Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 16 nr. 142
dicembre 1986 - gennaio 1987


Rivista Anarchica Online

Né anarchica né conformista"
di Guido Montana

Guido Montana vive e lavora a Roma. Critico e saggista, collabora a numerose riviste d'arte. Vicino alle idee libertarie ha collaborato ad "Umanità Nova" e fu presente, nel lontano 1971, alla fondazione di "A - Rivista Anarchica", proponendone la testata.

Interrogarsi sul significato dell'arte è un po' come volere dare un senso all'esistenza dell'anima. Questo almeno secondo il concetto che, sia pure attraverso notevoli modificazioni, si è venuto affermando nell'epoca moderna. Termini come "inesprimibile" non sono più di moda, ma ancora oggi l'analisi critica dell'oggetto artistico non è riuscita a svincolarsi dal metodo letterario emozionale e l'arte resta tuttora razionalmente un fenomeno "arbitrario", sostanzialmente inconoscibile. Il carattere soggettivo della sua interpretazione è stato anzi accentuato dalle avanguardie storiche e da tutto ciò che ne è seguito sul terreno dell'inconoscibilità. Dare un giudizio sull'arte non può quindi prescindere dagli strumenti di lettura delle opere e dalla credibilità del metodo. Applicandosi a un fenomeno che ha carattere storico, culturale e psicologico, il metodo non potrà essere che di tipo evolutivo e dialettico.
Occorre intanto dire che il giudizio soggettivo riguarda una condizione culturale e umana che si è realizzata nello spirito del Capitalismo, di una civiltà cioè che, tra le altre cose, ha segnato il passaggio dall'oggetto artistico inteso come produzione sociale, all'oggetto estetico giudicato e fruito individualmente. L'arte come oggetto di contemplazione estetica soggettiva venne a realizzarsi con la nascita dei sistemi sociali opulenti e classisti di tipo capitalistico, laddove la circolazione dell'oro e del denaro ha una insostituibile funzione egemone, diciamo etica. È cioè diffuso nella società un comportamento finalizzato che ha i caratteri del modello culturale, pur non avendo alcun riferimento alle reali esigenze della creatività sociale. L'arte che ne deriva avrà quindi la tendenza a garantirsi il consenso di quei ceti egemoni che siano in grado di promuoverla, sostenerla, goderla e compensarla. Non potrà quindi mirare che all'interesse individuale o elitario. È l'arte che conosciamo, cioè un'arte che in realtà "capitalizza" la forma per un uso passivo, non culturale, dell'artistico e dell'estetico. Tutto questo fa parte dello spirito delle civiltà di tipo capitalistico, in cui la creatività non è più elemento costruttivo della produzione sociale, ma solo una manifestazione intellettuale di categorie elitarie che comunicano "artisticamente" con una cultura altrettanto separata e ritenuta superiore.
Basandosi concretamente sul potere espansionistico dell'oro e del denaro, e spesso delle armi, le grandi civiltà di tipo capitalistico hanno cambiato radicalmente la funzione dell'arte. Non più comportamento culturale nella sostanza egualitario, fondato sulla creatività sociale e la memoria tecnica, ma atteggiamento di tipo elitario, riconoscibile e valutabile. Con l'impero romano si ebbe il primo e più importante uso capitalistico della creatività artistica. Le connotazioni essenziali dell'uso capitalistico dell'arte sono infatti le seguenti: l'oggetto artistico è un valore non necessariamente interno alla cultura sociale; per questo basta "appropriarsi" dell'arte, per poterla fruire, collezionare, ecc... Così fecero i Romani con l'arte greca ed egizia, che prima rapinarono e poi "imitarono" attraverso il lavoro artistico degli schiavi e dei liberti. Ma questo, se riflettiamo un po', avviene ancora ai nostri giorni. Non si comportano diversamente i grandi capitalisti in USA, che accolgono nelle loro collezioni private i frutti del saccheggio della nostra arte del passato, i tesori archeologici, ecc... Con la concezione elitaria di tipo capitalistico, la creatività artistica cessa infatti di appartenere alla cultura sociale di un popolo e diviene oggetto di scambio o di rapina in quanto produzione speciale e di prestigio. L'arte cioè diviene uno status symbol per le classi che detengono la ricchezza e il potere.
Sotto questo aspetto ha acquistato sempre più importanza il discorso soggettivo, in quanto l'arte divenendo un bene elitario e uno status symbol, promuove anche quell'attività speciale che ha il compito di riconoscerne la qualità e il valore, e cioè la critica. Sin dall'antichità le figure del collezionista e del mecenate hanno svolto una funzione critica e di selezione degli artisti, che ha accentuato il carattere privilegiato ed elitario dell'arte. La Firenze dei Medici è esemplare per una situazione di questo genere. È l'epoca in cui l'esigenza della massima esaltazione del principe concorda con la maggiore qualificazione artistica e civile dei pittori, degli scultori e degli architetti che si mettono al suo servizio.
