Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 16 nr. 142
dicembre 1986 - gennaio 1987


Rivista Anarchica Online

Un po' di chiarezza
di Andrea Papi

C'è nell'aria un'esigenza sempre più impellente di separazione tra chi vuol continuare all'interno del proprio limbo e chi invece sente la necessità di un'inversione di tendenza nel far politica.

C'è nell'aria un'esigenza sempre più impellente di chiarezza. Chiarezza del senso delle proprie teorie e delle proprie pratiche; chiarezza della propria identità; chiarezza insomma del proprio esserci e del proprio agire. Senza acquistarla diventa sfibrante il dire, il fare e il proporsi. Qualsiasi movimento, pena la sua estinzione o, peggio, la mera sopravvivenza, non può trascinarsi a lungo nei meandri ambigui del proprio ghetto mentale e psicologico. Se vuole vivere deve superare l'ostacolo snervante della mancanza di chiarezza di se stesso.
La non chiarezza nostra risiede nel fatto che continuiamo a dire, in alcuni casi a blaterare, senza riuscire a trovare un modo coerente di fare, che sia il referente pratico del nostro stesso dire. Certo, le nostre affermazioni sono conseguenti, le più radicali, a volte talmente nette che non ammettono possibilità di insinuazioni o false interpretazioni. Mentre il nostro fare è quasi inesistente o, perlomeno, talmente circoscritto da non riuscire, quando ci riesce, che a proporsi a sé stesso. In definitiva non facciamo altro che parlarci addosso, senza riuscire ad interessare altri che noi o, quando va bene, qualche altro vagamente interessato, ma quasi mai disponibile.
Eppure l'anarchismo ne ha di cose da dire e, potenzialmente, da fare. Una proposizione politica rivoluzionaria, quale in effetti esso è, o riesce a proporsi sul piano fattivo della trasformazione, oppure è destinata a vagare nel limbo meramente astratto della letteratura utopistica che, se va bene, può anche diventare pasto prelibato di collezionisti o di amanti raffinati. Come anarchico sono convinto che nessun compagno in cuor suo desideri contribuire a una simile fine. Ma nel contempo sono convinto che, se non si riuscirà a trovar rimedio allo stallo che stiamo vivendo, tale fine diventerà ineluttabile, relegandoci negli studi poco allettanti dei ricercatori storici specializzati.
Non è difficile constatare quanto ciò che affermo corrisponda al vero. Quello che proponiamo, o più semplicemente diciamo, circola praticamente soltanto all'interno della nostra ristretta area composta quasi esclusivamente di compagni che, con varie sfumature, si riconoscono facenti parte del movimento anarchico. All'esterno di questa area la nostra influenza è di fatto inesistente, col risultato poco edificante e, soprattutto, molto poco incoraggiante, che di noi non si parla affatto. Non solo, le nostre tematiche e le nostre eventuali proposte non sembrano interessare a nessun altro che a noi stessi, al punto che qualunque cosa diciamo viene riferita soltanto dai nostri organi di trasmissione del pensiero, letti esclusivamente dalla stessa delimitata e limitante area prima menzionata.
Non apparteniamo insomma al dibattito generale sui problemi dell'emancipazione attorno ai quali oggi si muove la società.
Tuttavia le nostre tematiche sono sempre presenti. Personalmente mi riconosco all'interno del movimento anarchico dal mitico sessantotto e posso dire, per esperienza diretta, che le tematiche attorno a cui si sono mossi i vari movimenti sorti spontaneamente da allora sono sempre state libertarie, addirittura in certi casi anarchiche. Dalla contestazione dell'autorità e dell'autoritarismo, alla proposizione del metodo assemblare come momento decisionale, alla rotazione degli incarichi, c'è sempre stata un'esplicita richiesta nel senso della libertà che si opponeva alla cultura dominante del potere e della gerarchia organizzata. Ma a questo libertarismo spontaneo, da parte del movimento specifico non è mai corrisposta un'azione anarchica in grado di produrre il salto di qualità, necessario per passare da una generica richiesta a una proposizione politica rivoluzionaria. Di riffa o di raffa, il movimento anarchico nel suo complesso non è mai riuscito ad essere l'interprete del libertarismo espresso spontaneamente, come invece avrebbe dovuto essere secondo la natura delle cose. Al contrario si è sempre verificato che i professionisti della politica si siano impossessati di queste tematiche "nostre", per ricondurle dentro la loro logica autoritaria, per recuperarle al senso del dominio.

