Rivista Anarchica Online
San Patrignano & dintorni
di C. Atlante / R. Ambrogetti / F. Melandri
Non è facile affrontare la "questione droga". Sulla rivista ne abbiamo parlato relativamente poco. Il fatto è che su temi come questo c'è sempre il rischio fortissimo di fare della bella teoria, di esprimere opinioni sensate che però, alla prova dei fatti, nello scontro con la drammaticità delle esperienze concrete, non possono che rivelarsi astratte, assurde, inutili. Il dossier che pubblichiamo in queste pagine - realizzato da Carla Atlante, Rosanna Ambrogetti e Franco Melandri - non ha alcuna pretesa di completezza, non intende affermare delle verità solenni né su San Patrignano (dove sono riusciti a mettere piede e ad intervistare Muccioli, dopo mesi di attesa), né tantomeno sul "fenomeno droga" in generale. Più modestamente intende proporre dei materiali per la conoscenza e la riflessione. Ecco allora, dopo quella con il leader carismatico di San Patrignano, l'intervista con alcuni "ospiti" (di sicura fede muccioliniana, cioè mucciolidipendenti); quella con l'operatrice sociale dell'USL di Rimini che vorrebbe vederci più chiaro e comunque diffida di certi sistemi; il colloquio con il prete (in non buoni rapporti con la gerarchia, pare) che anima una comunità (ma lui la definisce "un gruppo politico") nettamente diversa da San Patrignano. Noi della redazione abbiamo aggiunto alcuni stralci da un documento lucidamente critico con Muccioli, i suoi sistemi e i suoi valori, redatto dal Comitato per i diritti civili di Massa e Carrara. Ed infine alcune considerazioni conclusive dei tre curatori del dossier. Nessuna pretesa di "dare la linea" sulla questione delle tossicodipendenze, dicevamo. Ma nemmeno la rinuncia a riaffermare la validità e l'efficiacia - sul piano etico come su quello "terapeutico" - della libertà individuale, quale elemento fondante di qualsiasi associazione, comunità e società. Comprese quelle di/per tossicodipendenti.
1. Quasi una premessa
Recupero non
riciclo
Droga! Basta la
parola, come recitava un vecchio slogan pubblicitario, perché ai
benpensanti e non, corra un brivido lungo la schiena e la fantasia
vada a paradisi infernali lastricati di siringhe. Ma il problema, si
sa, è molto più vasto e tocca aspetti culturali, individuali e
sociali. Il "fenomeno
droga" (comprendendo con tale termine tanto le droghe pesanti,
che danno assuefazione fisica - come l'eroina, l'anfetamina, la
morfina, l'alcool, ecc. - che quelle leggere che possono, al massimo,
dare un'assuefazione psicologica - marijuana, hashish, mescalina,
ecc...) si pone alla confluenza di molteplici fattori. I motivi che
portano un individuo a far uso di stupefacenti sono tanti quanti gli
individui stessi, ma le cause più comuni risultano essere
l'incapacità individuale di adattarsi e/o reagire ad una determinata
situazione personale, familiare, sociale; il desiderio di evasione
dal tran tran quotidiano; il tentativo di una ricerca interiore. A
tutto ciò va aggiunto, soprattutto negli ultimi tempi, una
mentalità "consumistica" per cui la droga viene
identificata come il rimedio per insoddisfazioni, noia, frustrazioni,
dell'origine più varia, quando non addirittura come "passatempo". Non va poi
dimenticato che ogni cultura prevede, di fatto, l'uso "socializzato"
di una determinata sostanza, al fine di dare risposte ai problemi
individuali di cui si diceva. In questo senso si può notare come
nelle culture "selvagge" l'assunzione di droghe è un fatto
praticamente generalizzato ed avviene all'interno di momenti
comunitari particolari. Così come momenti comunitari erano le
osterie di un tempo, in cui tantissimi si recavano dopo il lavoro a
bere vino od alcoolici, droghe pesanti accettate dalla nostra cultura
e dalle istituzioni. Da ultimo non va dimenticato il richiamo che "il
gusto del proibito" esercita e che si salda con tutti i fattori
sin qui accennati, potenziando la richiesta del qualcosa di "diverso"
e "nuovo". Tutti questi
fattori solo raramente hanno trovato un catalizzatore finché, con la
società industriale, non è avvenuta la massificazione che, da un
lato, ha distrutto ritmi e prospettive individualmente controllabili
e gestibili, mentre, dall'altro, ha posto il singolo in una
situazione di solitudine (ad es.: con la famiglia nucleare) a cui non
sempre è facile reagire. In questo ambito sono apparsi i primi
fenomeni di "droga di massa" di cui l'epoca del proibizionismo
americano è quella nota e dimostrativa. Nella nostra epoca
consumistica, le risposte istituzionalizzate ai bisogni delle
persone, paiono essere, pur nella loro apparente diversità (dal mito
della carriera al "rifugio individuale" costituito dalla
famiglia; dalla falsa socialità della partita, della discoteca e dei
concerti di massa, all'apparente apertura sul mondo offerta dalla
televisione) incapaci di rispondere alle esigenze individuali, e
soprattutto alle esigenze di quella parte di popolazione (in
particolar modo ai giovani più sensibili e più psichicamente
fragili) su cui la droga, coniugando in sé il "gusto del
proibito" e la promessa del paradiso, esercita un'indubbia
attrazione. Favorita anche dalla struttura distributiva mafiosa, per
cui essa risulta di assai facile reperibilità. Si aggiunge così al
fin tropo noto circolo vizioso per cui il tossicodipendente cade
sempre più nella ragnatela della delinquenza e dell'emarginazione,
spinto dal bisogno fisico di quegli stupefacenti, che lo stesso
tossicodipendente scopre sempre più come non rispondenti al suo
desiderio di evasione ed autoaffermazione. Emerso così, nella
sua natura di fenomeno sociale, le risposte politiche che le
strutture istituzionali danno a questo, si rivelano estremamente
fuorvianti. Esse si limitano, infatti, a misurarsi in una gara di
prestigio cercando di emergere l'una in contrapposizione con l'altra,
nell'unico e subdolo intento di accaparrarsi il "problema
droga". Questo atteggiamento non si è rivelato in ogni caso di
alcuna efficacia, tenuto conto che il messaggio che ne emerge è
essenzialmente quello di incanalare tale problema in un discorso di
integrazione sociale a tutti i livelli, sostituendo ai "valori
scabrosi" (che girano intorno alla "cultura del buco")
quelli tradizionali di famiglia, lavoro, morale, ecc., spesso non
meno alienanti e comunque non automaticamente "alternativi",
e che non rispondono certo ai problemi di fondo. Ed è proprio sul
come e perché del recupero del tossicodipendente che si notano
meglio i frutti di una cultura di tipo autoritario. Molte comunità
che si occupano di tale problema, tentano, spesso, quale più e quale
meno, di dare al tossicodipendente una serie di valori, che ne
facilitino il reinserimento e l'accettazione della società così
com'è. Solo in questo senso si cerca di attivare la volontà dell'ex
tossico, spingendolo, nel contempo, ad una sorta di rimozione
dell'esperienza del buco, vista esclusivamente nella sua dimensione
negativa di annullamento individuale. A nostro avviso,
invece, scopo del recupero deve essere quello di favorire (ed in
questo senso aiutare) la ricerca soggettiva di valori confacenti al
proprio essere. Un'elaborazione che
non demonizzi l'esperienza del buco, ma la superi e la consideri come
un passaggio, purtroppo sperimentato, e che può servire per una
riappropriazione della propria forza di volontà e di
autodeterminazione. In tale modo il recupero non deve essere una
contro-alienazione, ma un'affermazione dell'individuo nella sua piena
umanità, poiché non è sostituendo i "valori illeciti" con i
"valori leciti" che ciò può avvenire. Ma sta all'ex-tossico
ricercare la piena e cosciente libertà di scelta che può avvenire
solo tramite valori scoperti ed affermati principalmente dalla
propria spontanea necessità, elaborazione e crescita.
