Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 16 nr. 138
giugno 1986


Rivista Anarchica Online

Quel cattivo rapporto

Il dibattito intorno alla donazione degli organi e all'articolo di Fausta ha assunto proporzioni notevoli, segno che il problema è sentito profondamente. In realtà la maggior parte delle lettere pubblicate sullo scorso e su questo numero ha affrontato, più che la legge in senso stretto, temi molto più ampi e profondi: la scienza e il suo valore nella nostra società, la medicina occidentale e la sua collocazione sociale, il rapporto vita/morte e il suo significato filosofico e/o religioso. Tutti temi che meriterebbero un dibattito approfondito. Ed è proprio per la loro vastità e complessità che una risposta organica ed esauriente diventa difficile.
Le maggiori obiezioni all'articolo di Fausta si possono riassumere in alcuni filoni.
La legge 3068 rende meno sicura la dichiarazione di morte, diminuendo il tempo di osservazione dei parametri che stabiliscono la fine della vita e permettendo che la morte possa essere accertata da un solo medico invece che da un collegio.
Inoltre, considerare donatore presunto chi non si dichiara in vita contrario alla donazione, permette in realtà l'espianto di organi anche su tutti quelli che, per ignoranza o per negligenza, non si sono preoccupati di ribadire la propria volontà. Per questo, per il maggior potere che lascia ai medici, per la burocratizzazione della donazione, per il pericolo di creare vere e proprie banche d'organi va combattuta.
La scienza e la medicina in particolare sono al servizio del potere. La classe medica fa un uso strumentale dei corpi e degli organi, considera gli esseri umani come cavie. Con questa legge aumenterà il proprio potere, si arrogherà il diritto di decidere della vita e della morte. Una classe medica e una medicina che in ogni caso vanno guardate con occhio critico poiché curano i sintomi e non le cause. La morte per coma depassé non è sicura al cento per cento. Ci sono stati casi di persone in coma profondo tornate alla vita o almeno di corpi che hanno continuato a vivere.
È troppo difficile poter decidere se una persona è morta quando il cuore batte ancora e, poiché i trapianti si fanno su corpi vivi, vanno bloccati. Il confine tra la vita e la morte si è fatto troppo sfumato per lasciarlo decidere ai medici.
Tralascio di proposito il discorso, spesso alquanto velato, sulla sacralità e inviolabilità del corpo sia perché Fausta ne ha già ampiamente trattato sia perché ritengo che sia un concetto da ascrivere al filosofico/etico/religioso per quanto si cerchi di spiegarlo e/o razionalizzarla. Ritengo cioè che faccia parte di quelle convinzioni, di quei valori che, individualmente e socialmente, poniamo a fondamento del nostro concetto di universo, di mondo, di vita, di realtà e proprio per questo non possono e non devono essere discussi sul piano razionale.
Il problema fondamentale nelle obiezioni riassunte è la contraddizione tra il desiderio di sganciarci, di fare a meno di una medicina vista come un corpo estraneo se non nemico e il porsi in questo tentativo del tutto all'interno della logica di questa stessa medicina.
La legge varia alcuni parametri tecnici (medici) per decidere quando un essere umano si possa definire vivo o morto. Ma anche oggi sono sempre i medici e solo loro a poter stabilire se una persona vive o no: non solo perché la legge lo sancisce, ma perché la possibilità di mantenere e prolungare la vita attraverso tecniche sofisticate ha cambiato il modo di riconoscere la morte. Non è più la cessazione del battito cardiaco o la mancanza del respiro che sanciscono la morte, ma I'impossibilità che le funzioni fondamentali e la coscienza possano riprendere autonomamente in futuro. Una decisione da prendere di fronte a macchine che possono far battere il cuore, far respirare, tenere sotto controllo valori del sangue e della pressione, alimentare e depurare il corpo a loro attaccato. Una decisione che solo un tecnico può prendere.
