Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 16 nr. 142
dicembre 1986 - gennaio 1987


Rivista Anarchica Online

Io, sfrattata
di Lella Bodrato

Una delle migliaia di vittime degli sfratti e della burocrazia racconta la sua esperienza, tutt'altro che conclusa.

40 giorni di sgomberi selvaggi, tremila sfrattati tra cui vecchi e bambini - sistemati negli alberghi a spese del comune - 40 mila vani previsti dal piano casa all'inizio degli anni '80 ma neppure un appartamento ultimato. Ecco la situazione della "civilissima" ed efficiente metropoli lombarda che ha portato recentemente al solito provvedimento-tampone della proroga. E intanto? Intanto il comune paga cifre astronomiche per la permanenza negli alberghi, intanto 3.000 persone vivono da mesi lontano dai loro quartieri, sradicati dal loro tessuto sociale, in una situazione di totale precarietà aspettando - come il famoso personaggio di Beckett - che insieme a Godot arrivi anche una casa in cui poter vivere (pagando l'affitto, naturalmente!).
Tra questi 3.000 c'è un'amica libertaria che ha voluto raccontare cosa significa vivere una simile esperienza, che ha voluto denunciare le umiliazioni, la violenza, le sopraffazioni che questo stato "democratico" riserva a chi non ha soldi né potere attraverso i suoi fedeli servitori (efficientissimi gli ufficiali giudiziari, ma conniventi tutti i ranghi della burocrazia).
Lella Bodrato, 50 anni, un figlio di 15 anni che ha allevato da sola, è infermiera professionale e cerca di sbarcare il lunario con il suo lavoro come assistente sanitaria e con assistenze private. È ovvio che non abbia mai pensato a comprarsi una casa. Come avrebbe potuto? Una volta ricevuto lo sfratto, quindi, aveva due possibilità: cercare una casa in affitto (ma si sa che sono introvabili, e comunque a canoni inaccessibili per chi non dispone di redditi molto elevati) oppure accettare di vivere fino in fondo l'esperienza sfratto e farsi assegnare una casa popolare.
Lella ha scelto (ma si può parlare di scelta?) quest'ultima. Ecco la sua testimonianza.


Abito in uno stabile di via Barelli al 5 dal giugno del '71: mi ero trasferita dalla casa di via Bragadino perché aspettavo Giulio e sarei stata più comoda per il lavoro. Ci sono rimasta col bambino fino ad oggi. Fino a quando si è parlato di sfratto. Le proprietarie sorelle Rapp, non potendo più affrontare le spese, decisero di vendere. Così, nell'autunno dell'82 gli operai iniziarono a rimettere a nuovo la facciata che andava a pezzi, nel tentativo di ridarle un aspetto presentabile in previsione della vendita. A quel tempo avevo chiara la sensazione di entrare in una situazione di precarietà e di disagio che sarebbe durata diversi anni. Pensandoci, il vero inizio fu proprio quello.
Finiti i lavori, la casa sembrava nuova, anche se era solo un'apparenza. Cominciammo a ricevere visite di agenti immobiliari che ci invitavano insistentemente a comperare, dipingendoci a fosche tinte le peripezie che avremmo dovuto affrontare nel caso contrario. Nei miei confronti prendevano sempre Giulio come motivazione: "Lei poi che ha un figlio non può fare altrimenti: glielo deve!". Ne avevo un po' pena.
Il giorno 25/2/83 ricevemmo (eravamo 28 famiglie circa) lo sfratto. Fu il primo dei "pezzi di carta importanti" e, anche se era scontato, ci fece effetto. Fu come entrare in un labirinto da cui chissà quando saremmo usciti. Per la prima volta venivamo a contatto con una terminologia inconsueta che a poco a poco sarebbe diventata abituale.
Per alcuni mesi non ci furono cambiamenti: continuavamo a versare l'affitto alla vecchia amministrazione. Alcuni di noi avevano acquistato il loro appartamento. Il mio vicino aveva anche preso una delle mie due camere, quella adiacente alle sue. Il tinello e i servizi li aveva comperati una vecchia signora in pensione. Chi aveva acquistato l'aveva fatto in linea di massima per evitarsi lo stress dello sfratto e a prezzo di molti sacrifici.
