Rivista Anarchica Online
Astenersi perché
di Paolo Finzi
Dialogo
semi-immaginario tra un non-anarchico ed un anarchico. Tema: le
elezioni politiche, i referendum, l'astensionismo.
Se tu dovessi
spiegare in due parole perché voi anarchici non andate a votare, che
cosa diresti?
"Mica
fesso". Due parole, però, francamente sono un po' poche per
esprimersi compiutamente". A parte gli scherzi, il rito
elettorale mi pare tanto palesemente inutile che mi parrebbe giusto
che sia chi, come te, nonostante la lezione della Storia continua a
recarsi regolarmente alle urne, a spiegare la ragione della sua
cocciutaggine.
Non
fare il furbino. Con me il trucchetto di rigirare la frittata non
funziona.
Macché
trucchetto. Quando, oltre un secolo fa, si accese il dibattito in
seno al movimento operaio tra i sostenitori dell'astensionismo
elettorale (gli anarchici, appunto) ed i fautori di una via
"politica" al socialismo (i marxisti, nelle loro varie
sfaccettature), era ancora ragionevolmente accettabile accusare gli
anarchici di astratto e preconcetto rifiuto di uno strumento - quello
elettorale, appunto - che ancora non si aveva avuto modo di
sperimentare. Dopo più o meno un secolo di storia, caratterizzata da
un uso sempre più esteso, frequente e diffuso dello strumento
elettorale - a parte la più che ventennale parentesi del fascismo -
la riprova dei fatti è sotto gli occhi di tutti.
Spiegati meglio.
Al di là di
tutte le possibili disquisizioni e contrapposizioni ideologiche, il
punto è questo: se le elezioni si sono dimostrate un momento
positivo per la vita sociale, siano le benvenute. Ma se - come noi
sosteniamo - non lo sono né lo possono essere, allora la nostra
scelta astensionista non appare più così campata per aria.
Non andando a
votare, voi finite con il mettere sullo stesso piano tutti i partiti,
da Dp al MSI. Non vi pare di compiere, oggettivamente, una scelta
qualunquista?
No. Più che
mettere tutti i partiti "sullo stesso piano", con il nostro
rifiuto di partecipare alle elezioni noi intendiamo denunciare - e
conseguentemente rifiutare - il sistema politico più generale. È
questo sistema che non ci sta bene, perché si basa su di una
concezione gerarchica e piramidale della vita comunitaria -
antitetica a quella concezione orizzontale ed egualitaria,
decentralizzata e federalista che noi sintetizziamo nella parola
"anarchia".
Bellissime idee,
forse, le vostre. Il risultato pratico, però, è che disertando le
urne e spingendo la gente a fare lo stesso favorite la DC, le destre,
i conservatori. È
inutile che tu mi guardi con quell'espressione di sufficienza come se
fossi il vecchio nonno petulante: visto che vi stimo abbastanza da
escludere che potreste votare per il MSI, la DC e simili, ne deduco
che i vostri non-voto sono voti sottratti alla sinistra, a chi
insomma, bene o male, cerca di fare qualcosa di concreto per
migliorare la situazione.
Non
prendertela, non volevo irridere alle tue parole. Il
fatto è che questa obiezione ce la sentiamo ripetere
ad ogni appuntamento elettorale. Ricordo che una volta un mio amico,
militante del PCI impegnato con tutta
l'anima nella campagna elettorale, quasi mi commosse.
Il suo ragionamento era questo: ammettiamo anche per
ipotesi che voi anarchici abbiate ragione, che le elezioni
non modificano la realtà, ecc. ecc... A questo punto, che cosa vi
costa mettervi per un attimo nei nostri
panni, nei panni cioè di chi crede che servano almeno
a qualcosa? votate anche voi (per il PCI, s'intende) e, nella
peggiore delle ipotesi non avrete concluso niente.
Perché non fate la prova?
E tu che cosa gli
rispondesti?
Cercai di
spiegargli le ragioni di fondo dell'astensionismo anarchico: il
nostro rifiuto, cioè, di assicurare con il nostro voto il
nostro avallo a questo sistema. Sia ben chiaro: per noi
l'astensionismo non è un feticcio, un dogma della tradizione
ottocentesca, ma una scelta motivata razionalmente, una scelta di
coerenza e di chiarezza rivoluzionaria cui lo sviluppo
socio-economico e le esperienze parlamentaristiche hanno puntualmente
dato conferma. Gli anarchici, pur non sopravvalutando il momento
astensionistico (che sarebbe un errore simmetrico a quello di chi
vorrebbe ricondurre la politica alle elezioni), non si limitano ad
una passiva non-partecipazione al gioco elettorale, ma lo sostanziano
attivamente con la demistificazione della "democrazia"
parlamentare e dei meccanismi con cui lo stato simula il consenso
popolare.
