Rivista Anarchica Online
Il nanocurie e
la scheda
di Andrea Papi
Dopo Chernobyl
c'è rabbia, voglia di fare, disponibilità a impegnarsi nella lotta
contro il nucleare. I tre
referendum, oltre che inutili sul piano decisionale, non sono che uno
strumento per incanalare questa energia potenziale sovversiva
nell'alveo della politica istituzionale.
Con l'incidente
scoppiato a Chernobyl, la cupa realtà dell'era atomica ci è
piombata addosso con veemenza. Irrimediabilmente e concretamente è
divenuta un fatto palpabile, quasi una percezione epidermica. È
uscita dal mondo puramente simbolico di un'estetica ripugnante e si è
reificata, avvolgendoci, attraverso una fisicità pregnante, con la
sensazione della morte possibile e riempiendoci di terrore. Abbiamo
sperimentato una situazione sociale sempre paventata dalla
letteratura fantascientifica: l'allarme atomico, il famoso "The day
after". Di colpo, il simbolico della fantasia è divenuto quello
della realtà effettuale. Allora abbiamo
assistito e continuiamo ad assistere alle diverse reazioni a questa
realtà plumbea, che era sempre stata sentita come lontana da venire.
Nell'aria c'è la sensazione che d'ora in poi il modo di rapportarsi
al mondo dovrà sempre tener conto di una improvvisa possibilità di
morte collettiva, capace di insinuarsi lentamente o improvvisamente,
ma con violenza. C'è anche il bisogno, più o meno consapevole, di
non subire, di opporsi. In questi giorni assistiamo infatti alle più
disparate interpretazioni sul modo che hanno le collettività umane
di reagire ad un evento così spettacolarmente mortifero come
Chernobyl. Da chi sostiene che c'è una rassegnazione diffusa, una
specie di filosofia dell'adeguamento, a chi parla di volontà di
cambiare: e così via. Comunque sia, qualsiasi interpretazione, di
per sé mai oggettiva né tantomeno scientifica, deve partire dalla
constatazione che tra le genti si è diffusa una insoddisfazione di
fondo. Il bisogno di cambiare è palpabilmente potenziale e concreto,
al di là degli stati d'animo che possono di volta in volta
affiorare. Tra tutte le
reazioni scegliamo di soffermarci tra quelle specificatamente
politiche. Da una parte abbiamo dovuto assistere ai balbettii,
neanche tanto convincenti, dei sostenitori del nucleare ad oltranza.
Personaggi eminenti come il ministro della Difesa Spadolini e il
presidente della Repubblica Cossiga, sempre in prima fila nel
mostrare la loro integra fedeltà a questo sistema di cose, ci hanno
ufficialmente invitato a non lasciarci prendere dalla fobia
antinucleare, perché il "progresso" non deve essere
fermato a nessun costo. Strana idea del progresso, legata a una
tecnologia di sfruttamento delle risorse naturali e di intervento
distruttivo. Ci hanno voluto dire che, in fondo, si tratta solo di
affidarsi a sistemi di controllo più sofisticati, anche se ormai è
ufficiale che il reattore di Chernobyl era uno dei più avanzati a
livello mondiale. Ma i loro deliri non ci interessano più di tanto. È
interessante invece riflettere sulla proposta messa in campo dal
fronte antinucleare, che si sta proponendo tout-court con
un'ennesima campagna referendaria. Già altre volte, sulle pagine di
questa rivista, ho avuto occasione di esprimere il mio parere
negativo sullo strumento politico del referendum. Ed ogni volta,
aggiornandomi allo specifico cui ogni singolo referendum è legato,
la mia convinzione che siano una trappola si rafforza. Il punto di
vista espresso ha sempre trovato conferma. Evidentemente la
"sinistra" italiana non riesce a scrollarsi di dosso il
vizio di fondo che le sembra tipico: quello di ricacciare sempre
tutto tra le braccia di mamma istituzione, mostrandosi quasi paurosa
di affrontare le lotte con strumenti più consoni ai valori di una
concreta emancipazione, alla ricerca di un reale superamento del
presente.
Legittimare le
istituzioni?