La mia nuova proprietaria voleva entrare subito ed era molto preoccupata di dover aspettare. Il 13 maggio '83 arrivò un avviso di "finita locazione" dal tribunale e il mese dopo la conferma dello stesso.
Diverse volte ci recammo al SUNIA per chiedere consigli sul modo di comportarci. Gli avvocati ci invitarono a presentarci tutti alla televisione per una protesta, ma poi non se ne fece niente perché noi inquilini non eravamo molto uniti e ciascuno pensava ai fatti suoi. Gli avvocati ci dissero che all'udienza in tribunale, fissata per dicembre '83, non dovevamo "opporci alla sentenza ma affidarci alla decisione del giudice". La "clemenza" del giudice fece sì che, in dicembre, ci fosse concessa una proroga di 10 mesi.
Nell'ottobre dell'84 avremmo dovuto presentare i documenti per l'istanza di rifissazione in base alla legge n.94 (Nicolazzi) che ci avrebbe prolungato la proroga di un anno facendoci arrivare fino all'ottobre dell'85. E così si fece. Nel frattempo io chiedevo in Comune se mi era permesso di fare la domanda per le case popolari essendo l'unica soluzione possibile per me, ma mi rispondevano che, non essendoci il bando di concorso, non era possibile. Così non l'avrei fatta la domanda e mi sarei trovata all'ultima proroga fuori casa nella necessità di affidarmi ad un legale che non avrei saputo come pagare.

Quello scantinato buio e polveroso
Mi fu d'aiuto una collega iscritta ad un sindacato autonomo che mi preparò la domanda per l'edilizia popolare e la inoltrò. Devo esserle molto grata perché fu un passo importante nella storia dello sfratto. Sembra che si usi dissuadere la gente a fare la domanda con la scusa che non c'è il bando: domande in meno insomma! La domanda fu presentata nell'agosto dell'84. Appena in tempo. Da ricordare un episodio a conferma della solita efficienza della macchina ministeriale. Sulla nostra sentenza di sfratto (mia e della mia vicina Enrica) la segretaria dell'avvocato delle sorelle Rapp aveva fatto un errore di data: un semplice errore che dall'85 riduceva all'84 l'anno della proroga finale. Una bazzecola che mi obbligò ad andare a casa dell'avvocato a fare correggere la "svista" e poi ci indusse a tornare al "Palazzo di Giustizia" per far cambiare la data sulla copia. Ma in tribunale la nostra pratica era già in archivio e di personale disponibile per la ricerca non ce n'era. Così, l'Enrica (ottantenne) ed io passammo due ore nello scantinato buio e polveroso a cercare tra mille scartoffie la nostra. Quel giorno tornammo a casa sporche, stanche e avvilite.
Cominciai a versare gli affitti trimestrali ai nuovi proprietari. Il mio vicino è sempre stato preciso e con lui tutto è filato liscio nei versamenti. L'altra non mi ha mai mandato una "nota spese" né una ricevuta per cui ogni volta è stato uno stress terribile indovinare quello che le dovevo. Ancora adesso non so se sono in debito o in credito.
Ricordo l'ansia che ci ha preoccupato nei mesi prima della proroga per la legge Nicolazzi. La conferma è arrivata nel giugno dell'85, quando dall'ottobre dell'84 noi avevamo esaurito la proroga che il giudice ci aveva concesso nel dicembre '83. Insomma per 6 mesi noi non sapevamo niente di preciso se avremmo avuto la proroga o no! Tutte le nuove convocazioni arrivavano ora a nome del mio vicino e dell'altra proprietaria.
Il 24/1/85 arrivò l'ordine di precetto. Fu la prima volta che dovetti andare al "Pirellone" o Palazzo del Comune di piazza Einaudi a portare un foglio di proroga. L'Atto di precetto mi intimava di lasciare libero da persone e cose il mio appartamento entro 10 giorni.