2. Intervista
a Vincenzo Muccioli
Vogliamoci beneQuali motivazioni
l'hanno spinta ad intraprendere questa iniziativa?
Una necessità di
rispettarmi come uomo sociale, socializzato, che vede nella società
di cui fa parte una situazione di difficoltà; che vede della gente
che muore, che ha bisogno di essere aiutata, capita, soccorsa; gente
che non ha bisogno di giudizi, di condanne, di incomprensione. Non
trovo giusto che questa gente sia giudicata, messa ai margini;
intanto che si studiano le varie soluzioni questa gente muore ancora.
Così ho deciso di dare una mano così come potevo a queste persone,
quando queste persone me lo chiedevano. Credo che l'uomo abbia prima
che dei diritti dei doveri ed io penso che la vita sia una cosa da
difendere. Non credo che l'uomo da solo riesca a farlo, come uomo è
profondamente limitato; ha bisogno di un supporto nei momenti di
difficoltà che un altro uomo può avere, non perché gli sia maestro
di vita, ma perché non è afflitto dalle stesse limitazioni che lo
bloccano. Così per me è come si articola la società nei rapporti
interpersonali fra gli uomini che la compongono. Di conseguenza son
partito.
Questo tipo di
struttura è nata come sperimentazione o si è basata su esperienze
terapeutiche già da Lei acquisite in precedenza?
È
nata in modo totalmente spontaneo. Da un tossicodipendente a tre a
cinque, a dieci, a venti; ed oggi a seicento.
Sino a che punto
la comunità di S. Patrignano è Muccioli?
È
Muccioli fino alla sua formazione, alla sua strutturazione in questa
regola di base che praticamente è una: il rispetto della vita, il
rispetto dell'uomo. Per quanto riguarda la gestione, la conduzione,
S. Patrignano è S. Patrignano fatta di tutti quelli che la
compongono. Una struttura del genere può andare avanti, anche senza
di me, con quelli che hanno scoperto degli ideali, dopo essersi
realizzati come uomini, ideali che li portano a lottare per il
miglioramento delle condizioni dell'uomo.
Pensa che i suoi
valori etici, morali, religiosi, finalizzati al recupero, siano
condivisi dai ragazzi o accettati supinamente?
Io faccio perno sui
valori sociali, i valori religiosi li scopriranno poi; se poi
collimano bene. Valori cristiani e valori marxisti per me collimano
quando difendono la vita dell'uomo, i diritti e la parità fra gli
uomini, il non sfruttamento sul lavoro, ecc... Io non parlo mai qui di
politica o religione, devo formare l'uomo, non il politico o il
religioso; poi l'uomo scoprirà, una volta scoperto se stesso, qual è
la linea politica o religiosa, ecc. che vuole seguire. Io sin dove
posso li aiuto, anche nel reinserimento, perché non si può parlare
di soluzione del problema se non cerchiamo con la prevenzione di
chiudere questo ciclo. L'ex-tossicodipendente non deve essere visto
come ex e portare quel marchio: è pur sempre un individuo inserito
nella società, non può essere disconosciuto.
La comunità è
essenzialmente a scopo terapeutico o vuole anche essere
un modello, un embrione per una società diversa, con
una sua progettualità alternativa?
Non possiamo
pensare di reinserire nel sociale un ragazzo se non lo forniamo alla
società di cui anche S. Patrignano fa parte. Non siamo una setta
avulsa dalla società, ma persone che lottano per il miglioramento
della società stessa di cui fanno parte: difendiamo la vita
dell'uomo, sopportiamoci, aiutiamoci, vogliamoci bene, rispettiamoci.
Io cerco di vivere in una certa maniera per dare a questi ragazzi una
cultura di una possibilità di vita non basata sul potere,
sull'arrampicata sociale, calpestando tutto e tutti. Agiamo nel
rispetto dell'uomo, perché il danno che diamo all'uomo lo diamo alla
società e prima o poi si ripercuote su di noi. Tutto questo riferito
non solo a S. Patrignano, ma anche al sociale di cui facciamo parte.
Che funzione ha
la disciplina nella comunità, disciplina che dall'esterno appare
molto anacronistica, moralista ed autoritaria? Ad esempio censura
della posta, limitazioni nei contatti verso l'esterno, restrizioni
sessuali.
I rapporti con
l'esterno esistono continuamente: non ci sono cancelli o reticolati.
I ragazzi girano, ogni lavoro è difeso e gestito dai ragazzi che lo
animano. La disciplina è quella che ogni uomo deve avere,
soprattutto con se stesso nel rispetto dei propri doveri di uomo, nel
contesto sociale di cui fa parte. Per quanto riguarda i rapporti
sessuali, non ho fatto questa comunità per trasformarla in una casa
di piacere. I rapporti sessuali per me vanno benissimo, però
concepiti con responsabilità, con rispetto all'altra persona. In
piazza questi ragazzi vivono il sesso in un certo modo ed hanno
frustrazioni pazzesche proprio per l'uso che fanno di se stessi.
Quindi rivalutarli nella loro dignità significa anche rivalutarli in
questo senso, perché un uomo non può mettere ordine nella sua vita
a compartimenti stagni, deve farlo nel suo insieme. Se lascia una
casella chiusa quella contagia le altre. Non è autoritarismo. Il
rispetto non è alla mia persona, il rispetto è all'uomo. Vedono in
me una persona che rende concreti dei concetti che sono accessibili
ed ogni uomo li ammette. Che non bisogna rubare, che non bisogna
sfruttarsi, che bisogna usare la razionalità, tutti lo sappiamo. Il
difficile è rapportare questi concetti al vivere pratico di ogni
giorno. Ecco, vedranno in me un uomo che cerca, pur nella sua
imperfezione, di vivere anche nella pratica quei concetti che
teoricamente tutti abbiamo. Vedere uno agire coerentemente determina
il rispetto da parte degli altri.
Viene mai messo
in discussione?
Certo, parlo coi
ragazzi, cerco di chiarire delle situazioni che si determinano. Loro
dicono il loro punto di vista che non sempre collima con il mio e
mettendo le nostre idee assieme cerchiamo la strada migliore da
seguire.
Cosa significa
per lei essere al centro dell'attenzione?
È
una cosa scomoda, ma anche utile. Portare un'esperienza che dimostra
che dalla tossicodipendenza si può uscire è un messaggio di
speranza supportato dalla pratica, dalla realtà. Anche interviste,
televisione, ecc. servono a questo: dare una speranza a chi è
emarginato e crede di non poterne uscire. Ci possono essere tante
risposte, non necessariamente questa. Io non sono per la coercizione,
non costringo i tossicodipendenti a venire, non li vado a cercare, ma
a chi chiede aiuto devo darlo. Io gli illustro cosa li aspetta qui,
se gli sta bene si fermano.
3.La
parola agli "ospiti" di San Patrignano
E noi bene ci
vogliamo
Perché siete
venuti a S. Patrignano? È
la vostra prima esperienza in comunità terapeutica?
Stefano - Io
ero già stato circa cinque anni fa da Padre Eligio, per sette-otto
mesi; poi mi è scaduta l'aspettativa del lavoro e sono dovuto
tornare fuori a lavorare, ma non ero pronto. Nel giro di tre o
quattro mesi ho ripreso a farmi. Già da tempo cercavo di smettere,
viaggiavo, ma al ritorno in Italia ricadevo, tornavano fuori i
problemi.
Giorgio -
Questa è la mia prima esperienza, sono qua principalmente perché il
tribunale di Ferrara mi ha domiciliato qui ed un po' perché già
avevo maturato la decisione di smettere, di cambiare vita. Ma se non
ci fosse stato chi inizialmente ha deciso per me, dandomi una vita da
seguire, qui non ci sarei mai arrivato.
