmente. Una ragione di più per tacere. A parlare restano i suoi libri, come pochi altri nitida testimonianza di una storia unica, terribile, ma non irripetibile.
Come pochi altri, dicevamo, a testimoniare. Ma unici, purtroppo unici, nell'andare oltre la testimonianza, oltre la denuncia, dentro i gorghi perlopiù inesplorati della psicologia e del comportamento degli uomini. Con una tensione etica che sentiamo nostra.
Anche nei momenti "importanti" ed a volte in quelli tragici, come ha descritto Primo Levi con la sua acutezza, siamo portati a pensieri banali, terra terra, magari un po' egoistici. E a me quell'intervista mancata...