Andai a Palazzo Pirelli alla mattina alle 8: vidi una gran folla di gente che gridava e gesticolava. Tutti erano ammassati in un esiguo spazio con un caldo incredibile e un'aria irrespirabile. La prassi mi era nuova: confesso di avere avuto un attimo di panico e un netto rifiuto mi obbligò a scappare via e a tornare a scuola senza aver combinato niente. Il medico scolastico mi disse quel giorno molto realisticamente che non dovevo fare storie e che temeva che la cosa sarebbe entrata a far parte del "quotidiano" e che la dovevo accettare. Dentro di me continuavo a ripetere che non era possibile, che a me non poteva succedere, che io avrei usato un sistema diverso!
E per quella volta infatti chiesi il privilegio, e lo ottenni, di farmi aiutare da commessi comunali che conoscevo da tempo immemorabile. Mi andò bene, non feci nessuna fatica: salii per scale segrete e attraverso corridoi interni arrivai allo sportello senza fare coda. Insomma mi si fece "passare". Solo che, quando vidi tutta la gente dietro di me, e mi resi conto che erano tutte persone che da giorni aspettavano di essere ricevute, mi vergognai come un ladro e giurai che quella era la prima e l'ultima volta che avevo accettato "il privilegio".
Effettivamente per tutti gli altri invii dell'Ufficio Giudiziario ho seguito la prassi cosiddetta normale anche se è la cosa più allucinante che mi sia mai capitata. Quello che è grave è che ci hanno ridotto a un punto tale di stanchezza e di insofferenza che abbiamo perso di vista le vere dimensioni del problema e siamo entrati in un'ottica assurda per cui questo "iter" assolutamente fuori dalla norma ci sembra l'unica via possibile. Soltanto in rari momenti mi accorgevo che stavo vivendo un'esperienza inaccettabile e allora, data l'impossibilità a fare qualcosa per cambiare la situazione, mi riempivo di rabbia.
Dopo il precetto è arrivato "lo sloggio". Il solo fatto di considerare questi termini non come astrazioni ma come cose concrete che venivano a far parte della nostra vita ha del patologico.

Al miglior afferrante
Per lo sloggio andai al palazzo una mattina che c'era una gran confusione. Non si era ancora costituito quel corpo volontario che avrebbe messo un po' di ordine nelle file della gente che attendeva: sarebbe arrivato pochi giorni dopo e avrebbe fatto senz'altro molto comodo all'amministrazione e ai vigili.
Il giorno che andai per avere il numero o meglio il biglietto col numero (che serve per andare a portare il foglio di proroga) non ci fu bisogno di aspettare molto una volta entrati nell'atrio (si aspettava comunque da ore prima dell'apertura dell'Ufficio, per la strada). Un commesso forse indeciso sul da farsi o intimorito dalla massa (chi gli poteva dar torto?) per non farsi avvicinare troppo dalla gente, gettò in aria i biglietti come offrendoli al miglior "afferrante". Io non riuscii ad afferrarne neppure mezzo. Mi presi quel giorno una gomitata nello stomaco che si trasformò in una fastidiosa dolorosa nevrite intercostale duratami per molto tempo. Quel giorno non feci niente ma ricordo che parlando con una vecchietta venni a sapere che a volte i numeri venivano venduti e c'era gente che aveva pagato anche 100 mila lire per ottenerli. Non ho mai avuto occasione di vedere lo scambio personalmente: l'ho solo sentito raccontare.
Durante le mie "visite" al palazzo mi ha colpito dolorosamente la presenza degli anziani, la loro fatica, la loro sofferenza, i loro disagi. A volte c'era accettazione paziente nella loro attesa, a volte invece ribellione orgogliosa e fiera: sempre comunque la loro presenza mi è stata di aiuto e di incentivo a non mollare. Sono passati ormai molti mesi da quei primi giorni ma ho presente come fosse ieri tutti quei visi, quelle voci, quelle storie.