Raffaella -
Per me è stata una scelta ben precisa dopo anni di vari tentativi
falliti, ospedali, ecc... Sono venuta qui per consigli e voci che
avevo sentito.
Consuelo -
Io sono venuta qui perché non ne potevo più: mi ha portato mio
padre dopo avermi tenuta in casa per una settimana. Non ero molto
convinta di venire in comunità, ma volevo smettere dopo tanti
tentativi falliti in ospedale, da sola, con la psicoterapia. Poi mi
sono determinata, ho detto basta. E adesso sono qui da quattro anni.
Al di là della
terapia, come vivete la vostra situazione? C'è una revisione critica
del vostro modo di essere? C'è l'accettazione di un diverso universo
di idee o niente di tutto questo?
Consuelo -
Questo è basilare. All'inizio c'è stata una revisione della mia
vita, un tentativo di rafforzarmi in quelle cose che altri mi
dicevano ed in cui non credevo, valori come la famiglia, la
responsabilità, ecc... Adesso le vivo, le ho raggiunte, vado avanti
credendo in queste cose che per una persona normale credo siano la
base della vita.
Raffaella -
Sono d'accordo, però non parlerei di terapia. Qui c'è un
rapportarsi con le persone secondo le rispettive personalità. I
valori di cui parla Consuelo sono cose che ti entrano dentro, che
vivi ogni giorno sempre di più: un modo di vita che senti tuo.
Perché tanti di
voi, di fatto, non riescono a staccarsi dalla comunità?
Stefano -
Secondo me non è vero: tanti sono usciti, tanti aspettano di uscire.
La permanenza varia a seconda delle persone: per uscire dalla
tossicodipendenza uno deve analizzarsi, confrontarsi giorno per
giorno e questo costa tempo e fatica. Ma non esiste la dipendenza
dalla comunità, quando ti senti sicuro segui la tua strada.
Raffaella -
C'è poi chi sceglie di restare qui, ma è una scelta ben precisa per
aiutare gli altri e non un isolarsi dall'esterno.
Consuelo -
Certamente quando uno esce rimane legato alla comunità per affetto;
qui ci hanno dato qualcosa e l'affetto, l'amicizia, rimangono.
Sino a che punto
S. Patrignano è Muccioli?
Consuelo -
Chiaramente dietro S. Patrignano c'è Vincenzo, non ce ne sono tanti
come lui. Lui ci ha dato molto, è una persona molto saggia di cui ci
fidiamo. A me ha sempre saputo dare delle risposte che ho verificato
come valide. Ciò che ti dice lo verifichi in quello che vive lui e
che viviamo noi tutti i giorni, questo gli da credibilità.
Stefano - È
una persona che ha annullato completamente la sua vita per darla a
noi.
Come vivete la
disciplina, che, almeno dall'esterno, appare molto rigida con regole
"medioevali" anche riguardo al sesso, ai rapporti con
l'esterno, ecc. ?
Stefano -
Visto le persone che sono qua le misure sono giuste. Se ti arriva
posta per esempio potrebbero esserci dentro soldi o roba. Siamo 500 e
c'è bisogno di un controllo.
Consuelo -
Sono state delle esigenze che hanno fatto nascere queste regole.
All'inizio non era così. Relativamente ai rapporti sessuali, quando
uno arriva ha storie di piazza e di sesso fino alla saturazione;
arrivi non hai più roba, se ti butti sul sesso, in storie senza
importanza, questo ti può di nuovo provocare delusioni, avvilimenti.
Col tempo uno matura, si realizza come persona e nessuno gli
impedisce la storia. Ad esempio io mi sono sposata qua ma quando
all'inizio mi sedevo in braccio a qualcuno, gli toccavo i capelli,
Vincenzo mi diceva. "No, tu non fai così, prima ti realizzi
come donna, nel lavoro, con una tua personalità, poi puoi farti la
tua storia".
Raffaella -
Io ci tengo a precisare che quando uno entra tutte queste cose gli
vengono dette.
Giorgio - Se
non ci fossero regole ci sarebbero molti casini, siamo 500 e non
eravamo certo angioletti. Inoltre ogni forma di società, anche la
più primitiva, deve sottostare a certe regole per garantire la
socializzazione. San Patrignano rispecchia soltanto un prototipo di
una società normale basata su valori che fuori puoi perdere di
vista, qui no.
Ma parlate di
valori che già avevate o sono "scoperte" fatte qui ?
Stefano
- Li potevi anche conoscere, ma li ignoravi perché ti faceva comodo.
Giorgio -
Quando uno comincia a bucare a dodici anni non ha modo di conoscere
valori come l'onestà, la lealtà, apprezzare i rapporti
interpersonali. Per la maggioranza di noi penso siano valori maturati
qui.
Consuelo -
Prima non ci si credeva più. Io sono arrivata al buco anche, non
solo, perché non credevo più a determinate cose tipo la gente, la
famiglia, la politica: eravamo pieni di tante intenzioni che si sono
rivelate solo parole, di conseguenza è venuta meno la forza di
tirare avanti. Ecco, qui alcune cose le ho ritrovate, altre sono
nuove.
Possibile che
per uscire dal tunnel della droga 500 persone, in modo così
compatto, abbiano bisogno di abbracciare questi valori? Valori in
passato anche contestati?
Consuelo -
Sono valori reali e non sono tanti! Crediamo in queste cose perché
sono reali.
Stefano -
Questo è un modo di uscirne, non l'unico. Vincenzo ci pone davanti a
problematiche di vita da superare e ti da l'opportunità di capirle.
Consuelo - Non è
che Vincenzo ti da un decalogo. È che nella vita di tutti i giorni
scopri per esigenza l'onestà, ecc... In passato ci era comodo andare
contro la famiglia, ma ciò che la famiglia fa è sempre in buona
fede, anche se c'è chi sbaglia. Ma la famiglia come fondamento della
società esiste. Noi contestavamo la "nostra" famiglia, ma
l'essenza è giusta, come unione, come nucleo della società.
Vincenzo ha riportato qui ciò che fa in famiglia con sua moglie ed i
suoi figli: la coerenza e la responsabilità di un uomo.
Raffaella -
Certamente poi tutti questi valori ognuno li assimila a modo suo.
Sappiamo che
siete contrari alla liberalizzazione della droga. Perché? La droga
non deve essere libera perché qualcuno ne impedisce l'uso oppure è
necessaria una crescita di coscienza e poi il problema non si pone
più?
Consuelo -
Sono contraria alla liberalizzazione, perché sarebbe come dire
andiamo avanti a farci: non togli il furto perché la roba non basta
mai; non togli la mortalità perché di droga si muore sempre; non
togli spacciatori e contrabbando. È come dire legalizziamo i morti.
Stefano - A
livello politico creeresti una massa di persone, una generazione che
vegeta, è contenta, non protesta, non chiede niente.
Giorgio -
Sì, è importante la coerenza e qui ormai siamo sensibilizzati, ma
fuori non vediamo risultati.
Stefano -
Non ci sono leggi adeguate. È una guerra fredda e allora bisogna
rimboccarsi le maniche: prendiamo le cose buone e andiamo avanti con
quelle. Legalizzare la roba è assurdo perché ti toglie la voglia di
vivere.
Consuelo -
Sarebbe lo stato di spaccio...
Stefano -
Diventeremmo poi un mercato per l'estero... (n.d.r.: il discorso non
è recepito nei nostri ripetuti tentativi di portarlo su un piano
metodologico e sociale, così come non si è riusciti ad approfondire
i motivi che li hanno portati al buco. Anche in questo caso le nostre
domande non sono state raccolte sino in fondo)...
Passando ad
altro, nel campo del lavoro ognuno può seguire i suoi interessi ed
inclinazioni personali oppure deve seguire quanto viene deciso da
altri?
