Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 16 nr. 138
giugno 1986


Rivista Anarchica Online

Il nanocurie e la scheda
di Andrea Papi

Dopo Chernobyl c'è rabbia, voglia di fare, disponibilità a impegnarsi nella lotta contro il nucleare. I tre referendum, oltre che inutili sul piano decisionale, non sono che uno strumento per incanalare questa energia potenziale sovversiva nell'alveo della politica istituzionale.

Con l'incidente scoppiato a Chernobyl, la cupa realtà dell'era atomica ci è piombata addosso con veemenza. Irrimediabilmente e concretamente è divenuta un fatto palpabile, quasi una percezione epidermica. È uscita dal mondo puramente simbolico di un'estetica ripugnante e si è reificata, avvolgendoci, attraverso una fisicità pregnante, con la sensazione della morte possibile e riempiendoci di terrore. Abbiamo sperimentato una situazione sociale sempre paventata dalla letteratura fantascientifica: l'allarme atomico, il famoso "The day after". Di colpo, il simbolico della fantasia è divenuto quello della realtà effettuale.
Allora abbiamo assistito e continuiamo ad assistere alle diverse reazioni a questa realtà plumbea, che era sempre stata sentita come lontana da venire. Nell'aria c'è la sensazione che d'ora in poi il modo di rapportarsi al mondo dovrà sempre tener conto di una improvvisa possibilità di morte collettiva, capace di insinuarsi lentamente o improvvisamente, ma con violenza. C'è anche il bisogno, più o meno consapevole, di non subire, di opporsi. In questi giorni assistiamo infatti alle più disparate interpretazioni sul modo che hanno le collettività umane di reagire ad un evento così spettacolarmente mortifero come Chernobyl. Da chi sostiene che c'è una rassegnazione diffusa, una specie di filosofia dell'adeguamento, a chi parla di volontà di cambiare: e così via. Comunque sia, qualsiasi interpretazione, di per sé mai oggettiva né tantomeno scientifica, deve partire dalla constatazione che tra le genti si è diffusa una insoddisfazione di fondo. Il bisogno di cambiare è palpabilmente potenziale e concreto, al di là degli stati d'animo che possono di volta in volta affiorare.
Tra tutte le reazioni scegliamo di soffermarci tra quelle specificatamente politiche. Da una parte abbiamo dovuto assistere ai balbettii, neanche tanto convincenti, dei sostenitori del nucleare ad oltranza. Personaggi eminenti come il ministro della Difesa Spadolini e il presidente della Repubblica Cossiga, sempre in prima fila nel mostrare la loro integra fedeltà a questo sistema di cose, ci hanno ufficialmente invitato a non lasciarci prendere dalla fobia antinucleare, perché il "progresso" non deve essere fermato a nessun costo. Strana idea del progresso, legata a una tecnologia di sfruttamento delle risorse naturali e di intervento distruttivo. Ci hanno voluto dire che, in fondo, si tratta solo di affidarsi a sistemi di controllo più sofisticati, anche se ormai è ufficiale che il reattore di Chernobyl era uno dei più avanzati a livello mondiale. Ma i loro deliri non ci interessano più di tanto.
È interessante invece riflettere sulla proposta messa in campo dal fronte antinucleare, che si sta proponendo tout-court con un'ennesima campagna referendaria. Già altre volte, sulle pagine di questa rivista, ho avuto occasione di esprimere il mio parere negativo sullo strumento politico del referendum. Ed ogni volta, aggiornandomi allo specifico cui ogni singolo referendum è legato, la mia convinzione che siano una trappola si rafforza. Il punto di vista espresso ha sempre trovato conferma. Evidentemente la "sinistra" italiana non riesce a scrollarsi di dosso il vizio di fondo che le sembra tipico: quello di ricacciare sempre tutto tra le braccia di mamma istituzione, mostrandosi quasi paurosa di affrontare le lotte con strumenti più consoni ai valori di una concreta emancipazione, alla ricerca di un reale superamento del presente.

