Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 15 nr. 130
estate 1985


Rivista Anarchica Online

San Patrignano & dintorni
di C. Atlante / R. Ambrogetti / F. Melandri

Non è facile affrontare la "questione droga". Sulla rivista ne abbiamo parlato relativamente poco. Il fatto è che su temi come questo c'è sempre il rischio fortissimo di fare della bella teoria, di esprimere opinioni sensate che però, alla prova dei fatti, nello scontro con la drammaticità delle esperienze concrete, non possono che rivelarsi astratte, assurde, inutili. Il dossier che pubblichiamo in queste pagine - realizzato da Carla Atlante, Rosanna Ambrogetti e Franco Melandri - non ha alcuna pretesa di completezza, non intende affermare delle verità solenni né su San Patrignano (dove sono riusciti a mettere piede e ad intervistare Muccioli, dopo mesi di attesa), né tantomeno sul "fenomeno droga" in generale. Più modestamente intende proporre dei materiali per la conoscenza e la riflessione. Ecco allora, dopo quella con il leader carismatico di San Patrignano, l'intervista con alcuni "ospiti" (di sicura fede muccioliniana, cioè mucciolidipendenti); quella con l'operatrice sociale dell'USL di Rimini che vorrebbe vederci più chiaro e comunque diffida di certi sistemi; il colloquio con il prete (in non buoni rapporti con la gerarchia, pare) che anima una comunità (ma lui la definisce "un gruppo politico") nettamente diversa da San Patrignano. Noi della redazione abbiamo aggiunto alcuni stralci da un documento lucidamente critico con Muccioli, i suoi sistemi e i suoi valori, redatto dal Comitato per i diritti civili di Massa e Carrara. Ed infine alcune considerazioni conclusive dei tre curatori del dossier. Nessuna pretesa di "dare la linea" sulla questione delle tossicodipendenze, dicevamo. Ma nemmeno la rinuncia a riaffermare la validità e l'efficiacia - sul piano etico come su quello "terapeutico" - della libertà individuale, quale elemento fondante di qualsiasi associazione, comunità e società. Comprese quelle di/per tossicodipendenti.