Consuelo -
Ognuno sceglie ciò che gli piace. A me piace cucire ed ora sono
inserita nella pellicceria. Noi lavoriamo per soddisfazione
personale, non per lo stipendio.
Raffaella -
Nessuno viene indirizzato; all'inizio il ragazzo viene seguito da un
altro ragazzo, per cui inizialmente segue ciò che fa l'altro. Poi
col tempo può scegliere di cambiare e fare ciò che più gli piace.
I lavori si sono creati mano a mano dalle nostre esigenze.
Giorgio -
Qui ci specializziamo in vari settori e cerchiamo di essere
competitivi in ogni campo.
Avete detto che
non si può parlare di terapia, quindi in definitiva in che modo
"guarite"?
Raffaella -
Il rapporto con gli altri, sentire il loro appoggio, vedere gli altri
agire e muoversi in un certo modo ti dà la carica giorno per giorno.
È l'ambiente che ti aiuta, l'esempio di altri ex-tossici che trovi
guariti. Sono persone che hanno vissuto la tua stessa esperienza.
Stefano -
Sì, inconsciamente vedere gli altri ti aiuta. All'inizio ti lasci
trasportare, poi cominci a svegliarti, a prenderti impegni, con
qualcuno che ti dà sempre una mano. All'inizio puoi sentirti isolato:
poi col lavoro, con le amicizie, cominci a tirare avanti. A questo
punto non è che diventi perfetto, però nel confronto con gli altri
riesci a sentirti forte, a gestirti meglio.
Come vedete il
vostro futuro?
Consuelo -
Rosa! Uscirò, vorrei realizzarmi con il lavoro, con il mio uomo, con
i miei figli ed essere felice. Scherzo, ma in sostanza è ciò che
voglio e la mia più grande paura è non avere amici fuori.
Raffaella
- Io ho buone prospettive di lavoro. Per quando uscirò, mi aspetto
certamente delle difficoltà, ma conto sulle mie forze per poterle
affrontare.
4.Floriana
Raggi, operatrice sociale a Rimini
Detto fra noi non
mi convince
Cosa ci puoi
dire della comunità di S. Patrignano, tu che operi
nella zona?
L'unica volta che
ho avuto un contatto diretto con S. Patrignano è stato nel 1980 per
un paziente seguito al centro di igiene mentale. Lui stava presso la
comunità e ci telefonò disperato chiedendo di parlare con noi
perché voleva uscire da S. Patrignano, dove stava male. Quando un
collega ed io ci siamo recati sul posto, per parlargli, ci è stato
permesso di farlo solo alla presenza di alcuni operatori di fiducia
di Muccioli. Ho vissuto male questa situazione, come una violenza che
non riscontravo più da tempo neanche in quelle strutture ritenute
istituzioni totali come i manicomi. Non mi hanno quindi stupito le
denunce nei confronti della comunità, perché di fatto è un
ambiente con un forte controllo verso l'esterno.
Muccioli che
figura è all'interno della comunità?
Indubbiamente
Muccioli è una persona che ha una grossa carica umana, una grossa
carica affettiva, un grosso potere, se vogliamo usare questa parola.
Ha senz'altro delle capacità intuitive non comuni, ed è vero, come
alcuni hanno detto, che terapeuti si nasce. Indubbiamente il suo
potere carismatico ha molta importanza rispetto al recupero dei
tossicodipendenti. Comunque sicuramente lui non ha le qualifiche
professionali che si richiedono normalmente per lavorare in questi
settori; non ha lauree, non ha specializzazioni, cosa che
indubbiamente dà fastidio agli "addetti ai lavori".
Muccioli è un
autodidatta, si è costruito una sua terapia dalla pratica stessa
nella comunità. Cosa ne pensi?
Chiunque lavori con
i tossicodipendenti o i folli apprende, dalle persone stesse, e si
arricchisce attraverso queste ed i loro problemi. Se vogliamo
ricollegarci ai fatti che l'hanno portato in tribunale, è innegabile
che ci siano state delle denunce e quindi delle persone che hanno
ritenuto di dover intervenire nei suoi confronti in termini di legge.
Probabilmente Muccioli non ha saputo porre dei limiti al suo potere,
ne ha abusato in termini di violenza, e questo, come operatrice, come
persona che ha creduto in una certa pratica psichiatrica contro la
violenza delle istituzioni totali, per la chiusura dei manicomi, a
favore di un rapporto di rispetto della soggettività della persona
che sta male (anche se in quel momento non ragiona, anche se è in
crisi), non posso accettare che da parte di qualcuno che si ritiene
in grado di recuperare queste persone, si abusi poi di questo potere
sapendo o facendo quello che è bene per l'altro. Quindi questo
rinchiudere la gente, l'uso delle catene, il diritto di violare la
libertà altrui, mi sembrano un eccesso da condannare e da
combattere. Perché sono le stesse violenze contro cui abbiamo
lottato nel periodo della chiusura dei manicomi ed ancora lottiamo
laddove si abusa di un certo potere da parte dei medici. E
soprattutto laddove non c'è un controllo pubblico. Parallelamente a
questo mi sembra che da Muccioli traspaia una mentalità
tradizionale, molto conservatrice. Da una parte sembra che lui
combatta la mentalità dominante, rappresentata dalle istituzioni
dello stato (non accettando di avere contatti con la struttura
pubblica dell'U.S.L.), dall'altra però ripropone i valori della
famiglia "sana". Valori che sono l'opposto di quelli che il
tossico cercava nel buco; perché la cultura che girava attorno al
buco era, fino a qualche anno fa, una cultura tutto sommato
alternativa. In realtà Muccioli
ripropone un'istituzione totale, sulla quale secondo lui ci deve
essere il controllo della collettività. I cittadini hanno il diritto
di entrare in una struttura che non è chiara, che non è
trasparente, e da cui partono le denunce. Infatti chi ha subito la
repressione dei manicomi, o negli istituti per handicappati, nel
momento in cui queste strutture sono state distrutte, grazie al
controllo pubblico, è riuscito a reinserirsi e a costruirsi una sua
soggettività. Tutto questo grazie al movimento che allora si
sviluppò e di cui bisogna mantenere viva la memoria storica. Come operatori non
possiamo permettere che passi questa logica, non possiamo legittimare
la violenza come metodo. Tra l'altro è stato dimostrato da altre
comunità che non si deve necessariamente arrivare a questi metodi
violenti e repressivi; e laddove questi si usano, significa che c'è
da parte dell'operatore, del terapeuta, un'impotenza a gestire la
situazione. Le comunità che operano in questo campo si orientano
metodologicamente verso un contratto terapeutico di solito molto
severo (il tossicodipendente al suo ingresso, acconsente ad una
serie di regole rigide e a un tempo strutturate altrettanto
rigidamente), contratto che però non ha nulla a che vedere con la
contenzione - gli stanzini bui o le catene - ma semmai con il
contenimento. Due termini, questi ultimi, carichi di storia e che
occorre distinguere, non solo dal punto di vista semantico. Se dietro
la parola "contenzione" ci sono gli orrori dell'Ospedale
Psichiatrico, il "contenimento" è un termine che fa
pensare a strategie di intervento tese a ricomporre le realtà
interne delle persone, perché queste, aumentando la consapevolezza
di sé, assumano maggiore contrattualità sia verso l'esterno che
verso se stesse.
Ma i risultati
pratici in realtà quali sono?
Riguardo al numero
di persone che sono uscite dalla comunità non ci sono dati certi,
anche perché molti continuano a viverci o a rimanere collegati.
Disintossicati, ma non autonomi, con un percorso proprio, e non a
caso ci sono state accuse di dipendenza dalla comunità. Credo che
ciò sia inevitabile, così come esiste la dipendenza dal terapeuta,
del figlio dal genitore o dell'innamorato dall'innamorata. La
dipendenza è una condizione in cui tutti, credo, siamo immersi.
