Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 17 nr. 146
maggio 1987


Rivista Anarchica Online

Astenersi perché
di Paolo Finzi

Dialogo semi-immaginario tra un non-anarchico ed un anarchico. Tema: le elezioni politiche, i referendum, l'astensionismo.

Se tu dovessi spiegare in due parole perché voi anarchici non andate a votare, che cosa diresti?

"Mica fesso". Due parole, però, francamente sono un po' poche per esprimersi compiutamente". A parte gli scherzi, il rito elettorale mi pare tanto palesemente inutile che mi parrebbe giusto che sia chi, come te, nonostante la lezione della Storia continua a recarsi regolarmente alle urne, a spiegare la ragione della sua cocciutaggine.

Non fare il furbino. Con me il trucchetto di rigirare la frittata non funziona.

Macché trucchetto. Quando, oltre un secolo fa, si accese il dibattito in seno al movimento operaio tra i sostenitori dell'astensionismo elettorale (gli anarchici, appunto) ed i fautori di una via "politica" al socialismo (i marxisti, nelle loro varie sfaccettature), era ancora ragionevolmente accettabile accusare gli anarchici di astratto e preconcetto rifiuto di uno strumento - quello elettorale, appunto - che ancora non si aveva avuto modo di sperimentare. Dopo più o meno un secolo di storia, caratterizzata da un uso sempre più esteso, frequente e diffuso dello strumento elettorale - a parte la più che ventennale parentesi del fascismo - la riprova dei fatti è sotto gli occhi di tutti.

Spiegati meglio.

Al di là di tutte le possibili disquisizioni e contrapposizioni ideologiche, il punto è questo: se le elezioni si sono dimostrate un momento positivo per la vita sociale, siano le benvenute. Ma se - come noi sosteniamo - non lo sono né lo possono essere, allora la nostra scelta astensionista non appare più così campata per aria.

Non andando a votare, voi finite con il mettere sullo stesso piano tutti i partiti, da Dp al MSI. Non vi pare di compiere, oggettivamente, una scelta qualunquista?

No. Più che mettere tutti i partiti "sullo stesso piano", con il nostro rifiuto di partecipare alle elezioni noi intendiamo denunciare - e conseguentemente rifiutare - il sistema politico più generale. È questo sistema che non ci sta bene, perché si basa su di una concezione gerarchica e piramidale della vita comunitaria - antitetica a quella concezione orizzontale ed egualitaria, decentralizzata e federalista che noi sintetizziamo nella parola "anarchia".

Bellissime idee, forse, le vostre. Il risultato pratico, però, è che disertando le urne e spingendo la gente a fare lo stesso favorite la DC, le destre, i conservatori. È inutile che tu mi guardi con quell'espressione di sufficienza come se fossi il vecchio nonno petulante: visto che vi stimo abbastanza da escludere che potreste votare per il MSI, la DC e simili, ne deduco che i vostri non-voto sono voti sottratti alla sinistra, a chi insomma, bene o male, cerca di fare qualcosa di concreto per migliorare la situazione.

Non prendertela, non volevo irridere alle tue parole. Il fatto è che questa obiezione ce la sentiamo ripetere ad ogni appuntamento elettorale. Ricordo che una volta un mio amico, militante del PCI impegnato con tutta l'anima nella campagna elettorale, quasi mi commosse. Il suo ragionamento era questo: ammettiamo anche per ipotesi che voi anarchici abbiate ragione, che le elezioni non modificano la realtà, ecc. ecc... A questo punto, che cosa vi costa mettervi per un attimo nei nostri panni, nei panni cioè di chi crede che servano almeno a qualcosa? votate anche voi (per il PCI, s'intende) e, nella peggiore delle ipotesi non avrete concluso niente. Perché non fate la prova?

E tu che cosa gli rispondesti?

Cercai di spiegargli le ragioni di fondo dell'astensionismo anarchico: il nostro rifiuto, cioè, di assicurare con il nostro voto il nostro avallo a questo sistema. Sia ben chiaro: per noi l'astensionismo non è un feticcio, un dogma della tradizione ottocentesca, ma una scelta motivata razionalmente, una scelta di coerenza e di chiarezza rivoluzionaria cui lo sviluppo socio-economico e le esperienze parlamentaristiche hanno puntualmente dato conferma. Gli anarchici, pur non sopravvalutando il momento astensionistico (che sarebbe un errore simmetrico a quello di chi vorrebbe ricondurre la politica alle elezioni), non si limitano ad una passiva non-partecipazione al gioco elettorale, ma lo sostanziano attivamente con la demistificazione della "democrazia" parlamentare e dei meccanismi con cui lo stato simula il consenso popolare.