Legittimare le istituzioni?
Prima di affrontare una breve analisi dello specifico, è utile riprendere il senso che permea ogni referendum in Italia. Viene indetto per eliminare una determinata legge o confermarla. I cittadini vengono cioè chiamati a dire se vogliono che la legge in questione rimanga operativa, o debba essere sostituita. I votanti non svolgono nessun altro ruolo. La vittoria sarà assegnata al maggior numero di sì o di no. Ogni referendum si fonda perciò su un principio quantitativo e non affronta, di per sé, il problema della qualità espressa dalla legge. Sancisce soltanto la volontà maggioritaria, indipendentemente dal fatto che questa abbia un senso di miglioramento o di peggioramento. Esempio lampante è stato l'ultimo referendum svizzero sulla vivisezione, che ha sancito la giustezza di ciò che voleva combattere, mentre la vivisezione continua ad essere la pratica aberrante che è sempre stata.
Altro aspetto da non sottovalutare è quello per cui, dal momento che si vota per eliminare la formulazione di una data legge, nel caso che questa preventivamente venga mutata dagli organi legislativi addetti, il referendum non potrà più avere svolgimento. Ma al di là di ciò, anche ammesso che, in seguito al voto, la maggioranza si esprima per l'eliminazione, a formulare la nuova legge saranno sempre le stesse persone che hanno sancito quelle precedenti. Ragion per cui, l'eventuale vittoria dei sì non è, in quanto tale, una reale garanzia per mettere in atto la volontà che in qualche modo la maggioranza ha espresso. Noi sosteniamo allora che ogni referendum, per quello che rappresenta, salvaguarda il principio della delega alle istituzioni vigenti, riuscendo soltanto, quando ci riesce, a imporre ai governanti un cambiamento di rotta molto relativo, i quali, per il fatto stesso di essere coloro che continuano a decidere, saranno così in grado di recuperare all'interno dell'ambito istituzionale le tensioni di cambiamento espresse col voto.
Venendo al problema specifico, cioè il nucleare, ci sembra che il senso delle cose sia particolarmente dimostrativo del discorso finora messo sul tappeto. In Italia non esiste una legge specifica che sancisca la costruzione di centrali nucleari, per cui non è possibile indire un referendum per abrogarla con una maggioranza di sì. Coloro che lo propongono hanno perciò dovuto ricorrere a uno stratagemma. Hanno identificato tre leggi, che secondo loro sono la garanzia giuridica per l'attuazione del piano energetico nucleare, e chiedono di firmare per l'attuazione di tre referendum contemporanei, i quali servirebbero appunto ad abrogarle. Sempre secondo questi antinucleari, se le votazioni riuscissero ad esprimere tre schiaccianti maggioranze di sì, in Italia sarebbe stato battuto politicamente il piano nucleare. Ma vediamo di scendere un poco più a fondo nei particolari.
I primi due si riferiscono alla legge n. 8 del 10 gennaio 1963, in particolare a due punti di essa. Il primo chiede l'abrogazione del terzultimo comma, in cui si stabilisce che, ove gli enti locali non siano in grado di individuare le aree adatte alla costruzione di una centrale entro 150 giorni, il CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) deve intervenire direttamente, scavalcando in tal modo la volontà degli enti locali. Più o meno come per le occupazioni militari del territorio. Ma nell'intenzione dei referendumisti c'è la proposizione di tornare a una legge del '75, la quale stabiliva che, superato il tempo utile per l'individuazione dell'area richiesta, sarebbe intervenuto il ministero dell'industria invece del CIPE. Di fatto viene dunque richiesto l'intervento del governo, che deve passare attraverso l'approvazione del parlamento.
Il secondo si riferisce sempre alla legge n. 8, là dove stabilisce quali siano i finanziamenti dovuti agli enti locali che ospitano centrali nucleari. È di fatto una monetizzazione del rischio eventuale, quindi programmato, che può comportare l'attività di una centrale. Così succede che, dal momento che in una data zona è stata imposta una centrale, questa si trova esposta a notevoli rischi. Per tale ragione viene ricompensata in denaro proprio per il sacrificio cui può essere sottoposta. In altre parole, ti regalo la possibilità di morire, ma mi metto a posto la coscienza pagandoti un "giusto" obolo.
Il terzo chiede l'abrogazione della legge n. 856 del 18 dicembre 1973, là dove viene stabilita la partecipazione dell'Italia a progetti nucleari stranieri. In pratica si cerca la strada per impedire la costruzione di nuove centrali utili a produrre un'energia non direttamente necessaria al fabbisogno nazionale, ma legata ad accordi del capitale internazionale che non c'entrano direttamente con la produzione civile. Sempre negli intenti dei promotori, si bloccherebbe la costruzione dell'impianto sperimentale del Brasimone, che in particolare è destinato a questi scopi.