Bisognerà vedere cosa succederà quando verrà a mancare la figura
di Muccioli sempre più carismatica, perché a quanto ne so, mi
risulta che sia lui stesso in prima persona che gestisce le crisi. Ma
la valutazione di questa esperienza è difficile poterla fare ora, in
quanto è in corso da troppo poco tempo.
5. Don Ulisse Frascari, animatore della comunità il "Villaggio
del fanciullo" a Ravenna
Ma da curare è
la società
Come è nata la
sua esperienza, nel campo della tossicodipendenza, e quali sono state
le evoluzioni e le esperienze del Villaggio del fanciullo?
Il Villaggio del
fanciullo sorse, nel 1960, come sperimentazione per dare una risposta
al problema dell'emarginazione. Dapprima si rivolse all'infanzia
occupandosi anche del diffuso stato di analfabetismo. In seguito
l'attenzione si spostò sul problema delle scuole speciali, ed anche
il livello di età si alzò; lavorammo molto con gli handicappati ed
i ragazzi disadattati che erano costretti a vivere in manicomio.
Infatti, per molto tempo ed ancora oggi, il Villaggio del fanciullo è
conosciuto in gran parte d'Italia per questa sua attività. Attorno
agli anni '70, circa, col sorgere del problema droga, avemmo un primo
caso di un tossicodipendente, ma fu un'esperienza isolata. Qualche
tempo dopo, col dilatarsi del fenomeno, e su invito di altri
operatori, l'esigenza di occuparsi delle tossicodipendenze si fece
molto forte; da allora ce ne occupiamo e siamo nel pieno di questa
attività. Il problema della
droga fa molta paura e non ha avuto fino ad ora delle prospettive di
soluzione, precise e chiare. Non ci sono o non ci vogliono essere
(soprattutto a livello politico) perché si vuole incapsulare questo
fenomeno in una realtà patologica, il che non è assolutamente vero.
Che sia una malattia, posso essere d'accordo, però non è una
malattia dell'individuo ma della società; la tossicodipendenza,
quindi, non è altro che una logica conseguenza dell'anormale realtà
sociale. Vanno usate non delle metodologie terapeutiche, come
purtroppo oggi succede, ma una metodologia politica. Ed è in questa
ottica che dobbiamo agire. La nostra non è
una comunità terapeutica, anche se da altri è considerata tale, ma
un gruppo politico. Ritengo sia assurdo parlare di comunità
terapeutica, soprattutto considerando quella che è la struttura di
tali comunità: una forma chiusa, dove uno è obbligato a degli
schemi ben precisi e dove avviene un indottrinamento che è
impressionante. Dove cioè, praticamente un individuo viene preso,
messo in uno stampino e battuto lì dentro finché non si identifica
con esso. Quando lo stampino è pronto lo tirano fuori, se resta con
la forma desiderata, va tutto bene se, al contrario, non si è
uniformato il processo di identificazione viene ripreso. Questo è
inconcepibile. L'individuo deve poter restare tale, deve avere la
capacità di esprimere la sua individualità. Io posso tentare di
aiutarlo a correggere la sua anomalia, se questa esiste, perché a
volte riteniamo che una fenomenologia anomala sia nell'altro, mentre
invece è in noi. È questo confronto che purtroppo viene a meno,
quindi noi ci muoviamo come gruppo all'interno del quale si convive,
dove si cerca di presentare delle alternative attraverso uno studio
di quella che è la realtà sociale con ricerche e sperimentazioni
che credo meritino di essere considerate, come ad esempio il discorso
dell'autogestione. Il gruppo che
produce gestisce così la sua realtà auto-produttiva, in maniera
totale. Credo che queste sia molto importante. Ho visto che con
l'investimento globale delle problematiche che esistono nella realtà
sociale, l'individuo ritrova se stesso. Trova il desiderio ed il
bisogno di potersi esprimere, di poter evidenziare la sua realtà e
quindi diventa un recupero, non tanto alla società, ma a se stesso.
C'è un'inversione di marcia, dunque, molto importante. Non si tratta
di portare l'individuo ad una integrazione nella struttura sociale
(considerato che questa è assurda in quanto esprime soltanto
violenza, valori umani che non hanno senso e porta avanti un discorso
di comunismo parossistico) ma è all'identificazione con se stesso
che, confrontata con l'identità degli altri, pone le basi di un
progresso civile valido. La nostra struttura
è impostata in questo senso; quindi non è comunità ma è
convivenza; è esperienza di realtà sociale alternativa, di realtà
sovversiva. Non dobbiamo aver
paura dell'eversione. Oggi il potere identifica il discorso eversivo
con quello dinamitardo che è solo una sua espressione violenta.
Eversione vuole invece dire trasformazione sociale e, per tale
ragione, un'eversione pacifica dobbiamo cercarla tutti, perché
questa deriva da un confronto pacifico, accettato reciprocamente da
individui che vivono assieme. Io vivo in una realtà per me
inadeguata, che non riesco a sopportare perché mi sta soffocando, e
non devo avere paura di dire che voglio cambiarla e crearne un'altra
che possa essere più vivibile. Quindi il nostro scopo è quello di
realizzare una realtà comunitaria per arrivare al superamento delle
comunità. Anche per quanto
riguarda la legge, non mi trovo d'accordo con una società che dice
che l'uomo è fatto per la legge e deve osservarla. Sono convinto del
contrario. È la legge che deve osservare l'uomo. Egli deve, tutt'al
più, dare gli strumenti al governante, che deve avere una funzione
di sola organizzazione e non di potere; strumenti per poter fare
delle regole, che possono servire ad armonizzare i rapporti tra gli
individui. E quando queste regole perdono tale funzione, diventano di
disturbo per i rapporti dell'uomo, devono essere superate e messe da
parte. Si tratta quindi di un principio di vita e non di morte.
Purtroppo, spesso, la legge è strumento di morte e non di vita,
individuale o sociale. Far passare un discorso di questo genere non è
facile, perché il potere teme la sua validità. Quello che è
triste, è che anche la gente non lo accetta, non ha la maturità
sufficiente, perché ha paura. Purtroppo, oggi,
c'è in tutti una grande insicurezza e si è portati ad attribuire le
proprie certezze agli altri. Il lavoratore affida la sua al padrone,
senza rendersi conto che questa gli dà sicurezza di uno stipendio,
finché ne ha un guadagno, e quindi una sicurezza aleatoria. Noi
dobbiamo invertire questa logica e dire: "sono io la mia
sicurezza", ed ognuno può crearsi la propria, soprattutto
unendosi agli altri e collaborando con essi.
Perché il
fenomeno droga è un problema politico? Qual è la sua radice, da
quale bisogno è giustificato?
Il problema della
droga, per me, è legato principalmente alla non-soluzione dei
problemi giovanili. Molti dei ragazzi con cui ho a che fare
presentano una problematica di questo genere. Hanno una grossa
insicurezza ed un'incapacità di affrontare (per vari motivi, come i
dissesti familiari e l'eccessivo protezionismo dei genitori) il
proprio futuro, perché non hanno speranze di riuscire ad affrontare
la propria esistenza e la realtà. Una fenomenologia, questa, che non
viene certo affrontata dall'ente pubblico e dallo stato, nel modo più
assoluto. Il discorso può essere applicato in modo diverso
riferendoci, per esempio, al lavoro artigianale. Nelle botteghe, il
ragazzo aveva la possibilità di ricercare e scoprire la propria
creatività. Questo è un aspetto che, attualmente, è completamente
scomparso. Oggi questa società ti vuol dare tutto; questa mentalità
assistenzialistica continua ha annullato nell'individuo le sue
qualità essenziali, come quelle della creatività. Questi sono tutti
fattori che possono portare ad una situazione di tossicodipendenza e
che noi dobbiamo rianalizzare con un senso di equilibrio diverso.