Tornai il giorno dopo ma, essendosi costituito quel gruppo di volontari, mi dissero di tornare la sera per le 21. La sera andai e mi ritrovai insieme a 300 persone in un salone a piano terra. Eravamo pigiati e sudati, qualcuno fumava e molti stavano male.
Alle 21.30 i volontari cominciarono a leggere i nomi su una lista che era stata compilata quella stessa sera. I primi 140 numeri dovevano presentarsi il giorno dopo in mattinata e nel pomeriggio. Io ricevetti un numero alto, così avrei dovuto ritornare la sera dopo per avere un numero più basso e potermi ripresentare l'indomani in giornata; ovvio che il numero serve per andare e portare il foglio di proroga! C'è una signora anziana che viene da Crescenzago e ha lasciato a casa il marito paralizzato; ogni tanto chiede al "signore" in milanese di "far presto, lo sai che lui ha bisogno di me!".
Qualche giorno prima, mi dicono, una donna operata di cancro al seno, tornando da piazza Gorini, dopo l'intervento e la degenza, ha trovato la porta sigillata per sfratto eseguito. Vorrei conoscere l'ufficiale giudiziario e l'avvocato che hanno potuto fare una cosa simile. C'è gente di ogni colore, anche coreani. I bambini di colore sono bellissimi. Mi diedero quella sera il numero 140 e la sera dopo ottenni il 33.
Il 33 mi dava diritto al pomeriggio. Fu allora che l'impiegato allo sportello non trovando la mia pratica mise in dubbio che avessi mai presentato la pratica stessa. Quel giorno ebbi un attimo di panico: che fosse vero, che l'avessi solo sognata tutta quella storia? "Ma non è possibile" ricordo la mia voce stridula per la paura "Ci deve essere! Forse non ha capito il nome: è un nome difficile".
"Per sua norma io capisco i nomi, siete voi che non scandite bene le parole".
Alla fine la pratica è saltata fuori. Non è una cosa inconsueta: succede anche che vadano perse. Ho parlato con un muratore che ha dovuto rifare tutti i documenti e, per di più, loro non credevano che a suo tempo avesse già presentato la pratica! Quella volta ho preso un tale spavento!

La vecchia signora piangeva
Devo dire che ogni volta che mi sembra di non poterne più e rasento la disperazione viene sempre qualcosa a tirarmi fuori. Spesso è il racconto di qualche esperienza più disperata della mia, talvolta una forza che mi viene dal di dentro che mi dice che non devo cedere. Insomma mi risollevo sempre e ricomincio. Se penso a tutti i giorni di permesso che mi è costata 'sta storia! Anche quando deve venire l'ufficiale giudiziario in casa perdo i giorni di lavoro. Non so mai a che ora arriva! A volte i proprietari vengono anche loro ad aspettarlo insieme a me. La vecchia signora un giorno piangeva disperandosi. Sia a loro che a me sembra che non verrà più il tempo in cui questa allucinante storia sarà solo un ricordo!
Dopo lo sloggio cominciarono ad arrivare le proroghe mensili: marzo, aprile, maggio, giugno, fino al 20/6. Seguì una "proroghetta" di 10 giorni fino al 30/6 concessa a tutti. Poi, per luglio dovevamo andare in casa albergo. Invece arrivò per tutti la proroga fino ad un giorno non precisato di settembre. Sono a questo punto ora. Stiamo aspettando. La pausa dell'estate ci ha un po' ritemprati, nonostante il disagio del caldo. Durante questi mesi, ogni qualvolta andavo a palazzo Pirelli trovavo dei cambiamenti nella prassi. Non si dovette più andare la sera ma la mattina presto. Mi capitò di arrivarci alle sei col primo metrò. La mattina ci si metteva in lista poi si tornava il giorno dopo, sempre a seconda del numero. Un episodio rilevante da ricordare è quello di quel vecchio signore di 80 anni buttato fuori dalla "forza dell'ordine" per sfratto esecutivo che, avendo rifiutato la "casa albergo" passò quasi tutta la notte fuori dal palazzo. Tra l'altro era il periodo delle nevicate. Quando aprirono gli uffici alle 8 lui non si reggeva più in piedi e dovettero portarlo dentro a braccia. Gli dettero del the caldo e poi lo portarono dal Signor Assessore all'Edilizia che, per quell'occasione si concretizzò. Quel giorno ci fu un urlo di ribellione quando si vide quel vecchio portato dentro di peso. Quel vociare irato ci fece capire che non eravamo vinti del tutto, che si poteva ancora trovare la forza di protestare. Ogni tanto la nostra dignità di esseri umani saltava fuori.