Alla fine riuscisti a convincerlo?

Assolutamente no. È ancora convinto che, oltre che utopisti, siamo settari ed inconcludenti.

Non riesco a capire perché, se - come hai detto - voi non volete sopravvalutare l'astensionismo, appena sentite odore di elezioni, partite in quarta con campagne astensioniste: manifesti, comizi, ecc... Campagne che, oltre al resto, mi paiono terribilmente ripetitive. Ma non vi stufate mai?

Stufarci? Di sicuro. Ne faremmo volentieri a meno. Il fatto è che l'occasione è troppo "ghiotta", non foss'altro che per il fatto che il movimento anarchico è l'unica "forza politica" (perdonami la definizione impropria) a teorizzare ed a praticare l'astensionismo. Altri gruppi e partiti l'hanno fatto o lo fanno, ma sempre con motivazioni contingenti, legate all'attuale fase politica, all'attuale situazione dell'organizzazione, alle attuali prospettive politiche generali. Si sono così astenuti in passato, a volte, i radicali, si astengono vari gruppetti della sinistra marxista, ed altri ancora. Ma solo noi abbiamo maturato una coscienza ed una tradizione (ormai più che secolare) che ci pone in sintonia con il comportamento di strati della popolazione che sono sempre stati ben più vasti della modesta area da noi direttamente influenzata. E che, non a caso, sono in crescita costante.
Noioso e ripetitivo è innanzitutto il potere, che ripete i suoi riti. Noiosa, ripetitiva ed autolesionista è la gente che a questi riti partecipa. Noiosi e ripetitivi siamo necessariamente anche noi astensionisti. Ma di chi è la responsabilità? Dovremmo piuttosto tacere?

Hai accennato alla vostra tradizione più che secolare. Non correte il rischio di restarvi impigliati, incapaci a cogliere il mutare dei tempi, delle situazioni, degli strumenti di lotta?

No. O meglio, il rischio c'è. A furia di ripetere idee e comportamenti, si può finire con l'autoconvincersi di avere sempre e comunque ragione; a non porsi più domande; in poche parole, ad accontentarsi di restare uguali a se stessi, passivamente. Per quel che riguarda la questione elettorale, però, mi pare che le cose stiano in modo esattamente opposto.
È vero, noi a votare non ci siamo mai andati: né alle elezioni politiche, né a quelle amministrative, né ai referendum. Dunque, che lo vogliamo o no, ad ogni appuntamento elettorale rinnoviamo e proseguiamo una tradizione, che affonda le sue origini - come si accennava all'inizio della nostra chiacchierata - nelle prime fasi del dibattito in seno al nascente movimento operaio socialista.
Ma questa tradizione per noi non è un peso. Non è in essa che innanzitutto ricerchiamo e troviamo le ragioni del nostro non-voto. Essa certamente le rafforza e dà loro quel quadro d'insieme che ha contribuito a fare dell'astensionismo una delle caratteristiche più note dell'anarchismo. Quelle ragioni, però, noi le troviamo al solo girarci intorno, osservando la realtà, analizzando i meccanismi di riproduzione del potere.
Non vorrei sembrarti semplicista, ma non mi pare che sia necessario essere un anarchico per capire che dietro il voto si cela, tutto sommato, un imbroglio.

Quale imbroglio?

Quello di farti credere che puoi decidere, mentre in realtà non decidi un bel niente.

Questo me lo devi proprio dimostrare. Vuoi forse sostenere che nella cabina elettorale non sei libero di scegliere il simbolo che vuoi?

Non è questo il punto. L'imbroglio sta a monte: tu sei certamente libero di votare per chi vuoi. Il fatto che noi vogliamo denunciare, anche con la nostra astensione, è che, indipendentemente da chi tu scelga, ad essere confermata sarà comunque la struttura sociale dominante. La quale è basata appunto sulla delega di potere. Che questa delega venga data al PCI, al MSI o alla DC è sostanzialmente irrilevante rispetto al fatto che comunque questa delega di potere - una delega tutto sommato in bianco - viene comunque assicurata.