1. Quasi una premessa

Recupero non riciclo

Droga! Basta la parola, come recitava un vecchio slogan pubblicitario, perché ai benpensanti e non, corra un brivido lungo la schiena e la fantasia vada a paradisi infernali lastricati di siringhe. Ma il problema, si sa, è molto più vasto e tocca aspetti culturali, individuali e sociali.
Il "fenomeno droga" (comprendendo con tale termine tanto le droghe pesanti, che danno assuefazione fisica - come l'eroina, l'anfetamina, la morfina, l'alcool, ecc. - che quelle leggere che possono, al massimo, dare un'assuefazione psicologica - marijuana, hashish, mescalina, ecc...) si pone alla confluenza di molteplici fattori. I motivi che portano un individuo a far uso di stupefacenti sono tanti quanti gli individui stessi, ma le cause più comuni risultano essere l'incapacità individuale di adattarsi e/o reagire ad una determinata situazione personale, familiare, sociale; il desiderio di evasione dal tran tran quotidiano; il tentativo di una ricerca interiore. A tutto ciò va aggiunto, soprattutto negli ultimi tempi, una mentalità "consumistica" per cui la droga viene identificata come il rimedio per insoddisfazioni, noia, frustrazioni, dell'origine più varia, quando non addirittura come "passatempo".
Non va poi dimenticato che ogni cultura prevede, di fatto, l'uso "socializzato" di una determinata sostanza, al fine di dare risposte ai problemi individuali di cui si diceva. In questo senso si può notare come nelle culture "selvagge" l'assunzione di droghe è un fatto praticamente generalizzato ed avviene all'interno di momenti comunitari particolari. Così come momenti comunitari erano le osterie di un tempo, in cui tantissimi si recavano dopo il lavoro a bere vino od alcoolici, droghe pesanti accettate dalla nostra cultura e dalle istituzioni. Da ultimo non va dimenticato il richiamo che "il gusto del proibito" esercita e che si salda con tutti i fattori sin qui accennati, potenziando la richiesta del qualcosa di "diverso" e "nuovo".
Tutti questi fattori solo raramente hanno trovato un catalizzatore finché, con la società industriale, non è avvenuta la massificazione che, da un lato, ha distrutto ritmi e prospettive individualmente controllabili e gestibili, mentre, dall'altro, ha posto il singolo in una situazione di solitudine (ad es.: con la famiglia nucleare) a cui non sempre è facile reagire. In questo ambito sono apparsi i primi fenomeni di "droga di massa" di cui l'epoca del proibizionismo americano è quella nota e dimostrativa.
Nella nostra epoca consumistica, le risposte istituzionalizzate ai bisogni delle persone, paiono essere, pur nella loro apparente diversità (dal mito della carriera al "rifugio individuale" costituito dalla famiglia; dalla falsa socialità della partita, della discoteca e dei concerti di massa, all'apparente apertura sul mondo offerta dalla televisione) incapaci di rispondere alle esigenze individuali, e soprattutto alle esigenze di quella parte di popolazione (in particolar modo ai giovani più sensibili e più psichicamente fragili) su cui la droga, coniugando in sé il "gusto del proibito" e la promessa del paradiso, esercita un'indubbia attrazione. Favorita anche dalla struttura distributiva mafiosa, per cui essa risulta di assai facile reperibilità. Si aggiunge così al fin tropo noto circolo vizioso per cui il tossicodipendente cade sempre più nella ragnatela della delinquenza e dell'emarginazione, spinto dal bisogno fisico di quegli stupefacenti, che lo stesso tossicodipendente scopre sempre più come non rispondenti al suo desiderio di evasione ed autoaffermazione.
Emerso così, nella sua natura di fenomeno sociale, le risposte politiche che le strutture istituzionali danno a questo, si rivelano estremamente fuorvianti. Esse si limitano, infatti, a misurarsi in una gara di prestigio cercando di emergere l'una in contrapposizione con l'altra, nell'unico e subdolo intento di accaparrarsi il "problema droga". Questo atteggiamento non si è rivelato in ogni caso di alcuna efficacia, tenuto conto che il messaggio che ne emerge è essenzialmente quello di incanalare tale problema in un discorso di integrazione sociale a tutti i livelli, sostituendo ai "valori scabrosi" (che girano intorno alla "cultura del buco") quelli tradizionali di famiglia, lavoro, morale, ecc., spesso non meno alienanti e comunque non automaticamente "alternativi", e che non rispondono certo ai problemi di fondo.
Ed è proprio sul come e perché del recupero del tossicodipendente che si notano meglio i frutti di una cultura di tipo autoritario. Molte comunità che si occupano di tale problema, tentano, spesso, quale più e quale meno, di dare al tossicodipendente una serie di valori, che ne facilitino il reinserimento e l'accettazione della società così com'è. Solo in questo senso si cerca di attivare la volontà dell'ex tossico, spingendolo, nel contempo, ad una sorta di rimozione dell'esperienza del buco, vista esclusivamente nella sua dimensione negativa di annullamento individuale.
A nostro avviso, invece, scopo del recupero deve essere quello di favorire (ed in questo senso aiutare) la ricerca soggettiva di valori confacenti al proprio essere.
Un'elaborazione che non demonizzi l'esperienza del buco, ma la superi e la consideri come un passaggio, purtroppo sperimentato, e che può servire per una riappropriazione della propria forza di volontà e di autodeterminazione. In tale modo il recupero non deve essere una contro-alienazione, ma un'affermazione dell'individuo nella sua piena umanità, poiché non è sostituendo i "valori illeciti" con i "valori leciti" che ciò può avvenire. Ma sta all'ex-tossico ricercare la piena e cosciente libertà di scelta che può avvenire solo tramite valori scoperti ed affermati principalmente dalla propria spontanea necessità, elaborazione e crescita.


2. Intervista a Vincenzo Muccioli

Vogliamoci bene

Quali motivazioni l'hanno spinta ad intraprendere questa iniziativa?

