Rivista Anarchica Online
Quel cattivo
rapporto
Il dibattito
intorno alla donazione degli organi e all'articolo di Fausta ha
assunto proporzioni notevoli, segno che il problema è sentito
profondamente. In realtà la maggior parte delle lettere pubblicate
sullo scorso e su questo numero ha affrontato, più che la legge in
senso stretto, temi molto più ampi e profondi: la scienza e il suo
valore nella nostra società, la medicina occidentale e la sua
collocazione sociale, il rapporto vita/morte e il suo significato
filosofico e/o religioso. Tutti temi che meriterebbero un dibattito
approfondito. Ed è proprio per la loro vastità e complessità che
una risposta organica ed esauriente diventa difficile. Le maggiori
obiezioni all'articolo di Fausta si possono riassumere in alcuni
filoni. La legge 3068 rende
meno sicura la dichiarazione di morte, diminuendo il tempo di
osservazione dei parametri che stabiliscono la fine della vita e
permettendo che la morte possa essere accertata da un solo medico
invece che da un collegio. Inoltre,
considerare donatore presunto chi non si dichiara in vita contrario
alla donazione, permette in realtà l'espianto di organi anche su
tutti quelli che, per ignoranza o per negligenza, non si sono
preoccupati di ribadire la propria volontà. Per questo, per il
maggior potere che lascia ai medici, per la burocratizzazione della
donazione, per il pericolo di creare vere e proprie banche d'organi
va combattuta. La scienza e la
medicina in particolare sono al servizio del potere. La classe medica
fa un uso strumentale dei corpi e degli organi, considera gli esseri
umani come cavie. Con questa legge aumenterà il proprio potere, si
arrogherà il diritto di decidere della vita e della morte. Una
classe medica e una medicina che in ogni caso vanno guardate con
occhio critico poiché curano i sintomi e non le cause. La morte per
coma depassé non è sicura al cento per cento. Ci sono stati casi di
persone in coma profondo tornate alla vita o almeno di corpi che
hanno continuato a vivere. È
troppo difficile poter decidere se una persona è morta quando il
cuore batte ancora e, poiché i trapianti si fanno su corpi vivi,
vanno bloccati. Il confine tra la vita e la morte si è fatto troppo
sfumato per lasciarlo decidere ai medici. Tralascio di
proposito il discorso, spesso alquanto velato, sulla sacralità e
inviolabilità del corpo sia perché Fausta ne ha già ampiamente
trattato sia perché ritengo che sia un concetto da ascrivere al
filosofico/etico/religioso per quanto si cerchi di spiegarlo e/o
razionalizzarla. Ritengo cioè che faccia parte di quelle
convinzioni, di quei valori che, individualmente e socialmente,
poniamo a fondamento del nostro concetto di universo, di mondo, di
vita, di realtà e proprio per questo non possono e non devono essere
discussi sul piano razionale. Il problema
fondamentale nelle obiezioni riassunte è la contraddizione tra il
desiderio di sganciarci, di fare a meno di una medicina vista come un
corpo estraneo se non nemico e il porsi in questo tentativo del tutto
all'interno della logica di questa stessa medicina. La legge varia
alcuni parametri tecnici (medici) per decidere quando un essere umano
si possa definire vivo o morto. Ma anche oggi sono sempre i medici e
solo loro a poter stabilire se una persona vive o no: non solo perché
la legge lo sancisce, ma perché la possibilità di mantenere e
prolungare la vita attraverso tecniche sofisticate ha cambiato il
modo di riconoscere la morte. Non è più la cessazione del battito
cardiaco o la mancanza del respiro che sanciscono la morte, ma
I'impossibilità che le funzioni fondamentali e la coscienza possano
riprendere autonomamente in futuro. Una decisione da prendere di
fronte a macchine che possono far battere il cuore, far respirare,
tenere sotto controllo valori del sangue e della pressione,
alimentare e depurare il corpo a loro attaccato. Una decisione che