Nell'epoca contemporanea l'esperienza socialdemocratica di Weimar e del Bauhaus non riuscì a risolvere il problema dell'artisticità diffusa e di massa. Il tentativo di Gropius e compagni sostanzialmente fallì e non solo per l'avvento del Nazismo. In realtà l'artisticità di massa, concepita come produzione culturale di un popolo, viene respinta dalla concezione elitaria dell'arte che è tipica di una condizione sociale capitalistica, nella quale l'arte per le masse non esula dagli stessi interessi dell'industria, restando nei limiti seriali del design. Da questo punto di vista ritengo che tuttora il cosiddetto messaggio artistico sia "fruito da pochi privilegiati", con la differenza rispetto al passato che oggi il sistema promozionale dell'arte non riesce a produrre una legittimità culturale accettabile. Tradotto in termini di comunicazione, questo vuol dire che si realizza un accumulo informazionale che va oltre la specificità del messaggio, per cui l'arte che viene prodotta riesce ad affermarsi, come merce privilegiata, solo in quanto valore indotto, determinato dal sistema dei media. E questo, indipendentemente dalla selezione e dalla scelta di tipo estetico o culturale. In realtà non viene acquistato l'oggetto artistico in sé, ma solo il suo accumulo di informazioni, cioè tutto quello che promuove l'oggetto descrivendolo e interpretandolo massivamente. Altro che consumo di massa della cultura artistica! Non consumiamo in effetti cultura, ma solo la sua descrizione visiva e verbale più efficiente pervenuta al successo, mercantile e spettacolare.
Ciò che in realtà "funzionava" fino a qualche decennio fa, era il lavoro del collezionista, che sorretto da una buona preparazione culturale, dall'intelligenza e da una discreta dote di intuizione, sapeva quasi sempre scegliere bene anticipando in alcuni casi le stesse opzioni della critica. Si pensi per esempio a Vollard. Ma oggi questo tipo di collezionismo è stato emarginato, rispetto alle scelte essenziali e alle opzioni sulle nuove tendenze. Ha acquistato sempre più importanza l'aspetto manageriale dell'arte. Il ruolo decisivo non compete più al collezionista colto e intelligente, criticamente audace nelle scelte ma estremamente obiettivo. Contano di più i nuovi ricchi, i manager che hanno invaso il campo della cultura artistica, il dinamismo spregiudicato di taluni direttori di musei, soprattutto stranieri, i critici militari e d'assalto. Non è esatto dire che la comprensione dei contenuti dell'arte attuale "rimane ai pochi che possono accedere al linguaggio necessario per la lettura". In realtà i "pochi" hanno un limitato interesse a capire l'arte che viene prodotta, cioè la sua obiettiva genesi. Si contentano di calcolarne la quantificazione di prestigio e il valore di scambio. Non si acquista più l'arte come opzione e scelta sia pure privilegiata, ma solo per entrare nel gioco e nel possesso di valori resi ufficiali dal sistema promozionale e dal mercato. Lo stesso status symbol è ora associato all'idea del "marchio" artistico di fabbrica, giudicato molto più importante di ciò che l'oggetto rappresenta o artisticamente lascia intendere.
Ritengo molto improbabile che un'arte destinata ai programmi multinazionali del mercato possa avere all'origine un valore di rottura. Per cui non disprezzerei il piacere "narcisistico" di creare. Sarebbe quantomeno una chance che l'artista riscopre contro l'attuale finalità del sistema di produzione e consumo dell'arte, come dire una sorta di astuzia del fare per riappropriarsi almeno in parte della libertà creativa, in una società classista e in una cultura basata sul privilegio. Per il resto non facciamoci molte illusioni. Allo stato attuale dei fatti non esistono tendenze autenticamente utopiche, poiché non esistono artisti organicamente capaci di atti di coerenza libertaria, almeno nella situazione che si è determinata nell'odierna cultura. Quella degli artisti è ancora oggi una categoria bensì separata, ma funzionale agli interessi degli operatori economici dell'arte, i quali difficilmente potrebbero essere emarginati, in quanto padroni delle stesse strutture promozionali e informazionali da cui gli artisti professionalmente dipendono.
In realtà l'arte non è né anarchica né conformista, produce solo, o dovrebbe realizzare, elementi di qualità e libertà espressive, che a volte la società riconosce come propri e altre volte respinge o semplicemente strumentalizza per motivi politici, economici, gestionali, di potere, ecc... Tra i compiti dell'artista non vi è necessariamente quello di essere anarchico; deve solo essere autenticamente espressivo, correggendo l'esteticità e il gusto suggeriti o imposti, inautenticamente da un determinato sistema di condizionamenti culturali. Mondrian per esempio non può certo definirsi un artista anarchico, ma è stato quello che probabilmente ha saputo indicare con maggiore autenticità e radicalità il concetto di arte-vita, di esistenza artisticamente liberata dall'angoscia del dramma quotidiano. Ed è questa una funzione libertaria, in quanto l'utopia anarchica (e anche il Neoplasticismo è utopia) tende o dovrebbe tendere, credo, a liberare la condizione umana dalla disarmonia, dai pregiudizi, dalle separazioni settarie e oppressive, dalla stessa visiva volgarità del potere, che si costituisce proprio attraverso il "dramma" della società divisa e condizionata dalla cultura del privilegio.