Io devo alla meravigliosa gente che ho incontrato in quelle stanze, se non ho perso la voglia di lottare. Donne, uomini, gente del sud e milanesi e anche dell'Eritrea e della Somalia, tanta gente con tutte le loro storie e col loro coraggio. Molte volte mi sono sentita piccola al loro confronto; forse l'esagero un po' questa via crucis, c'è di peggio, c'è di peggio!
Dopo la terza proroga che arrivava fino al 16/5/86 la minaccia della casa albergo diventò un'altra realtà quotidiana. Molte famiglie, anche numerose vi erano alloggiate con il disagio che si può immaginare. Ogni otto giorni bisogna andare al palazzo a farsi dare i buoni per l'albergatore. All'albergo non si possono portare gli animali: e la nostra micia? La casa può essere sigillata e si porta via solo una valigia. E il computer di Giulio? In questi mesi già due volte abbiamo preparato la valigia e impacchettato il computer. Ma la micia rimaneva sempre un grosso problema.
Il 26/5/86 la COMMISSIONE COMUNALE ASSEGNAZIONE ALLOGGI mi aveva assegnato una casa E.R.P. (quelle più modeste per chi ha pochi soldi. Il tutto è puramente teorico perché non si sa quando o dove ma è, si dice, un passo avanti. Il guaio è che, essendoci l'assegnazione, io non posso muovermi da Milano perché tutti i momenti sono buoni e se non siamo a casa quando ci chiamano perdiamo il diritto alla casa. Mettiamo in conto anche questo: un'estate rovinata! Chi ce la renderà? Chi ci compenserà delle ansie, delle fatiche, dell'avvilimento, delle ribellioni dei nostri ragazzi che non vogliono accettare perché non capiscono? Qualcuno ci ripagherà di tutto questo? Che senso ha poi tutta questa storia che non ha avuto in tutto il suo svolgimento un solo momento logico?
Comunque a settembre, se l'assegnazione non diventa una realtà lo diverrà senza dubbio la casa albergo perché ormai sembra non esserci più alcuna possibilità di prolungare ancora l'abbandono della casa. E, forse, non sarebbe male andarcene, magari è l'unico mezzo per sollecitare l'assegnazione e mettere fine a questa incredibile, interminabile e insopportabile attesa.

Movimenti un po' impacciati
Sul foglio dell'ultima proroga non c'è segnata la data precisa del giorno in cui devo lasciare la casa. Suppongo che sia il 16/9 ma non essendo certa non preparo nessun bagaglio per quella data. La vicina di casa, che è la persona che deve entrare nella mia casa e che certamente essendo in contatto con l'avvocato (Russo) e con l'ufficiale giudiziario (dott. De Cuia), sa quando è il giorno dello sfratto ma non ne fa parola con me per paura forse che, sapendolo, io possa prendere tempo. Il giorno 16/9 arrivano insieme al fabbro per il cambio della serratura. Forte dell'errore dell'ufficiale giudiziario riesco ad ottenere una piccola proroga di dieci giorni tra la costernazione generale. Comunque il comportamento del mio vicino che, se gli fosse riuscito l'intervento a sorpresa, mi avrebbe fatto uscire senza neppure lo spazzolino da denti, mi lascia l'amaro in bocca. Nei giorni seguenti mi preparo ad uscire: sistemo le piante, porto gli abiti in un armadio che ho, vuoto, in sala medica e prendo accordi con Fausta per la micia.