solo un tecnico può prendere. Forse tutto ciò è
profondamente errato. Sembra quasi l'impossibilità di morire, ma
forse è proprio il cattivo rapporto che la nostra cultura ha con la
morte, rimorso quasi collettivo, ad averci portato a questi tentativi
di esorcismo per mezzo della tecnica. Cambiare alcuni parametri mi
sembra non sposti molto la situazione quando il soggetto che decide,
l'unico che può decidere, non viene cambiato: è sempre la classe
medica. Forse potrebbe
sembrare più interessante e indicativo lo spostamento da non
donatore presunto a donatore presunto. Ma a guardare meglio il
cambiamento non mi sembra notevole, non è tra l'individuo e lo
stato, ma piuttosto tra la famiglia e lo stato. Oggi senza la legge,
si chiede ai parenti stretti il permesso di espiantare a meno di
trovarsi di fronte alla dichiarazione del donatore. Domani non si
chiederà più alla famiglia di decidere per il morto che in ogni
caso non ha e non può avere voce in capitolo. E io, che non ho poi
molta fiducia nella famiglia, non credo che i parenti tutelino meglio
la volontà dell'individuo. È
vero che la disinformazione, l'ignoranza, la negligenza porteranno
molte persone a non dichiararsi non donatori esattamente come oggi,
per le stesse ragioni, molti non si dichiarano donatori, anche se
forse sarebbero disposti a lasciare i loro organi a qualcuno. È
forse diverso? È
difficile fare in modo che chi non si è espresso in vita possa
decidere quando non lo è più. Il nodo fondamentale del dibattito
rimane, secondo me, la medicina occidentale e il rapporto vita/morte. Si ha sfiducia
nella classe medica. A servizio di chi è? Del potere? Di se stessa?
Della scienza o di qualcosa altro ancora? Si ha forse paura di
tecniche e conoscenze che non ci appartengono più, che non riusciamo
a capire, che sembrano ormai incontrollabili. Non si sa più se
credere o meno ad una scienza medica che ha raggiunto mete
incredibili e nello stesso tempo si è separata dal corpo sociale. Si
cerca rifugio allora nelle tecniche mediche di altre culture o si
tenta di ritornare ad antiche tradizioni più a misura umana. Ma per
quanto altre medicine sembrino più comprensibili (ma quanto valgono
queste tecniche una volta tolte dal loro consenso culturale, dal loro
sostrato sociale?), qualsiasi medicina, in ogni cultura, proprio per
il suo rapporto stretto e privilegiato con la morte, è in rapporto
particolare con il magico e con il sacro. Chi sa guarire sa anche
uccidere ed ovunque è guardato sempre anche con una punta di
sospetto, tanto più che la medicina sembra non essere mai un
patrimonio collettivo. Un discorso troppo
ampio per poter essere affrontato ora anche se non vorrei essere
vista come il difensore dei medici e della medicina occidentale. Solo
che mi sembra troppo semplicistico liquidare un nodo così grosso con
i richiami alla classe al servizio del potere o del capitale o alle
affermazioni di principio come: la medicina occidentale non riesce a
guarire (nessuna medicina riesce a guarire tutti), è troppo
meccanicista e sintomatologica. Mi sembra contraddittorio criticare
la medicina occidentale perché mantiene in vita oltre ogni misura
corpi attaccati alle macchine e nello stesso tempo accusarla di
volerli staccare prima che siano veramente morti. Se pensiamo che i
medici si siano fatti o vogliano farsi dei, è giusto dire no, è
giusto fermarsi. Ma allora bisogna dire di no a tutta la logica della
medicina occidentale, bisogna dire di no ai corpi dove la vita è
come sospesa, bisogna ritornare alla morte chiara e semplice
dell'arresto cardiaco, della mancanza di respiro, bisogna dire di no
alle operazioni sofisticate, dire di no alle tecniche di
rianimazione. Dire di no pagandone il prezzo. Ciò è possibile e
anche giusto, pur di rivedere molto in profondità il rapporto che la
nostra cultura ha con la morte. Ma queste non sono questioni di
legge.
Maria Teresa Romiti (Milano)
|