Rispetto agli
enti istituzionali la vostra collettività che rapporti ha, viste le
basi su cui si fonda?
Noi non ci
proponiamo come realtà privata contraria all'ente pubblico, ma come
collettivo che vuole collaborare con esso. Alcuni risultati li
abbiamo già ottenuti, per esempio, per quanto riguarda l'assistenza
medica. Io sono pedagogista, ed ho qualche conoscenza di psicologia,
ma non sono un medico e quindi ho bisogno del supporto di questo,
anche istantaneo, nei casi che presentano problemi, di carattere
patologico, molto gravi. In questo senso ho una collaborazione molto
stretta con gli ospedali ed il CTST (Comitato Territoriale per la
Salute dei Tossicodipendenti), che ha dato risultati molto positivi. Avevamo anche
cominciato a mantenere dei rapporti con le famiglie; oggi li abbiamo
eliminati totalmente. In questo caso, l'ente pubblico è diventato un
valido strumento interlocutorio con esse, perché alcune volte le
famiglie non sono disposte ad accettare la linea, o le
sperimentazioni, che fa il collettivo, per cui possono sorgere dei
contrasti. Dovendo invece riferirci solo all'ente pubblico, riusciamo
ad evitare questo problema, ottenendo così la possibilità di
realizzare le sperimentazioni desiderate. Non si tratta quindi di
demonizzare, in assoluto, la collaborazione con l'ente pubblico nel
campo particolare della tossicodipendenza. Cerchiamo piuttosto di
creare un discorso armonico, per attuare una collaborazione più
produttiva ed efficace tra collettivo e pubblico.
Il
tossicodipendente che arriva da voi, come viene inserito in questa
convivenza? Per esempio a San Patrignano, c'è una sorta di decalogo
che condiziona, da subito, la decisione di stare in comunità. Qui
cosa succede?
Il
tossicodipendente che viene da noi sa che entra in un contesto di
convivenza, quindi credo che automaticamente debba accettare delle
regole, che sono poi una sola: quella di accettare per farsi
accettare; dargli cioè la nostra amicizia e far sì che lui ci dia
la sua. Logicamente questo richiede una maggiore disponibilità da
parte di chi ha già trovato una propria identificazione nei
confronti di chi non l'ha ancora fatto. Noi non chiediamo la
disintossicazione; abbiamo dei ragazzi che si sono "fatti"
anche un'ora prima, ed entrano nel nostro contesto senza che gli si
chieda niente. Nei momenti di maggiore sofferenza usiamo solo degli
antidolorifici, con il proposito, però, di arrivare ad un taglio
netto con droghe, psicofarmaci e roba del genere. L'accettazione
reciproca non è sempre facile: le nostre assemblee (una alla
settimana, o anche più a seconda delle esigenze) affrontano spesso
questo problema; la non sopraffazione dell'uno sull'altro. Non è
facile, perché sono realtà che l'individuo troppo spesso non è
abituato a riconoscere. Ognuno tende a vivere in un proprio mondo,
desiderando che gli altri vi si adeguino senza essere disposti a fare
altrettanto. Questa è una delle difficoltà più grosse da superare,
ed il problema stesso della droga è stato accentuato da tale
situazione.
Voi vi ponete
come gruppo eversivo, quindi con una progettualità sociale alle
spalle. Questo si traduce anche in un'azione politica, sociale,
esterna, o rimane prettamente interna?
La nostra
collettività si realizza anche con fatti e momenti che si
inseriscono nel sociale. Se ciò non accadesse non avrebbe senso la
nostra sperimentazione e ritorneremmo al discorso della comunità
terapeutica. Usiamo la politica come terapia, perché il discorso
politico è sociologico ed è in proiezione di una trasformazione
sociologica del mondo che ci circonda. Tant'è vero che noi abbiamo
realizzato una cooperativa, con dei principi che sono abbastanza
"sconvolgenti". I nostri ragazzi non hanno stipendio, perché
la collettività dà dei servizi e deve dare delle risposte a quelle
che sono le necessità esistenziali dell'individuo. Sono questi i
problemi cui occorre rapportarsi: non ad esigenze di imposizione e di
potere. Volevano farci
cambiare lo statuto, che era stato creato dai ragazzi stessi, i quali
si sono rifiutati di modificarlo. Esiste quindi, da parte nostra, il
tentativo di proiettarci anche all'esterno, solo che cercano di
comprimerci. Sono convinto che l'economia individuale sia
fallimentare, mentre quella collettiva riuscirebbe a produrre
benessere e progresso. Per esempio con 500.000 lire al mese uno da
solo non riesce a vivere; 10 persone insieme con 500.000 lire al mese
a testa, formano un reddito mensile di 5 milioni, e riescono a vivere
bene. Non è quindi una questione di risposta finanziaria, ma di
rapporti e di una loro modifica. Si tratta perciò di portare avanti
i propri sforzi per riuscire a creare dei rapporti alternativi fra
gli individui.
Se la sente di
dare un giudizio sulla comunità di San Patrignano e su altre
comunità terapeutiche di cui è a diretta conoscenza?
Su San Patrignano
non ho gli elementi per poter esprimere un giudizio obiettivo.
Indubbiamente è encomiabile e da apprezzare, per quelli che sono
stati gli sforzi che fa per togliere dei giovani dall'emarginazione e
dalla droga; sotto questo aspetto, quindi, l'approvo. Logicamente se
potessi dire qualcosa a Muccioli, gli chiederei di stare attento a
non crearsi un suo piedistallo; perché credo che nessuno di noi
possa servirsi di quello che fa per crearsi una posizione di
privilegio, a cui sono assolutamente contrario. In generale il
concetto di comunità terapeutica mi fa paura, perché viene a
conglobare la realtà della tossicodipendenza in una fenomenologia di
carattere patologico; ed allora diventa una fenomenologia di comodo. Oggi sia alla
struttura sociale che al potere, fa comodo far passare il
tossicodipendente come "malato", il che potrebbe
giustificare, forse fra uno o due anni, la riapertura dei manicomi. Non mi sento di
condividere la chiusura che c'è, purtroppo, in tali comunità, e le
loro barriere. L'uomo, l'individuo, deve trovare un suo modo di
camminare in spirito di libertà, anche con la possibilità di
potersi fare il buco; questo è importante. Io non posso farlo vivere
sotto una cappa di vetro, dove resta preservato da tutto: sarebbe
troppo comodo e, comunque, non più una sua scelta. E una volta tolta
la cappa, cosa succederebbe? Potrebbe anche essere stato un successo.
E se invece questo individuo l'hai distrutto? Se ne hai fatto un
automa? Non è più se stesso; l'hai trasformato in una bestia,
perché non è più libero di operare le sue scelte spontanee, volute
e coscienti. L'uomo deve restare
un essere cosciente. Abbiamo avuto il caso di un ragazzo che da noi,
in 9 mesi, si è fatto 3 volte; se però considero che nove mesi fa'
quando è arrivato qui, si faceva sei buchi in un giorno, posso dire
di aver ottenuto ugualmente un grosso progresso. Soprattutto
considerando che questo è avvenuto in uno spirito di libertà,
quando lui avrebbe potuto continuare a farsi tutti i giorni. Questo
per me è importante. Io mi pongo di
fronte all'individuo che ha cominciato a camminare con le sue gambe
già all'interno di questa nostra esperienza. E un domani, quando
sarà arrivato alla sua maturazione e sarà diventato padrone di se
stesso, potrà affrontare la realtà della droga, passarci in mezzo,
senza averne paura. Deve essere insomma un processo personale, ed io
debbo aiutarlo in questo, senza imporglielo. Fargli capire, non tanto
quello che voglio io, ma quello che vuole lui. Aiutarlo a essere se
stesso, non quello che voglio lui sia. È necessario imporre a se
stessi di essere tali; imporsi la propria volontà, perché è da
questa che provengono le barriere di ognuno non dalla volontà di un
altro. Certo in questo modo i processi sono più lunghi e difficili;
richiedono un'analisi molto più profonda che prima deve essere
introspettiva, per ciascuno di noi, e poi anche nei confronti degli
altri. Io mi auguro che
alcuni dei ragazzi che sono qui sentano poi l'esigenza, la voglia di
fermarsi per continuare a collaborare, ma senza che questo crei
nessun tipo di discriminazione o emarginazione nei confronti di chi
non si sentirà di farlo. Mi piace pensare sia all'una che all'altra
eventualità, perché anche chi esce di qui, con il bagaglio della
nostra esperienza comune, può essere in grado di portare avanti,
anche all'esterno, questo tipo di discorso, creando altre realtà
alternative.