Uscire dal ghetto
A dire il vero, negli ultimi anni c'è stato un certo fermento, un tentativo di svecchiamento, una tensione di ricerca di chiarezza per dar corpo a un bagaglio teorico in grado di elevare l'intervento anarchico, ormai stremato da storiche sconfitte. Ma il punto non è questo. Il problema che vogliamo sollevare resta nel fatto che è un dibattere del tutto interno, circoscritto dentro il ghetto in cui, volente o nolente, si trova chiuso il nostro movimento. Si tratta essenzialmente di un dibattere fatto di parole, di una ricerca di concetti, mentre un movimento avrebbe oltremodo anche bisogno di agire, vivendo un confronto costante tra teoria e pratica. Se l'una a volte riesce anche ad essere interessante, l'altra irrimediabilmente langue.
La nostra propaganda è quasi solo verbale, sia orale che scritta, usufruente di strumenti poco adeguati all'oggi, periodici, libri al di fuori dei canali di distribuzione, manifesti, conferenze, a volte comizi. Uno stile senza dubbio dignitoso, ma non più al passo coi tempi. Siamo all'epoca dei mass-media in cui ogni individuo riceve quotidianamente una quantità enorme di informazioni, attraverso i quotidiani a grande tiratura, la radio, la televisione, la pubblicità massiccia di tutto. Subiamo un'inflazione esagerata di parole e di immagini, il cui effetto immediatamente dirompente è quello di rendere minime le riflessioni e la ricezione. Noi aggiungiamo altre parole alla già enorme produzione di esse. Soprattutto ce le diciamo quasi esclusivamente fra di noi, esclusi dal resto.
Non fraintendiamo. Io sono un sostenitore della parola, della trasmissione del pensiero, della propaganda verbale e sono fermamente convinto della loro efficacia. Ma questo non mi esime dal rendermi conto che sono del tutto insufficienti, soprattutto quando si constata che non riescono ad uscire all'esterno, rimanendo relegate ad uno scambio di idee tra compagni, una specie di dibattito in famiglia. Ma più di ogni altra cosa mi sono reso conto che il parlare non è di per sé uno strumento utile alla trasformazione sociale. E l'anarchismo si qualifica come atto del pensiero e dell'agire. Mancando uno dei due viene vanificato anche l'altro, perché tra loro ci deve essere uno scambio continuo.
Parlando dell'agire non mi riferisco tanto alle cose che pur in qualche modo gli anarchici fanno, assicurando una presenza e una testimonianza importantissime. Bensì intendo una linea d'azione coerente che si ripropone di volta in volta con caratteristiche identificabili, efficaci, incisive e, possibilmente, un minimo programmate. Attualmente manca del tutto nel nostro modo di presentarci e di fare propaganda. Il più delle volte le nostre scelte sono episodiche, occasionali e sganciate da un contesto generale in grado di qualificarci. In altre parole manchiamo di stile. Parliamo tra pochi addetti di abolizione, eliminazione e superamento dello stato e del dominio, senza riuscire ad essere conseguenti ed energici negli atti della propaganda. Le nostre parole, perdendosi in un oceano verbale che ci sovrasta, non riescono a trovare un corrispondente pratico che dia, a chi non è tra le nostre file, un'immagine chiara di ciò che siamo e di ciò che vogliamo.
Il problema dell'immagine è da tenere ben presente. Nella società dello spettacolo diventa drammatico non riuscire ad averne una confacente alle preposizioni in cui ci si riconosce. Dobbiamo riuscire a parlare alla gente, a stimolarla, a farci conoscere, identificare e, possibilmente, desiderare per quello che rappresentiamo. Non basta sentirsi nel giusto, quando il giusto rimane nel limbo aristocratico del nostro pensiero e del nostro esiguo movimento. Da movimento circoscritto nel ghetto dobbiamo trasformarci in movimento che influenza e trasforma il sociale cui si riferisce, proprio perché l'anarchia è trasformazione di tutta la società alle radici, la stravolge e la rivoluziona determinando relazioni nuove tra tutti i suoi componenti. Anarchia è rivoluzione dei rapporti tra gli esseri umani e non deve rimanere patrimonio elitario di alcuni, sganciati da tutti gli altri perché non trova il modo di rapportarsi e di agire.