La vicina non mi aveva dato molta speranza infatti sulla possibilità di lasciare queste cose e la micia in casa perché non sapeva (a suo dire) se la legge le avrebbe consentito di permettermi di entrare in casa una volta al giorno (in effetti la legge lo consente). All'inquilina del quarto piano che è nelle mie condizioni viene inspiegabilmente permesso di restare in casa invece di andare in albergo.
Arriva velocemente il 26/9 e arrivano di nuovo i nostri personaggi che devono "eseguire" lo sloggio in tutta fretta perché hanno premura. L'avvocato e l'ufficiale giudiziario mi fanno fretta affinché racimoli le ultime poche cose ed esca di casa così che il fabbro possa "fare il suo lavoro". Sul tavolo ho qualche cosa da "far su": una busta da toilette, una tessera del tram, la borsetta, l'inseparabile cartelletta marrone e la rivista "A". Mi costa fatica riunire il tutto perché i miei movimenti sono un po' impacciati ed io sto pensando ad altro. Sono così lontano col pensiero che non sento più le loro voci. Rivivo in un attimo tutti quanti gli anni passati lì con Giulio e ho un momento di smarrimento mentre mi assale lo spleen. Mi riprometto di non avere altri momenti di debolezza perché so di avere in futuro bisogno di tutta la mia forza per vivere i giorni che verranno. Il fabbro "fa il suo lavoro" ed io lo guardo mentre sono ormai sul pianerottolo. Lui vede "A" sui gradini della scala e osserva: "Non sapevo che gli anarchici avessero ANCHE un giornale". Già è tanto che sappia dell'esistenza di quegli esseri strani che sono gli anarchici e non si chieda troppo. Firmo un verbale dove mi impegno a non entrare per più di due ore in casa per preparare i bagagli e portare via i mobili entro il 31/10. Le chiavi resteranno alla portinaia.
Sia l'avvocato che il De Cuia ripetono che sanguina loro il cuore a fare queste cose ma non è colpa loro. Il ritornello "la colpa non è nostra" si ripeterà all'infinito in tutta questa faccenda.
Saluto tutti i vicini tra cui la cara Enrica e i Grison che dovranno andarsene tra un mese e vado a Palazzo Pirelli per l'assegnazione dell'albergo. Quella che mesi fa era solo una lontana eventualità diventa ora una realtà: si deve andare in albergo.
A palazzo Pirelli trascorrono cinque ore prima che mi assegnino l'albergo. Mi tocca il residence Leonardo da Vinci di Bruzzano che è un albergo elegante e costosissimo per il quale il Comune chissà quanto paga. Ci vado alla sera con Giulio e dormo per la prima notte fuori da casa mia.
Tutto sommato però non è una tragedia. Dopo otto giorni ritorno a palazzo Pirelli per il rinnovo del "buono" albergo e così per altri otto giorni sono a posto. Mio figlio sta con mia zia Ida perché sarebbe troppo lontano per lui andare a scuola il mattino.

Senza il bagno no
Dopo 16 giorni si arriva alla prima assegnazione di una vecchia casa in via Ricciarelli. La casa è vecchia ma all'esterno decorosa. Ci accompagna un custode-sorvegliante-capo fabbricato che dovrebbe farci vedere la casa. Questo signore si rammarica che io non gli abbia fatto una telefonata prima: è evidente che la sorpresa non gli fa piacere. Mi fa tornare due ore dopo, dice che i vecchi inquilini non gli hanno lasciato le chiavi e mi fa vedere una casa vicina che, a suo dire, è uguale. Comunque nella casa non c'è il bagno ed io la rifiuto comunicandolo a Palazzo Pirelli. L'impiegato mi dice: "Allora rifiuta?". "Perché non ci va lei in un posto senza bagno?". "Nella sua situazione io, grazie a Dio, non ci sono". Per un attimo mi sento addosso la colpa di essere io in questa situazione. Venerdì 17/10 torno a palazzo per il rinnovo del buono e non c'è nessuna nuova. Mi metto l'animo in pace pensando che il sabato e la domenica loro non lavorano ed invece mi viene una comunicazione per domenica 18/10. Penso con sollievo che è la prima volta che non perdo un giorno di lavoro per questa storia, e penso anche che sono bravi a lavorare la domenica.