6.Il
Comitato per i diritti civili di Massa-Carrara
Vogliono
cancellare il '68 e Basaglia
"Muccioli è
un borghese piccolo piccolo" è questo il titolo scelto dal
Comitato per i diritti civili di Massa Carrara per l'introduzione al
testo della sentenza con cui il tribunale di Rimini ha condannato -
tra il grande scalpore dei mass-media - il leader della comunità di
San Patrignano. Si tratta di un lungo documento stampato presso La
Cooperativa Tipolitografica di Carrara (per averlo, richiederlo
direttamente al Comitato, via Sforza 11, 54031 Avenza (MS). Pur dissentendo
su vari temi dall'impostazione ideologica e politica del Comitato
(per quanto riguarda, per esempio, la preferenza sempre accordata dal
Comitato al "pubblico" rispetto al "privato") noi
della redazione riteniamo che questo documento sia valido e
stimolante. Ne proponiamo qui alcuni stralci.
L'ideologia di S.
Patrignano che il tossicodipendente è una persona in grado di
intendere, ma non di volere, che è un bambino in cerca di
un'autorità a cui affidarsi (su cosa si fondino tali convinzioni,
Muccioli non lo ha mai detto: in compenso dimostra tutto il suo
disprezzo per chi si droga, in ogni occasione, anche al processo di
Rimini ha definito, molto sinteticamente e significativamente,
svelando i suoi pensieri e sentimenti più riposti, i
tossicodipendenti come "zombie") serve molto bene ad
accreditare l'idea della necessità della coercizione e della
segregazione. Il
tossicodipendente viene lasciato a disposizione delle libere
iniziative, anche le più sadiche e violente, di chiunque si
autoproclami, senza bisogno di ulteriore dimostrazione, "esperto
in droga"; a disposizione di qualsiasi "missionario"
che, in perfetta buona fede, tenderà a distruggere la "diversità"
e la "devianza" e ad affermare e imporre la propria visione
della vita, anche a costo di qualche rogo, o, visto che non sono più
di moda, di un po' di catene e di pollai.
La comunità si
propone di "liberare" dalla droga, ricostruendo e
ristrutturando dalla radice la personalità del tossicodipendente che
si asserisce essere del tutto destrutturata, proponendogli e
imponendogli un sistema completo di valori morali e ideali già
definiti e preconfezionati (il caso della tossicodipendente cacciata
da una comunità perché aveva abortito è emblematico, cosi come le
giustificazioni di Muccioli per aver incatenato una ragazza, perché
voleva avere rapporti sessuali, all'interno della comunità e durante
il suo trattamento); di qui la necessità dell'interruzione di
qualsiasi comunicazione con l'ambiente esterno e familiare che
potrebbero influenzare questa forma di radicale lavaggio del cervello
e di condizionamento a senso unico. È una ben definita visione della vita al cui fondamento sta la
condanna del piacere e l'esaltazione del sacrificio gratuito e della
sofferenza ricercata come fine. In parte ciò può essere una
schematizzazione, ma serve a indicare al di là di sfumature nei
metodi adottati, la non laicità e quindi non scientificità e non
razionalità delle forme di "recupero" delle comunità
terapeutiche autoritarie e chiuse, nonostante la sponsorizzazione
attuale di quella di Muccioli da parte dei partiti laici. Bisognerebbe,
innanzitutto, che venisse dimostrato che la personalità del
tossicodipendente è quella presupposta da questi tipi di comunità,
ma ciò è impossibile, perché certe affermazioni sono solo il
risultato di analisi incomplete, superficiali e moralistiche; è vero
piuttosto che chi vive solo e in funzione di un unico oggetto del
desiderio, rischia di avere rapporti conflittuali o non rapporti con
gli altri, ma ciò non autorizza a considerarlo una persona
destrutturata e distrutta, anche se questo discorso avrebbe bisogno
di essere approfondito in altra sede. Se le comunità,
laiche o religiose che siano, hanno avuto tanto successo presso
l'opinione pubblica benpensante anche di sinistra (ma non tra i
tossici, che, nella maggioranza non ne vogliono sentire parlare e le
giudicano l'equivalente del carcere) è perché rispondono anche al
bisogno, oggi molto forte, di fedi assolute e non problematiche, di
autorità, di obbedienza, di adesione a istituzioni che rassicurino e
insegnino la rinuncia, il sacrificio fine a se stesso, la disciplina
e l'autodisciplina più rigide (vedi ancora le chiusure e le
ossessioni di Muccioli e di tante comunità terapeutiche - che
dividono rigorosamente gli "ospiti" secondo il sesso - di
fronte a tutta la vita affettiva e sessuale non solo dei
tossicodipendenti: così la non distinzione tra droghe pesanti e
droghe leggere che non danno dipendenza, ecc.). Non si spiega
diversamente il relativo successo, anche se ottenuto con meno
clamore, e la diffusione di tante sette religiose o mistiche
(portatrici di messaggi e programmi di ordine e autoritarismo che
dall'individuo devono estendersi alla società) alla cui guida
troviamo in genere santoni o guru o mamme Ebe delle più varie
tendenze e specializzazioni ai quali tanto somiglia Muccioli, sia
pure in versione laica anche sotto il profilo imprenditoriale e
manageriale di sfruttamento di lavoro non pagato e non assicurato. Il gran parlare di
comunità terapeutiche serve a far passare un principio che è tutto
da dimostrare: che il tossicodipendente è un malato da affidare a
medici, psicologi, psichiatri, sociologi, comunità e stregoni vari. Probabilmente
questo è il momento in cui si vuole regolamentare il settore e
passare da un'epoca pionieristica e avventuriera, alla Muccioli, a
una strutturazione più rigida affidandola a figure professionalmente
definite; tra le nuove professioni in via di espansione, possiamo
ormai contare anche quella di "ricuperatore di tossicodipendenti".
È evidente il giro di interessi che ci sta dietro in termini di
occupazione, finanziamenti pubblici, di cliniche e comunità private,
di cure, di piani di prevenzione, di centri diurni, ecc... Tutto
passa al di sopra dei tossicodipendenti, destinatari inconsapevoli o
non coinvolti in questo immenso affare, che serve certamente molto
più a perpetuare la presenza dell'eroina che alla sua eliminazione.
E sempre, in ogni proposta di "recupero", la mancanza profonda di
rispetto e di riconoscimento del tossico come soggetto, come persona,
magari in difficoltà, ma sempre persona autonoma e libera; basta
un'osservazione linguistica: dei tossicodipendenti si parla solo e
sempre usando il termine "ragazzi", anche se la maggioranza di
loro sono adulti, segno che non gli si riconosce l'autonomia e la
maturità delle loro scelte anche se negative o non condivisibili.