Emotività e rifiuto
Questi sono i tre referendum e, per sommi capi, il loro senso. A voler essere smaliziati e sganciati da affermazioni politiche che rischiano di scadere nella demagogia, non è difficile individuare la loro fragilità. Ammesso infatti che si arrivi fra un anno, quando più o meno è prevista la consultazione elettorale, ad una vittoria schiacciante dei sì, nulla toglie che il piano energetico del nucleare non possa trovare altre strade per essere attuato. Infatti si verrebbero a colpire soltanto alcune leggi attuali che regolano tale piano. Mentre il governo e il parlamento, molto probabilmente, riusciranno ad aggiornare la normativa giuridica. Fra l'altro, proprio per il tipico meccanismo legislativo dei referendum, non sarebbero messe in discussione le centrali già esistenti. Al limite sarebbe ipotecata la costruzione di quelle future. Ed è evidente che quelle già esistenti sono da sole perfettamente in grado di procurare danni di non poco conto . La richiesta poi di far intervenire il parlamento invece del CIPE nella scelta dei siti, è lapalissianamente ingenua. Come può il parlamento, in quanto tale, essere una garanzia maggiore del governo, quando fino adesso, proprio per merito suo, è stato messo in atto il piano nucleare?
Ancora una volta il dibattito politico ritorna ai quesiti di fondo, in quanto si tratta di scegliere se dare legittimità alle istituzioni oppure cercare altre strade. I tre referendum ripropongono la "lunga marcia" attraverso le istituzioni. Non solo, ma, anche nel caso di una vittoria niente affatto scontata dei sì, non ci si garantisce dalle scelte governative, mentre si rischia di dar loro la possibilità e la forza di aggiornarsi per trovare un consenso che ora non hanno. Come si diceva all'inizio, sono sempre loro che decideranno cosa fare e quali leggi varare. L'abrogazione di quelle attuali rappresenterebbe facilmente lo stimolo a inventarne di nuove, ancora più infide e furbesche, capaci di garantire con più efficacia il piano energetico nazionale da essi concepito e voluto. A questo proposito la posizione del governo è stata molto chiara: dopo Chernobyl ha stabilito che non è affatto mutata la volontà politica di portare avanti il piano energetico nazionale basato sul nucleare. I referendumisti forse pensano che, obbligandoli ad abrogare alcune leggi esistenti, saranno poi in grado di impedire l'attuazione della loro volontà politica, mentre continuano a conservare il potere di farne altre? Se sono convinti di una simile cosa, peccano veramente di una colpevole e imperdonabile ingenuità.
Ma è importante un'altra considerazione. Attualmente, proprio per quello che è successo in Ucraina, c'è una forte emotività indirizzata a rifiutare il piano nucleare dello stato. Una enorme potenzialità di energia popolare. Lo strumento del referendum non farà altro che convogliare tutta questa energia, potenzialmente sovversiva, in un ambito istituzionale, perfettamente controllato e diretto dal sistema di potere in atto, mentre potrebbe essere convogliata verso una volontà di concreto rinnovamento collettivo alle radici. Verrà invece di nuovo incanalata all'interno di una logorante logica di delega alle strutture del potere in atto, proprio perché non vuole mettere in discussione i gangli su cui si regge. Anzi, portando il ragionamento alle sue estreme conseguenze, si tratta soltanto della vecchia proposizione di cambiare i governanti, senza voler mettere in discussione le strutture su cui si regge il sistema di governo. È di nuovo un modo di dirigere politicamente le spinte originarie dal basso, attraverso una logica di partito ormai stantia. Vuol dire riproporre la gestione dall'alto e rifiutare l'autogestione.