Alla fine riuscisti
a convincerlo?
Assolutamente
no. È ancora convinto che, oltre che utopisti, siamo settari ed
inconcludenti.
Non riesco a capire
perché, se - come hai detto - voi non volete sopravvalutare
l'astensionismo, appena sentite odore di elezioni, partite in quarta
con campagne astensioniste: manifesti, comizi, ecc... Campagne che,
oltre al resto, mi paiono terribilmente ripetitive. Ma non vi stufate
mai?
Stufarci? Di
sicuro. Ne faremmo volentieri a meno. Il fatto è che l'occasione è
troppo "ghiotta", non foss'altro che per il
fatto che il movimento anarchico è l'unica "forza politica"
(perdonami la definizione impropria) a teorizzare ed a
praticare l'astensionismo. Altri gruppi e partiti
l'hanno fatto o lo fanno, ma sempre con motivazioni contingenti,
legate all'attuale fase politica,
all'attuale situazione dell'organizzazione, alle
attuali prospettive politiche generali. Si sono
così astenuti in passato, a volte, i radicali, si astengono vari
gruppetti della sinistra marxista, ed altri ancora. Ma solo noi
abbiamo maturato una coscienza ed una tradizione (ormai più che
secolare) che ci pone in sintonia con il comportamento di strati
della popolazione che sono sempre stati ben più vasti della modesta
area da noi direttamente influenzata. E che, non a caso, sono in
crescita costante. Noioso e
ripetitivo è innanzitutto il potere, che
ripete i suoi riti. Noiosa, ripetitiva ed autolesionista è la gente
che a questi riti partecipa. Noiosi e ripetitivi siamo
necessariamente anche noi astensionisti. Ma di chi è
la responsabilità? Dovremmo piuttosto tacere?
Hai accennato alla
vostra tradizione più che secolare. Non correte il rischio di
restarvi impigliati, incapaci a cogliere il mutare dei tempi, delle
situazioni, degli strumenti di lotta?
No. O meglio, il
rischio c'è. A furia di ripetere idee e comportamenti, si può
finire con l'autoconvincersi di avere sempre e comunque ragione; a
non porsi più domande; in poche parole, ad accontentarsi di restare
uguali a se stessi, passivamente. Per quel che riguarda la questione
elettorale, però, mi pare che le cose stiano in modo esattamente
opposto. È
vero, noi a votare non ci siamo mai andati: né alle elezioni
politiche, né a quelle amministrative, né ai referendum. Dunque,
che lo vogliamo o no, ad ogni appuntamento elettorale rinnoviamo e
proseguiamo una tradizione, che affonda le sue origini - come si
accennava all'inizio della nostra chiacchierata - nelle prime fasi
del dibattito in seno al nascente movimento operaio socialista. Ma questa
tradizione per noi non è un peso. Non è in essa che innanzitutto
ricerchiamo e troviamo le ragioni del nostro non-voto. Essa
certamente le rafforza e dà loro quel quadro d'insieme che ha
contribuito a fare dell'astensionismo una delle caratteristiche più
note dell'anarchismo. Quelle ragioni, però, noi le troviamo al solo
girarci intorno, osservando la realtà, analizzando i meccanismi di
riproduzione del potere. Non vorrei
sembrarti semplicista, ma non mi pare che sia necessario essere un
anarchico per capire che dietro il voto si cela, tutto sommato, un
imbroglio.
Quale imbroglio?
Quello di farti
credere che puoi decidere, mentre in realtà non decidi un bel
niente.
Questo me lo devi
proprio dimostrare. Vuoi forse sostenere che nella cabina elettorale
non sei libero di scegliere il simbolo che vuoi?
Non è questo il
punto. L'imbroglio sta a monte: tu sei certamente libero di votare
per chi vuoi. Il fatto che noi vogliamo denunciare, anche con la
nostra astensione, è che, indipendentemente da chi tu scelga, ad
essere confermata sarà comunque la struttura sociale dominante. La
quale è basata appunto sulla delega di potere. Che questa delega
venga data al PCI, al MSI o alla DC è sostanzialmente irrilevante
rispetto al fatto che comunque questa delega di potere - una delega
tutto sommato in bianco - viene comunque assicurata.