Così come è offensivo nei loro confronti che li si consideri solo
adatti alla lombricoltura, a un artigianato marginale, al
giardinaggio, alla cartapesta, cioè ad attività in sé
rispettabilissime, ma che se diventano il segno di una determinata
categoria di persone possono significare solo l'intenzione di
perpetuarne l'esclusione e la marginalità. Se poi cure devono
essere, e spesso ce ne è anche bisogno, non per questo sono
giustificabili violenze o cure coatte. Non occorre
scomodare il '68 o Basaglia, ricordando che, allora, si diceva che la
libertà è terapeutica; bastano la Costituzione e le leggi vigenti,
perché col processo Muccioli, ma non è il solo segnale che proviene
oggi dalla società in questa direzione, si tende a ri-legittimare la
malattia come colpa di fronte alla quale è giusta e necessaria la
violenza; è la logica manicomiale e della custodia, delle
istituzioni chiuse. E' l'intero sistema
dell'assistenza sanitaria e le 180 in particolare che la
mobilitazione pro-Muccioli tendeva e tende a mettere in discussione e
colpire. Non si capisce (o meglio, lo si capisce anche troppo),
perché, una volta delegata del tutto l'assistenza di una determinata
categoria come i tossicodipendenti ai privati, non si possa, via via,
scorporare dall'assistenza pubblica anche quella di altre categorie
di malati, magari meno "difficili" e più redditizi. La lunga
battaglia democratica degli anni '70 per la riforma sanitaria e per
il superamento e la chiusura delle istituzioni totali, escludenti e
separanti, sembra finire nel suicidio idiota di una sinistra che si
fa complice dei piani di restaurazione delle forze conservatrici e
appoggia, in nome dei pregiudizi e del moralismo, forme rimaneggiate
di segregazione, accompagnate dalla libertà di violenza, di
incatenamento, di umiliazione e disprezzo più grossolano della
persona (...). Ma è dal moralismo
e dall'insieme dei pregiudizi che circondano il mondo della droga che
occorre soprattutto liberarsi. È stato ampiamente
dimostrato che quanto più si combatte l'illegalità dell'eroina,
tanto più ne crescono il prezzo e i margini di profitto e, quindi,
la diffusione; in altre parole la causa della diffusione dell'eroina
sta in gran parte proprio nella sua illegalità che, consentendo
profitti enormi, fa crescere il mercato. La soluzione, anche se qui
non è la sede per approfondire la cosa, sta solo nella
legalizzazione dell'eroina e nella sua introduzione nella farmacopea
ufficiale; molti "zombie" riprenderebbero a vivere
immediatamente una vita normale, oltre la "delinquenza", il
carcere, i rapporti con gli spacciatori, il piccolo spaccio,
l'angoscia per la "roba", le malattie da "buco" e da
taglio, ecc... Il mercato cesserebbe di espandersi; in Inghilterra
dove l'eroina è, in varie forme, liberalizzata fin dal 1924, il
numero degli eroinomani esistenti è infinitamente inferiore a quello
italiano. Soprattutto si
restituirebbe dignità personale e sociale a chi fa uso di eroina o
di altre sostanze stupefacenti, sottraendolo all'emarginazione e alla
morte civile a cui è condannato dalla ricerca della "roba". Si spezzerebbe così
anche la cultura della morte che è l'ideologia sottintesa, anche se
non dichiarata, delle comunità terapeutiche autoritarie e chiuse;
perché ciò che forse è più repellente in queste istituzioni è la
loro convinzione fatalistica e moralistica che si può uscire dalla
droga solo quando si è raggiunto il "fondo" (è un termine
loro); è la loro attesa passiva, indifferente, sicura che, comunque,
un certo numero di tossicodipendenti disperati, arrivati al "fondo",
cadrà nelle loro reti. Non importa che prima di arrivare al fondo
una percentuale spaventosa di tossici (enormemente superiore alle
statistiche ufficiali) trovi la morte; non interessa contare il
numero di quelli che scappano dalle comunità e, se possono, le
abbandonano, basta che le comunità siano sempre piene, magari di
gente che entra e se ne va senza aver concluso niente. È questa cultura
di morte (di cui anche il sadismo con cui si trattano i
tossicodipendenti e la tendenza a colpevolizzare i loro familiari
sono espressione emblematica), di rassegnazione, di impotenza e di
indifferenza, da raccoglitori di cadaveri, da statistici
dell'overdose, che va rifiutata. La disinformazione
e la demonizzazione del problema, la creazione di piccoli "eroi",
le scelte a priori a senso unico delle soluzioni, i pregiudizi e il
moralismo servono solo a perpetuare il potere dell'eroina (...)
7.
Quasi una conclusione
Paradossalmente
zombi
Dare un giudizio
non è facile, ammesso che se ne voglia dare uno. Forse solo
impressioni che ci hanno colto, in modo anche contraddittorio tra
loro, durante la nostra visita. Una visita attesa per mesi, infatti i
primi contatti sono avvenuti in gennaio, ma solo l'undici maggio
abbiamo avuto il permesso di andare a S. Patrignano. La prima
impressione, al posto di blocco (come loro stessi lo hanno chiamato),
è stata subito negativa e ci ha un po' raggelati, poi piano piano si
è mitigata con la gentilezza ed ospitalità del resto della
giornata. Anche se non è molto, abbiamo "vissuto" la
comunità per un pomeriggio, fino a notte inoltrata. Lì i ragazzi
smettono di bucarsi e questo è un fatto innegabile sul quale non
possiamo avere molto da dire. Abbiamo parlato a lungo con alcuni di
loro, abbiamo vissuto i loro momenti conviviali (la cena, uno
spettacolo in teatro), abbiamo girato per tutta la comunità. E un
po' d'invidia per questa loro vita in qualche modo diversa rischiava
di spuntare nei nostri cuori, colmi di desideri "alternativi"
spesso delusi. Ma questo ad un
primo sguardo superficiale (una vita "comunitaria", a
contatto con la natura, fra bellissime colline, ecc...). Poi tutto si
è ridimensionato, andando un po' più in profondità, ed anche
parlando con chi ci ha accompagnato e con i ragazzi stessi. Innanzitutto una
cosa che ci ha sconcertato è che è stato un dialogo fra sordi. Da
parte principalmente di Vincenzo Muccioli, che quasi da attore
mestierante si è concesso al registratore e all'obiettivo con un
distacco ed indifferenza notevoli per sciorinare una filastrocca
ormai consueta che prescindeva totalmente dalle domande, che potevano
essere nostre o di chiunque altro per ottenere lo stesso risultato. E
questa sensazione di incomprensione si è ripetuta, anche se in
misura diversa, con i ragazzi. Finché si è trattato di raccontare
non si sono stati problemi, ma ogni volta che si cercava di superare
il muro che li circonda, di approfondire certi discorsi o discuterne
altri, raramente ci si capiva, e mai a fondo. Ognuno poi può
giudicare da ciò che abbiamo riportato nelle nostre
interviste/colloquio, anche se per ovvi motivi di spazio ne compaiono
solo stralci. Inoltre ci ha
colpito la grandezza e l'efficienza della comunità dal punto di
vista "produttivo". Soprattutto è la forte tendenza
industriale e competitiva che salta agli occhi: è una vera e propria
corporazione al passo coi tempi e che non vuole certo essere da meno
sul mercato. Ultima e non meno importante impressione è lo scoprire
la "potenza" di Muccioli verso i ragazzi. È Lui con la
elle maiuscola e la più chiara aspirazione espressa dai ragazzi è
cercare di essere come lui: tanti surrogati a sua immagine e
somiglianza. E "l'alternativa"? Non l'abbiamo trovata, o
almeno non è la nostra. Paradossalmente ci
siamo sentiti "zombie" in casa laica ed a "casa nostra"
da un prete. Visitando la "tana" di Don Ulisse (conosciuto,
contattato ed intervistato nel giro di una settimana) ci è tutto
sembrato più umano. Il salto è stato enorme e la lunga
chiacchierata con Don Ulisse dice già tutto da sola. A noi non resta
che aggiungere che l'aria stessa che si respirava era diversa. E
speriamo che... Ulisse continui a non farsi incantare dalle sirene,
mentre c'è chi dispensa autografi.
Rossana Ambrogetti Carla Atlante Franco Melandri
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