Prima di affrontare
una breve analisi dello specifico, è utile riprendere il senso che
permea ogni referendum in Italia. Viene indetto per eliminare una
determinata legge o confermarla. I cittadini vengono cioè chiamati a
dire se vogliono che la legge in questione rimanga operativa, o debba
essere sostituita. I votanti non svolgono nessun altro ruolo. La
vittoria sarà assegnata al maggior numero di sì o di no. Ogni
referendum si fonda perciò su un principio quantitativo e non
affronta, di per sé, il problema della qualità espressa dalla
legge. Sancisce soltanto la volontà maggioritaria, indipendentemente
dal fatto che questa abbia un senso di miglioramento o di
peggioramento. Esempio lampante è stato l'ultimo referendum svizzero
sulla vivisezione, che ha sancito la giustezza di ciò che voleva
combattere, mentre la vivisezione continua ad essere la pratica
aberrante che è sempre stata. Altro aspetto da
non sottovalutare è quello per cui, dal momento che si vota per
eliminare la formulazione di una data legge, nel caso che questa
preventivamente venga mutata dagli organi legislativi addetti, il
referendum non potrà più avere svolgimento. Ma al di là di ciò,
anche ammesso che, in seguito al voto, la maggioranza si esprima per
l'eliminazione, a formulare la nuova legge saranno sempre le stesse
persone che hanno sancito quelle precedenti. Ragion per cui,
l'eventuale vittoria dei sì non è, in quanto tale, una reale
garanzia per mettere in atto la volontà che in qualche modo la
maggioranza ha espresso. Noi sosteniamo allora che ogni referendum,
per quello che rappresenta, salvaguarda il principio della delega
alle istituzioni vigenti, riuscendo soltanto, quando ci riesce, a
imporre ai governanti un cambiamento di rotta molto relativo, i
quali, per il fatto stesso di essere coloro che continuano a
decidere, saranno così in grado di recuperare all'interno
dell'ambito istituzionale le tensioni di cambiamento espresse col
voto. Venendo al problema
specifico, cioè il nucleare, ci sembra che il senso delle cose sia
particolarmente dimostrativo del discorso finora messo sul tappeto.
In Italia non esiste una legge specifica che sancisca la costruzione
di centrali nucleari, per cui non è possibile indire un referendum
per abrogarla con una maggioranza di sì. Coloro che lo propongono
hanno perciò dovuto ricorrere a uno stratagemma. Hanno identificato
tre leggi, che secondo loro sono la garanzia giuridica per
l'attuazione del piano energetico nucleare, e chiedono di firmare per
l'attuazione di tre referendum contemporanei, i quali servirebbero
appunto ad abrogarle. Sempre secondo questi antinucleari, se le
votazioni riuscissero ad esprimere tre schiaccianti maggioranze di
sì, in Italia sarebbe stato battuto politicamente il piano nucleare.
Ma vediamo di scendere un poco più a fondo nei particolari. I primi due si
riferiscono alla legge n. 8 del 10 gennaio 1963, in particolare a due
punti di essa. Il primo chiede l'abrogazione del terzultimo comma, in
cui si stabilisce che, ove gli enti locali non siano in grado di
individuare le aree adatte alla costruzione di una centrale entro 150
giorni, il CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione
Economica) deve intervenire direttamente, scavalcando in tal modo la
volontà degli enti locali. Più o meno come per le occupazioni
militari del territorio. Ma nell'intenzione dei referendumisti c'è
la proposizione di tornare a una legge del '75, la quale stabiliva
che, superato il tempo utile per l'individuazione dell'area
richiesta, sarebbe intervenuto il ministero dell'industria invece del
CIPE. Di fatto viene dunque richiesto l'intervento del governo, che
deve passare attraverso l'approvazione del parlamento. Il secondo si
riferisce sempre alla legge n. 8, là dove stabilisce quali siano i
finanziamenti dovuti agli enti locali che ospitano centrali nucleari.
È di fatto una
monetizzazione del rischio eventuale, quindi programmato, che può
comportare l'attività di una centrale. Così succede che, dal
momento che in una data zona è stata imposta una centrale, questa si
trova esposta a notevoli rischi. Per tale ragione viene ricompensata
in denaro proprio per il sacrificio cui può essere sottoposta. In
altre parole, ti regalo la possibilità di morire, ma mi metto a
posto la coscienza pagandoti un "giusto" obolo. Il terzo chiede
l'abrogazione della legge n. 856 del 18 dicembre 1973, là dove viene
stabilita la partecipazione dell'Italia a progetti nucleari
stranieri. In pratica si cerca la strada per impedire la costruzione
di nuove centrali utili a produrre un'energia non direttamente
necessaria al fabbisogno nazionale, ma legata ad accordi del capitale
internazionale che non c'entrano direttamente con la produzione
civile. Sempre negli intenti dei promotori, si bloccherebbe la
costruzione dell'impianto sperimentale del Brasimone, che in
particolare è destinato a questi scopi.