Facciamo un salto indietro. Poco fa tu hai accomunato le elezioni politiche a quelle amministrative e addirittura ai referendum. A me pare che ci siano differenze sostanziali tra loro.
Per quel che riguarda le amministrative, mi pare curioso che proprio voi, che parlate di rivalutare le comunità "dal basso", a dimensione umana, vi estraniate pregiudizialmente da meccanismi che sono molto diversi da quelli del potere centrale.
Sui referendum, poi, proprio non vi capisco. Qui non è in ballo una delega di potere, ma semplicemente il diritto di esprimere un'opinione in merito ad una determinata materia. È vero che attualmente in Italia i referendum possono essere solo abrogativi, ma proprio per questo mi domando in base a quali considerazioni vi rifiutate di parteciparvi. Non arrabbiarti, ma ho il forte sospetto che, comunque mascherato, voi siate ammalati di "astensionismo cronico".

Per quel che riguarda le amministrative, si potrebbe pretendere un atteggiamento diverso da parte nostra, se in effetti esse fossero "altra cosa" rispetto al sistema politico-amministrativo centrale. Esse invece ne sono un elemento costitutivo, omogeneo e subordinato al potere centrale. Tutt'altra cosa, appunto, da quella concezione federalista - che affonda le sue radici anche nei filoni più radicali della tradizione risorgimentale - che ci è propria: in essa, le "autonomie locali" (per usare un'espressione tanto cara alla sinistra) sono viste come elemento di rottura e di opposizione alla cultura ed agli schemi organizzativi di una società statale.

Lo stesso ragionamento - lo ammetterai, spero - non vale per i referendum.

Fino ad un certo punto, mio caro. Noi non contestiamo lo strumento referendario in sé. È l'uso che ne viene fatto, il contesto in cui esso è oggi inserito che ce lo fanno sentire estraneo. Permettimi una citazione. "Le consultazioni - ha scritto Andrea Papi sullo scorso numero -, unico minimo momento di pacata partecipazione popolare, sono viste e valutate non tanto per il senso di partecipazione di base, che se pur blandissimamente in qualche modo esprimono, quanto come esclusivo momento di consenso e di manipolazione. Sia le elezioni che i referendum vengono svuotati del tutto della loro valenza partecipativa, per essere immessi all'interno della logica e dell'etica intriganti, che contraddistinguono i movimenti e le scelte dentro i corridoi del Palazzo".
È stato lo stesso Andrea, in due articoli molto chiari apparsi sulla rivista ("Il nanocurie e la scheda" e il citato "Votate gente, votate", rispettivamente su "A" 138 e su "A" 145), a sviluppare il nostro ragionamento in merito. Con sole 6.000 lire ti vendo seduta stante questi due arretrati e la tua curiosità è soddisfatta.

Sai benissimo che li ho già letti. Risparmia per migliori occasioni il tuo spirito di venditore. E già che fai lo spiritoso, rispondi a questa domanda impertinente: come mai usi sempre la formula "noi anarchici qui", "noi anarchici là", quando poi - in pratica - ci sono anarchici che invece in occasione dei referendum vanno a votare? Ti dico questo perché proprio ieri ho incontrato due tuoi compagni di fuori Milano che mi hanno detto che loro non sono d'accordo con la vostra scelta astensionista e che andranno a votare (non solo, ma nel loro paese hanno anche aiutato, a suo tempo, a raccogliere le firme necessarie per la presentazione dei referendum).

Non sono certo gli unici. Pensa che anche in occasione del primo referendum della storia italiana - quello istituzionale del '46 - ci furono alcuni militanti anarchici (mi viene in mente Mario Mantovani, che in seguito sarà redattore de Il libertario e di Umanità Nova) che, in contrasto con l'astensionismo della stragrande maggioranza del movimento, sostennero pubblicamente che la scomparsa della monarchia valeva bene un voto.
A partire dal referendum sul divorzio (1974) in poi, si è sempre ripetuto il dibattito in campo anarchico tra fautori della partecipazione e dell'astensione. La cosa potrebbe far impressione in un partito o comunque in un movimento che pretenda di esprimere sempre e comunque una sola linea, la Linea con la elle maiuscola.
Tra noi il dibattito è sempre stato vivace, a tratti surriscaldato. Soprattutto perché, a mio avviso, al di là della scelta contingente di votare o di astenersi, è in gioco tutta una concezione dell'impegno sociale e, in particolare, del ruolo degli anarchici. Ma quello che qui mi preme sottolineare è che la presenza di diverse pratiche ed anche, a monte, di differenti concezioni dell'anarchismo - sempre nell'ambito del pluralismo anarchico - non è necessariamente motivo di debolezza o di inconcludenza per un movimento come il nostro, che certo avrà tanti difetti ma non quello di essere o voler essere monolitico.