Forse tutto ciò è profondamente errato. Sembra quasi l'impossibilità di morire, ma forse è proprio il cattivo rapporto che la nostra cultura ha con la morte, rimorso quasi collettivo, ad averci portato a questi tentativi di esorcismo per mezzo della tecnica. Cambiare alcuni parametri mi sembra non sposti molto la situazione quando il soggetto che decide, l'unico che può decidere, non viene cambiato: è sempre la classe medica.
Forse potrebbe sembrare più interessante e indicativo lo spostamento da non donatore presunto a donatore presunto. Ma a guardare meglio il cambiamento non mi sembra notevole, non è tra l'individuo e lo stato, ma piuttosto tra la famiglia e lo stato. Oggi senza la legge, si chiede ai parenti stretti il permesso di espiantare a meno di trovarsi di fronte alla dichiarazione del donatore. Domani non si chiederà più alla famiglia di decidere per il morto che in ogni caso non ha e non può avere voce in capitolo. E io, che non ho poi molta fiducia nella famiglia, non credo che i parenti tutelino meglio la volontà dell'individuo. È vero che la disinformazione, l'ignoranza, la negligenza porteranno molte persone a non dichiararsi non donatori esattamente come oggi, per le stesse ragioni, molti non si dichiarano donatori, anche se forse sarebbero disposti a lasciare i loro organi a qualcuno.
È forse diverso? È difficile fare in modo che chi non si è espresso in vita possa decidere quando non lo è più. Il nodo fondamentale del dibattito rimane, secondo me, la medicina occidentale e il rapporto vita/morte.
Si ha sfiducia nella classe medica. A servizio di chi è? Del potere? Di se stessa? Della scienza o di qualcosa altro ancora? Si ha forse paura di tecniche e conoscenze che non ci appartengono più, che non riusciamo a capire, che sembrano ormai incontrollabili.
Non si sa più se credere o meno ad una scienza medica che ha raggiunto mete incredibili e nello stesso tempo si è separata dal corpo sociale. Si cerca rifugio allora nelle tecniche mediche di altre culture o si tenta di ritornare ad antiche tradizioni più a misura umana. Ma per quanto altre medicine sembrino più comprensibili (ma quanto valgono queste tecniche una volta tolte dal loro consenso culturale, dal loro sostrato sociale?), qualsiasi medicina, in ogni cultura, proprio per il suo rapporto stretto e privilegiato con la morte, è in rapporto particolare con il magico e con il sacro. Chi sa guarire sa anche uccidere ed ovunque è guardato sempre anche con una punta di sospetto, tanto più che la medicina sembra non essere mai un patrimonio collettivo.
Un discorso troppo ampio per poter essere affrontato ora anche se non vorrei essere vista come il difensore dei medici e della medicina occidentale. Solo che mi sembra troppo semplicistico liquidare un nodo così grosso con i richiami alla classe al servizio del potere o del capitale o alle affermazioni di principio come: la medicina occidentale non riesce a guarire (nessuna medicina riesce a guarire tutti), è troppo meccanicista e sintomatologica. Mi sembra contraddittorio criticare la medicina occidentale perché mantiene in vita oltre ogni misura corpi attaccati alle macchine e nello stesso tempo accusarla di volerli staccare prima che siano veramente morti.
Se pensiamo che i medici si siano fatti o vogliano farsi dei, è giusto dire no, è giusto fermarsi. Ma allora bisogna dire di no a tutta la logica della medicina occidentale, bisogna dire di no ai corpi dove la vita è come sospesa, bisogna ritornare alla morte chiara e semplice dell'arresto cardiaco, della mancanza di respiro, bisogna dire di no alle operazioni sofisticate, dire di no alle tecniche di rianimazione. Dire di no pagandone il prezzo.
Ciò è possibile e anche giusto, pur di rivedere molto in profondità il rapporto che la nostra cultura ha con la morte. Ma queste non sono questioni di legge.

Maria Teresa Romiti (Milano)