Una necessità di rispettarmi come uomo sociale, socializzato, che vede nella società di cui fa parte una situazione di difficoltà; che vede della gente che muore, che ha bisogno di essere aiutata, capita, soccorsa; gente che non ha bisogno di giudizi, di condanne, di incomprensione. Non trovo giusto che questa gente sia giudicata, messa ai margini; intanto che si studiano le varie soluzioni questa gente muore ancora. Così ho deciso di dare una mano così come potevo a queste persone, quando queste persone me lo chiedevano. Credo che l'uomo abbia prima che dei diritti dei doveri ed io penso che la vita sia una cosa da difendere. Non credo che l'uomo da solo riesca a farlo, come uomo è profondamente limitato; ha bisogno di un supporto nei momenti di difficoltà che un altro uomo può avere, non perché gli sia maestro di vita, ma perché non è afflitto dalle stesse limitazioni che lo bloccano. Così per me è come si articola la società nei rapporti interpersonali fra gli uomini che la compongono. Di conseguenza son partito.

Questo tipo di struttura è nata come sperimentazione o si è basata su esperienze terapeutiche già da Lei acquisite in precedenza?

È nata in modo totalmente spontaneo. Da un tossicodipendente a tre a cinque, a dieci, a venti; ed oggi a seicento.

Sino a che punto la comunità di S. Patrignano è Muccioli?

È Muccioli fino alla sua formazione, alla sua strutturazione in questa regola di base che praticamente è una: il rispetto della vita, il rispetto dell'uomo. Per quanto riguarda la gestione, la conduzione, S. Patrignano è S. Patrignano fatta di tutti quelli che la compongono. Una struttura del genere può andare avanti, anche senza di me, con quelli che hanno scoperto degli ideali, dopo essersi realizzati come uomini, ideali che li portano a lottare per il miglioramento delle condizioni dell'uomo.

Pensa che i suoi valori etici, morali, religiosi, finalizzati al recupero, siano condivisi dai ragazzi o accettati supinamente?

Io faccio perno sui valori sociali, i valori religiosi li scopriranno poi; se poi collimano bene. Valori cristiani e valori marxisti per me collimano quando difendono la vita dell'uomo, i diritti e la parità fra gli uomini, il non sfruttamento sul lavoro, ecc... Io non parlo mai qui di politica o religione, devo formare l'uomo, non il politico o il religioso; poi l'uomo scoprirà, una volta scoperto se stesso, qual è la linea politica o religiosa, ecc. che vuole seguire. Io sin dove posso li aiuto, anche nel reinserimento, perché non si può parlare di soluzione del problema se non cerchiamo con la prevenzione di chiudere questo ciclo. L'ex-tossicodipendente non deve essere visto come ex e portare quel marchio: è pur sempre un individuo inserito nella società, non può essere disconosciuto.

La comunità è essenzialmente a scopo terapeutico o vuole anche essere un modello, un embrione per una società diversa, con una sua progettualità alternativa?

Non possiamo pensare di reinserire nel sociale un ragazzo se non lo forniamo alla società di cui anche S. Patrignano fa parte. Non siamo una setta avulsa dalla società, ma persone che lottano per il miglioramento della società stessa di cui fanno parte: difendiamo la vita dell'uomo, sopportiamoci, aiutiamoci, vogliamoci bene, rispettiamoci. Io cerco di vivere in una certa maniera per dare a questi ragazzi una cultura di una possibilità di vita non basata sul potere, sull'arrampicata sociale, calpestando tutto e tutti. Agiamo nel rispetto dell'uomo, perché il danno che diamo all'uomo lo diamo alla società e prima o poi si ripercuote su di noi. Tutto questo riferito non solo a S. Patrignano, ma anche al sociale di cui facciamo parte.

Che funzione ha la disciplina nella comunità, disciplina che dall'esterno appare molto anacronistica, moralista ed autoritaria? Ad esempio censura della posta, limitazioni nei contatti verso l'esterno, restrizioni sessuali.