Facciamo un salto
indietro. Poco fa tu hai accomunato le elezioni politiche a quelle
amministrative e addirittura ai referendum. A me pare che ci siano
differenze sostanziali tra loro. Per quel che
riguarda le amministrative, mi pare curioso che proprio voi, che
parlate di rivalutare le comunità "dal basso", a dimensione
umana, vi estraniate pregiudizialmente da meccanismi che sono molto
diversi da quelli del potere centrale. Sui referendum,
poi, proprio non vi capisco. Qui non è in ballo una delega di
potere, ma semplicemente il diritto di esprimere un'opinione in
merito ad una determinata materia. È
vero che attualmente in Italia i referendum possono essere solo
abrogativi, ma proprio per questo mi domando in base a quali
considerazioni vi rifiutate di parteciparvi. Non arrabbiarti, ma ho
il forte sospetto che, comunque mascherato, voi siate ammalati di
"astensionismo cronico".
Per quel
che riguarda le amministrative, si potrebbe pretendere un
atteggiamento diverso da parte nostra, se in effetti esse fossero
"altra cosa" rispetto al sistema politico-amministrativo
centrale. Esse invece ne sono un elemento costitutivo, omogeneo
e subordinato al potere centrale. Tutt'altra cosa, appunto,
da quella concezione federalista - che affonda le sue radici anche nei
filoni più radicali della tradizione risorgimentale - che ci è
propria: in essa, le "autonomie locali" (per usare
un'espressione tanto cara alla sinistra) sono viste
come elemento di rottura e di opposizione alla cultura ed agli schemi
organizzativi di una società statale.
Lo stesso
ragionamento - lo ammetterai, spero - non vale per i referendum.
Fino ad un certo
punto, mio caro. Noi non contestiamo lo strumento referendario in sé.
È l'uso che ne viene fatto, il contesto in cui esso è oggi inserito
che ce lo fanno sentire estraneo. Permettimi una citazione. "Le
consultazioni - ha scritto Andrea Papi sullo scorso numero -, unico
minimo momento di pacata partecipazione popolare, sono viste e
valutate non tanto per il senso di partecipazione di base, che se pur
blandissimamente in qualche modo esprimono, quanto come esclusivo
momento di consenso e di manipolazione. Sia le elezioni che i
referendum vengono svuotati del tutto della loro valenza
partecipativa, per essere immessi all'interno della logica e
dell'etica intriganti, che contraddistinguono i movimenti e le scelte
dentro i corridoi del Palazzo". È stato lo
stesso Andrea, in due articoli molto chiari apparsi sulla rivista
("Il nanocurie e la scheda" e il citato "Votate gente,
votate", rispettivamente su "A" 138 e su "A"
145), a sviluppare il nostro ragionamento in merito. Con sole 6.000
lire ti vendo seduta stante questi due arretrati e la tua curiosità
è soddisfatta.
Sai benissimo che
li ho già letti. Risparmia per migliori occasioni il tuo spirito di
venditore. E già che fai lo spiritoso, rispondi a questa domanda
impertinente: come mai usi sempre la formula "noi anarchici
qui", "noi anarchici là", quando poi - in pratica - ci
sono anarchici che invece in occasione dei referendum vanno a votare?
Ti dico questo perché proprio ieri ho incontrato due tuoi compagni
di fuori Milano che mi hanno detto che loro non sono d'accordo con la
vostra scelta astensionista e che andranno a votare (non solo, ma nel
loro paese hanno anche aiutato, a suo tempo, a raccogliere le firme
necessarie per la presentazione dei referendum).
Non sono certo
gli unici. Pensa che anche in occasione del primo referendum della
storia italiana - quello istituzionale del '46 - ci furono alcuni
militanti anarchici (mi viene in mente
Mario Mantovani, che in seguito sarà redattore de Il
libertario e di Umanità
Nova) che, in contrasto con l'astensionismo della
stragrande maggioranza del movimento,
sostennero pubblicamente che la scomparsa della
monarchia valeva bene un voto. A partire dal
referendum sul divorzio (1974) in poi, si è sempre
ripetuto il dibattito in campo anarchico
tra fautori della partecipazione e dell'astensione. La cosa potrebbe
far impressione in un partito o comunque in un movimento
che pretenda di esprimere sempre e comunque una sola linea, la Linea
con la elle maiuscola. Tra noi il
dibattito è sempre stato vivace, a tratti surriscaldato. Soprattutto
perché, a mio avviso, al di là della scelta contingente di votare o
di astenersi, è in gioco tutta una concezione dell'impegno sociale
e, in particolare, del ruolo degli anarchici. Ma quello che qui mi
preme sottolineare è che la presenza di diverse pratiche ed anche, a
monte, di differenti concezioni dell'anarchismo - sempre nell'ambito
del pluralismo anarchico - non è necessariamente
motivo di debolezza o di inconcludenza per un movimento come il
nostro, che certo avrà tanti difetti ma non quello di essere o voler
essere monolitico.