Quando arrivo al Pirellone mi accorgo che loro sono lì solo per fregarci coi loro straordinari e che io era meglio che perdessi un giorno di lavoro piuttosto di dovere subìre l'ingiustizia che avrei subìto.
Mi era sembrato un po' strano il non vedere i soliti vigili e sindacalisti che in genere gli altri giorni stazionavano giù di sotto. Di vigili poi ce n'erano sempre troppi. Un po' sospetta mi presento allo sportello dove c'è tra l'altro una tizia che è madre di una alunna che abita nella nostra zona. L'impiegata mi mette sotto il naso la mia pratica e mi ingiunge di firmare per l'accettazione di un alloggio a scatola chiusa, senza possibilità di scelta, dicendo che se non accetto la sera mi ritrovo a dormire ai giardini. Come una scema firmo per accettazione.
Quando leggo l'indirizzo mi accorgo che è la via più scalcinata della mia zona: glielo dico e lei ha anche ii coraggio di dirmi che, in fondo non è male e che quando vedrò l'appartamento cambierò idea. Dentro di me mi auguro che a sua figlia insegni ad essere più sincera. Ritorno a Bruzzano a prendere mio figlio ed insieme andiamo all'indirizzo per contattare il solito custode che è quello dell'altra volta. Siccome è domenica lui non c'è così scopro che fa il gioco dello gnorri, perché prima permette agli abusivi di entrare nelle abitazioni, poi, all'assegnatario dice che non ha le chiavi. Ora dato che non c'è lui alla casa ci vado da sola e incontro l'inquilino abusivo che oltre tutto mi tratta male.

E tutto tace
Torno a palazzo Pirelli, faccio una scena da trivio urlando a più non posso e mi accorgo che più si urla e più si è ascoltati. Mi dicono di tornare in albergo e di aspettare la prossima chiamata. Io mi accerto prima che provvedano a riconfermare la mia stanza e poi me ne vado. Quando scendo trovo un cartello affisso al muro all'esterno del palazzo che dice: "Gli sfrattati che sabato e domenica hanno avuto un'assegnazione di alloggio occupato abusivamente o in condizioni inagibili o che comunque sono stati obbligati a firmare per l'accettazione prima di vedere la casa, subendo cioè un abuso di potere da parte dell'amministrazione, si presentino domani alla nostra roulotte". Firmato sindacalisti ecc.
La sera della domenica ho ancora la stanza in albergo. La mattina vado alla roulotte a dare il mio nome per protestare contro il tiro mancino che ci avevano giocato il giorno prima e la sera del lunedì, tornando in albergo, mi dicono che palazzo Pirelli ha disdetto la mia camera ed io non ho più diritto a dormire lì. Non riuscivo a capire ma, pensandoci bene non era poi così difficile.
Loro, quelle perle di correttezza, presi dalla frenesia di eliminare più gente possibile dagli alberghi, avevano comunicato una lista di nomi prima ancora di sapere se le persone che a quei nomi corrispondevano avrebbero o meno accettato o, per lo meno, potuto entrare nelle case loro assegnate; così il mio nome faceva parte del gruppo di gente che doveva per forza essere sistemato entro lunedì perdendo il diritto all'albergo, essendo destinato ad occupare una casa che in realtà non era occupabile. Per farla breve la notte mi si concedeva di dormire ancora nella stanza (concessione gentile del portiere) l'indomani altra visita a palazzo Pirelli e altro giorno di lavoro perso (chissà se i miei datori di lavoro leggeranno questa storia?). Il buono mi è ulteriormente confermato.
Ad oggi sono passati ancora 10 giorni ma tutto tace. I sindacalisti della "roulotte" mi dicevano l'altro giorno che noi che abbiamo firmato la protesta contro quel "trattamento speciale" non ne dovremmo subire altri: che sia vero?