Emotività e
rifiuto
Questi sono i tre
referendum e, per sommi capi, il loro senso. A voler essere
smaliziati e sganciati da affermazioni politiche che rischiano di
scadere nella demagogia, non è difficile individuare la loro
fragilità. Ammesso infatti che si arrivi fra un anno, quando più o
meno è prevista la consultazione elettorale, ad una vittoria
schiacciante dei sì, nulla toglie che il piano energetico del
nucleare non possa trovare altre strade per essere attuato. Infatti
si verrebbero a colpire soltanto alcune leggi attuali che regolano
tale piano. Mentre il governo e il parlamento, molto probabilmente,
riusciranno ad aggiornare la normativa giuridica. Fra l'altro,
proprio per il tipico meccanismo legislativo dei referendum, non
sarebbero messe in discussione le centrali già esistenti. Al limite
sarebbe ipotecata la costruzione di quelle future. Ed è evidente che
quelle già esistenti sono da sole perfettamente in grado di
procurare danni di non poco conto . La richiesta poi di far
intervenire il parlamento invece del CIPE nella scelta dei siti, è
lapalissianamente ingenua. Come può il parlamento, in quanto tale,
essere una garanzia maggiore del governo, quando fino adesso, proprio
per merito suo, è stato messo in atto il piano nucleare? Ancora una volta il
dibattito politico ritorna ai quesiti di fondo, in quanto si tratta
di scegliere se dare legittimità alle istituzioni oppure cercare
altre strade. I tre referendum ripropongono la "lunga marcia"
attraverso le istituzioni. Non solo, ma, anche nel caso di una
vittoria niente affatto scontata dei sì, non ci si garantisce dalle
scelte governative, mentre si rischia di dar loro la possibilità e
la forza di aggiornarsi per trovare un consenso che ora non hanno.
Come si diceva all'inizio, sono sempre loro che decideranno cosa fare
e quali leggi varare. L'abrogazione di quelle attuali
rappresenterebbe facilmente lo stimolo a inventarne di nuove, ancora
più infide e furbesche, capaci di garantire con più efficacia il
piano energetico nazionale da essi concepito e voluto. A questo
proposito la posizione del governo è stata molto chiara: dopo
Chernobyl ha stabilito che non è affatto mutata la volontà politica
di portare avanti il piano energetico nazionale basato sul nucleare.
I referendumisti forse pensano che, obbligandoli ad abrogare alcune
leggi esistenti, saranno poi in grado di impedire l'attuazione della
loro volontà politica, mentre continuano a conservare il potere di
farne altre? Se sono convinti di una simile cosa, peccano veramente
di una colpevole e imperdonabile ingenuità. Ma è importante
un'altra considerazione. Attualmente, proprio per quello che è
successo in Ucraina, c'è una forte emotività indirizzata a
rifiutare il piano nucleare dello stato. Una enorme potenzialità di
energia popolare. Lo strumento del referendum non farà altro che
convogliare tutta questa energia, potenzialmente sovversiva, in un
ambito istituzionale, perfettamente controllato e diretto dal sistema
di potere in atto, mentre potrebbe essere convogliata verso una
volontà di concreto rinnovamento collettivo alle radici. Verrà
invece di nuovo incanalata all'interno di una logorante logica di
delega alle strutture del potere in atto, proprio perché non vuole
mettere in discussione i gangli su cui si regge. Anzi, portando il
ragionamento alle sue estreme conseguenze, si tratta soltanto della
vecchia proposizione di cambiare i governanti, senza voler mettere in
discussione le strutture su cui si regge il sistema di governo. È
di nuovo un modo di dirigere politicamente le spinte originarie dal
basso, attraverso una logica di partito ormai stantia. Vuol dire
riproporre la gestione dall'alto e rifiutare l'autogestione.
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