Il problema dell'identità
Ma al di là di questo stallo l'anarchismo ha molte cose da dire, soprattutto oggi in cui il mondo sta vivendo una fase drammatica, perché gli uomini sentono una profonda insicurezza dovuta all'incertezza del domani. È ormai diffusa la consapevolezza che i sistemi politici stanno progressivamente disgregando l'immenso patrimonio di ricchezza naturale messoci a disposizione dal pianeta terra. Assistiamo con angoscia a processi di distruzione irreversibili, la cui gradualità di devastazione ha una progressione esponenziale. Così è dell'inquinamento delle acque, dell'aria e della terra; come pure della contaminazione chimica sempre più tossica della catena alimentare; come del costante pericolo di rendere radioattivo l'ambiente. Senza contare il rischio, continuamente minaccioso, di una guerra termonucleare. Tutte le manifestazioni di potenza dell'uomo, consolidatesi in secoli di cultura violenta e oppressiva, sanno di morte e distruzione e determinano un diffuso senso di impotenza che, troppo spesso, genera un atteggiamento di rassegnazione.
Rispetto a questi problemi generali che sempre di più ci sovrastano, l'anarchismo è potenzialmente una soluzione credibile, perché a livello teorico identifica la causa che sta a monte, il principio produttore e propulsore che rende possibile e rigenera in continuazione l'annichilimento progressivo cui, sembra, siamo destinati. La sua proposta ultima, l'eliminazione del principio del dominio e il conseguente superamento dell'organizzazione del potere gerarchico sulla società, si definisce proprio partendo dalla constatazione che sono il principio e il valore del dominio il male da cui bisogna liberarsi. Da millenni l'uomo è oppresso da questi presupposti, che continuano a perpetuarsi creando sempre violenza, sopraffazione e ribellione. L'anarchia appunto è il ribaltamento globale di questo stato di cose, l'unica proposta seria di organizzazione sociale senza il principio di autorità istituzionale permanente.
Ma il fatto che sia potenzialmente una soluzione credibile è del tutto non sufficiente. Bisogna renderla palpabilmente credibile e dare un volto identificabile e concreto a questa credibilità. Per farlo bisogna proporsi in modo lineare e chiaro, entrare in contatto con gli altri per ascoltarli e farsi ascoltare, essere presenti nelle situazioni in modo stimolante e vivo, mettere in evidenza il nostro modo di essere e le nostre proposte. Bisogna che la nostra identità sia conosciuta, apprezzata, dibattuta. Ma è evidente che bisogna avere un'identità riconoscibile nei fatti e nelle parole, per riuscire ad esser partecipi del confronto collettivo sui vari temi sui quali abbiamo cose da dire.
Oggi tutto ciò non avviene. A mio avviso, non solo per colpa della congiura del silenzio che ci sovrasta, ma perché, in un certo senso, il movimento anarchico ha scelto di stare ai margini. Sembra quasi soffrire di complessi che gli impediscono di essere partecipe, come pure gli spetterebbe di diritto, mentre continua ad accettare di scriversi e di parlarsi addosso, adducendo come alibi che ha pochi mezzi o che i mass-media lo ignorano. Giustificazioni che in realtà sono di comodo. Tanto è vero che, attraverso le varie organizzazioni di cui il movimento è composto, gli anarchici non aderiscono quasi mai a nulla; si rifiutano di essere dentro alle cose e ai vari movimenti che sorgono. Illusi dall'alto della loro purezza, giudicano dall'esterno le cose di chi è diverso da loro spesso con sufficienza e distacco. Scelgono di starne al di fuori, dal momento che le cose non vengono definite nel modo che vorrebbero. Sembrano affetti dalla paura di venire intaccati nella propria purezza, sortendo, purtroppo, l'effetto di venire sempre esclusi e di lasciare ad altri, in particolare ai politici di professione, la gestione autoritaria e il recupero di ogni movimento che sorge su basi emancipatorie. Gli altri non ci richiedono, mentre noi li giudichiamo e snobbiamo. Così rimaniamo al di fuori senza riuscire ad appartenere al dibattito che pure, per le tematiche espresse, ci appartiene più di ogni altro.
Ma l'assenza è ancor più rimarcata dal fatto che manca completamente una linea di azione in grado di qualificarci, distinguerci e di dare un'immagine pubblica chiara e inequivocabile delle nostre proposte. Siamo abbastanza bravi solo quando lo stato ci attacca e siamo costretti a difenderci. Così fu per "la strage di stato", oppure per il caso Giovanni Marini, oppure ancora quando fu denunciata la redazione del periodico "Anarchismo" ed arrestati i suoi componenti. In quei casi siamo sempre riusciti a difenderci bene. Mentre non siamo propositivi nella lotta per l'emancipazione rivoluzionaria. Continuiamo a parlarci addosso e a distinguerci per le affermazioni di principio. È quasi un pianto!
La cosa più grave però, che ci impedisce di portare chiarezza operativa rispetto alla situazione attuale, è un'altra: il nostro agire, quando c'è, viene facilmente confuso con quello di altri, tenendo conto anche che fra noi non c'è unità e che non abbiamo una risposta soddisfacente rispetto all'impellente problema del che cosa fare. Direi, anzi, che c'è una certa confusione e una buona dose di insicurezza. Il che non sarebbe un gran male se non fosse oltremodo paralizzante, perché di fatto non serve ad altro che a farci permanere nella situazione di stallo che lamentiamo.
Mi riferisco in particolare a tutta una serie di comportamenti che, a livello di immagine, sono identificati con quelli della cosiddetta "autonomia organizzata". Comportamenti che, guarda caso, non si manifestano quasi mai in situazioni veramente autonome, ma appaiono all'interno di manifestazioni e mobilitazioni indette da altri. Si inseriscono e cercano di usufruire dell'occasione per spingere i presenti allo scontro, ridicolmente armato, con le forze dell'ordine.
A parte ogni considerazione di opportunità politica, il voler coinvolgere chi non è preparato e non ha scelto in azioni che, con molta facilità, portano a forme repressive da parte della polizia, è di per sé autoritario e prevaricatorio. Non a caso viene teorizzato e reso operante da un'organizzazione intrinsecamente autoritaria e stalinista, qual'è appunto l'autonomia organizzata. Ma c'è un'altra considerazione ben più importante. A livello di immagine questi comportamenti non sono affatto producenti né tantomeno edificanti; anzi portano progressivamente, come mi sembra stia avvenendo, ad un isolamento sempre meno recuperabile. E non credo che gli anarchici soffrano del bisogno di sentirsi ulteriormente isolati. D'altro canto non mi sembra che ci siano altre azioni, se non qualche rara manifestazione, mostra o dibattito pubblico. Come si diceva più sopra, il lato operativo langue.
È nell'aria un'esigenza sempre più impellente di separazione. Separazione tra chi vuole continuare all'interno del proprio limbo, o ghetto che dir si voglia, fatto di dichiarazioni, di dibattiti interni o, quando se ne presenta l'occasione, di azioni che si confondono con comportamenti non proprio nostri, e chi invece sente con forza la necessità di un'inversione di tendenza nel fare politica. C'è un bisogno, a mio avviso molto forte, di essere parte integrante del dibattito più generale sui temi che riguardano l'emancipazione umana, di propugnare un modo nuovo e diverso di essere e di presentarsi, di agire in maniera cristallina, identificabile senza ambiguità di sorta.
La ricerca, insomma, di un modo totalmente nostro, capace di dare un'immagine dell'essere anarchici più confacente di quella attuale, impregnata di incaute insicurezze e di un perdente bisogno di sopravvivenza.