Ti seguo con
attenzione, ma non mi convinci. Dietro i tuoi ragionamenti continuo a
cogliere quei sintomi di "astensionismo cronico" che ti
accennavo prima. Ne ho trovato conferma - scorrendo le annate di "A"
- nel vostro rifiuto di "piegarvi" a votare per la lista
del Manifesto alle politiche del 1972, quando appunto Il
Manifesto candidò Pietro Valpreda - allora detenuto da quasi
tre anni per la strage di piazza Fontana. Per voi anarchici valeva di
più un'astratta coerenza ad un principio, che non la possibile
scarcerazione di un vostro compagno. Non ti pare, oltre al resto, un
po' cinico?
Innanzitutto
un'osservazione. Hai fatto bene a dire "voi anarchici",
perché la decisione di confermare anche in quell'occasione il nostro
astensionismo fu, per così dire, "ratificata" da un
Convegno nazionale anarchico tenutosi a Carrara l'8-9 aprile '72,
alla presenza di circa 300 militanti. Ed ora entriamo
nel merito. La questione delle candidature-protesta si pose già a
fine '800, quando i socialisti ed altre forze politiche di sinistra
offrirono ad anarchici e ad altri "sovversivi" la
possibilità di uscire di galera venendo eletti in Parlamento. Ecco
che cosa scriveva in proposito, nel marzo di 90 anni fa, Errico
Malatesta sulle colonne del giornale anarchico anconetano
L'agitazione: "(...) I nostri compagni di Roma portano
candidato l'amico nostro Luigi Galleani, domiciliato coatto, ed altre
candidature-protesta pare siano state messe in altri posti. È
difficile e penoso per noi dire franca e schietta la nostra opinione.
Quando degli uomini che noi stimiamo ed amiamo e che molto hanno
fatto e più ancora faranno per la causa nostra, stanno in galera o
al domicilio coatto, e si propone un mezzo per farli mettere fuori,
come si fa a dire, per quanto cattivo sia il mezzo: no, lasciateli
dentro! Nullameno faremo
forza a noi stessi ed apriremo intero l'animo nostro. Se altri ci
troverà troppo intransigenti, ce lo perdoni in considerazione che in
carcere ed al coatto ci siamo stati anche noi, che siamo esposti a
tornarci e che possiamo permetterci di essere severi con gli altri
perché abbiamo la coscienza che sapremmo essere severi con noi
stessi. In quanto agli amici candidati essi ce lo perdoneranno di
certo perché essi sapranno apprezzare i nostri motivi: anzi di
alcuni di loro sappiamo che sono completamente d'accordo con noi
sull'argomento. La
candidatura-protesta, soprattutto quando si è sicuri che l'eletto
non vorrà ad alcun costo fare il deputato, non è per se stessa
contraria ai nostri principi e nemmeno alla nostra tattica; ma è
nullameno una porta aperta all'equivoco ed alle transazioni. È il
primo passo su di un pendio sdrucciolevole sul quale è difficile
arrestarsi. (...)". Le motivazioni
di fondo accennate in questa citazione di Malatesta restavano valide
anche per la candidatura di Valpreda nel Manifesto (e lo sarebbero
oggi per casi analoghi). Il sospetto di cinismo non ci tange: eravamo
talmente impegnati nella campagna di solidarietà e di
controinformazione sulla strage di Stato, che tutto ci poteva venir
rimproverato, che non fosse però il disinteresse per la sorte dei
compagni in galera. Il motivo per
cui invece molti ci accusarono allora di insensibilità e di
settarismo è che non si è abituati a fare i conti con movimenti -
come il nostro - per i quali motivazioni contingenti, tatticismi
politici do-ut-des, ecc. ecc. contano molto meno della convinta (e,
se necessario, sofferta) "testimonianza" vissuta, in
coerenza con quanto si afferma.
Senti, sono stato
anche a sentire la citazione di Malatesta. Conoscendoti, dovevo
aspettarmela prima o poi. Ora mi merito proprio un buon caffè. O no?
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