Ti seguo con attenzione, ma non mi convinci. Dietro i tuoi ragionamenti continuo a cogliere quei sintomi di "astensionismo cronico" che ti accennavo prima. Ne ho trovato conferma - scorrendo le annate di "A" - nel vostro rifiuto di "piegarvi" a votare per la lista del Manifesto alle politiche del 1972, quando appunto Il Manifesto candidò Pietro Valpreda - allora detenuto da quasi tre anni per la strage di piazza Fontana. Per voi anarchici valeva di più un'astratta coerenza ad un principio, che non la possibile scarcerazione di un vostro compagno. Non ti pare, oltre al resto, un po' cinico?

Innanzitutto un'osservazione. Hai fatto bene a dire "voi anarchici", perché la decisione di confermare anche in quell'occasione il nostro astensionismo fu, per così dire, "ratificata" da un Convegno nazionale anarchico tenutosi a Carrara l'8-9 aprile '72, alla presenza di circa 300 militanti.
Ed ora entriamo nel merito. La questione delle candidature-protesta si pose già a fine '800, quando i socialisti ed altre forze politiche di sinistra offrirono ad anarchici e ad altri "sovversivi" la possibilità di uscire di galera venendo eletti in Parlamento. Ecco che cosa scriveva in proposito, nel marzo di 90 anni fa, Errico Malatesta sulle colonne del giornale anarchico anconetano L'agitazione: "(...) I nostri compagni di Roma portano candidato l'amico nostro Luigi Galleani, domiciliato coatto, ed altre candidature-protesta pare siano state messe in altri posti. È difficile e penoso per noi dire franca e schietta la nostra opinione. Quando degli uomini che noi stimiamo ed amiamo e che molto hanno fatto e più ancora faranno per la causa nostra, stanno in galera o al domicilio coatto, e si propone un mezzo per farli mettere fuori, come si fa a dire, per quanto cattivo sia il mezzo: no, lasciateli dentro!
Nullameno faremo forza a noi stessi ed apriremo intero l'animo nostro. Se altri ci troverà troppo intransigenti, ce lo perdoni in considerazione che in carcere ed al coatto ci siamo stati anche noi, che siamo esposti a tornarci e che possiamo permetterci di essere severi con gli altri perché abbiamo la coscienza che sapremmo essere severi con noi stessi. In quanto agli amici candidati essi ce lo perdoneranno di certo perché essi sapranno apprezzare i nostri motivi: anzi di alcuni di loro sappiamo che sono completamente d'accordo con noi sull'argomento.
La candidatura-protesta, soprattutto quando si è sicuri che l'eletto non vorrà ad alcun costo fare il deputato, non è per se stessa contraria ai nostri principi e nemmeno alla nostra tattica; ma è nullameno una porta aperta all'equivoco ed alle transazioni. È il primo passo su di un pendio sdrucciolevole sul quale è difficile arrestarsi. (...)".
Le motivazioni di fondo accennate in questa citazione di Malatesta restavano valide anche per la candidatura di Valpreda nel Manifesto (e lo sarebbero oggi per casi analoghi). Il sospetto di cinismo non ci tange: eravamo talmente impegnati nella campagna di solidarietà e di controinformazione sulla strage di Stato, che tutto ci poteva venir rimproverato, che non fosse però il disinteresse per la sorte dei compagni in galera.
Il motivo per cui invece molti ci accusarono allora di insensibilità e di settarismo è che non si è abituati a fare i conti con movimenti - come il nostro - per i quali motivazioni contingenti, tatticismi politici do-ut-des, ecc. ecc. contano molto meno della convinta (e, se necessario, sofferta) "testimonianza" vissuta, in coerenza con quanto si afferma.

Senti, sono stato anche a sentire la citazione di Malatesta. Conoscendoti, dovevo aspettarmela prima o poi. Ora mi merito proprio un buon caffè. O no?