Azione diretta o tiro diretto?

Da un po' di tempo da più parti si parla sempre più frequentemente di "azione diretta" al punto che in certi casi è quasi diventata una parola d'ordine che dovrebbe distinguere certe scelte d'azione.
In un certo senso potenzialmente essa ha questa caratteristica, di differenziare appunto delle scelte da altre, ma questa differenziazione originaria non corrisponde sempre a quella che oggi frequentemente viene usata.
Vediamo di fare un po' di chiarezza.
"Azione diretta" significa letteralmente azione non delegata, cioè svolta dall'individuo per propria libera scelta e in piena consapevolezza, senza che altri in qualche maniera decida per lui. La sua caratteristica non è situata dunque nel tipo di azione, bensì nel metodo di scelta e di messa in atto con cui l'individuo decide di operare. Ne risulta che un azione è diretta per le modalità con cui si svolge, indipendentemente dal fatto che sia violenta, nonviolenta, di sabotaggio, o di altro tipo.
Il fatto è che negli ultimi tempi, purtroppo, si tende troppo spesso ad identificarla esclusivamente con azioni violente legate al cosiddetto illegalismo di massa (linguaggio diffuso nel "sinistrese"). Il che, intendiamoci bene, può anche essere vero, ma non per il significato che troppo frequentemente le viene attribuito. È vero infatti se quell'azione violenta e illegale è stata scelta consapevolmente e concordemente con altri senza intromissioni di sorta, ma non certamente perché è violenta e illegale.
Anzi! Se per caso una minoranza ristretta, con chiare pretese dirigenziali ed egemoniche, decide a parte un'azione del tipo suddetto, poi mi coinvolge, senza prima consultarmi, pretendendo tra l'altro che vi partecipi convinto di svolgere un'azione diretta, si tratta più che altro di azione ordinata, in alcuni casi imposta, in cui è evidente una parte leaderistica ed una gregaria. Semmai, in questo caso, di diretto c'è soltanto il tiro che viene fatto contro un obbiettivo, o polizia, o caserma, o qualsiasi altro, di sampietrini, uova, pomodori, ortaggi vari, ecc... Non più azione diretta, dunque, ma più semplicemente e correttamente "tiro diretto", fra l'altro delegato, se non addirittura imposto.
Riprendiamo dunque a parlare di azione diretta, perché la riteniamo giusta e realmente rivoluzionaria. Ma parliamone per favore in termini che corrispondano al senso reale che le appartiene. Altrimenti, non solo facciamo confusione, ma soprattutto facciamo cattiva propaganda, regalando alla perfidia dei mass-media la possibilità di denigrare e screditare il concetto di azione diretta, assieme a tutti coloro che vi si riconoscono e la propugnano.