I rapporti con l'esterno esistono continuamente: non ci sono cancelli o reticolati. I ragazzi girano, ogni lavoro è difeso e gestito dai ragazzi che lo animano. La disciplina è quella che ogni uomo deve avere, soprattutto con se stesso nel rispetto dei propri doveri di uomo, nel contesto sociale di cui fa parte. Per quanto riguarda i rapporti sessuali, non ho fatto questa comunità per trasformarla in una casa di piacere. I rapporti sessuali per me vanno benissimo, però concepiti con responsabilità, con rispetto all'altra persona. In piazza questi ragazzi vivono il sesso in un certo modo ed hanno frustrazioni pazzesche proprio per l'uso che fanno di se stessi. Quindi rivalutarli nella loro dignità significa anche rivalutarli in questo senso, perché un uomo non può mettere ordine nella sua vita a compartimenti stagni, deve farlo nel suo insieme. Se lascia una casella chiusa quella contagia le altre. Non è autoritarismo. Il rispetto non è alla mia persona, il rispetto è all'uomo. Vedono in me una persona che rende concreti dei concetti che sono accessibili ed ogni uomo li ammette. Che non bisogna rubare, che non bisogna sfruttarsi, che bisogna usare la razionalità, tutti lo sappiamo. Il difficile è rapportare questi concetti al vivere pratico di ogni giorno. Ecco, vedranno in me un uomo che cerca, pur nella sua imperfezione, di vivere anche nella pratica quei concetti che teoricamente tutti abbiamo. Vedere uno agire coerentemente determina il rispetto da parte degli altri.

Viene mai messo in discussione?

Certo, parlo coi ragazzi, cerco di chiarire delle situazioni che si determinano. Loro dicono il loro punto di vista che non sempre collima con il mio e mettendo le nostre idee assieme cerchiamo la strada migliore da seguire.

Cosa significa per lei essere al centro dell'attenzione?

È una cosa scomoda, ma anche utile. Portare un'esperienza che dimostra che dalla tossicodipendenza si può uscire è un messaggio di speranza supportato dalla pratica, dalla realtà. Anche interviste, televisione, ecc. servono a questo: dare una speranza a chi è emarginato e crede di non poterne uscire. Ci possono essere tante risposte, non necessariamente questa. Io non sono per la coercizione, non costringo i tossicodipendenti a venire, non li vado a cercare, ma a chi chiede aiuto devo darlo. Io gli illustro cosa li aspetta qui, se gli sta bene si fermano.


3.La parola agli "ospiti" di San Patrignano

E noi bene ci vogliamo

Perché siete venuti a S. Patrignano? È la vostra prima esperienza in comunità terapeutica?

Stefano - Io ero già stato circa cinque anni fa da Padre Eligio, per sette-otto mesi; poi mi è scaduta l'aspettativa del lavoro e sono dovuto tornare fuori a lavorare, ma non ero pronto. Nel giro di tre o quattro mesi ho ripreso a farmi. Già da tempo cercavo di smettere, viaggiavo, ma al ritorno in Italia ricadevo, tornavano fuori i problemi.

Giorgio - Questa è la mia prima esperienza, sono qua principalmente perché il tribunale di Ferrara mi ha domiciliato qui ed un po' perché già avevo maturato la decisione di smettere, di cambiare vita. Ma se non ci fosse stato chi inizialmente ha deciso per me, dandomi una vita da seguire, qui non ci sarei mai arrivato.

Raffaella - Per me è stata una scelta ben precisa dopo anni di vari tentativi falliti, ospedali, ecc... Sono venuta qui per consigli e voci che avevo sentito.

Consuelo - Io sono venuta qui perché non ne potevo più: mi ha portato mio padre dopo avermi tenuta in casa per una settimana. Non ero molto convinta di venire in comunità, ma volevo smettere dopo tanti tentativi falliti in ospedale, da sola, con la psicoterapia. Poi mi sono determinata, ho detto basta. E adesso sono qui da quattro anni.

Al di là della terapia, come vivete la vostra situazione? C'è una revisione critica del vostro modo di essere? C'è l'accettazione di un diverso universo di idee o niente di tutto questo?

Consuelo - Questo è basilare. All'inizio c'è stata una revisione della mia vita, un tentativo di rafforzarmi in quelle cose che altri mi dicevano ed in cui non credevo, valori come la famiglia, la responsabilità, ecc... Adesso le vivo, le ho raggiunte, vado avanti credendo in queste cose che per una persona normale credo siano la base della vita.

Raffaella - Sono d'accordo, però non parlerei di terapia. Qui c'è un rapportarsi con le persone secondo le rispettive personalità. I valori di cui parla Consuelo sono cose che ti entrano dentro, che vivi ogni giorno sempre di più: un modo di vita che senti tuo.

Perché tanti di voi, di fatto, non riescono a staccarsi dalla comunità?

Stefano - Secondo me non è vero: tanti sono usciti, tanti aspettano di uscire. La permanenza varia a seconda delle persone: per uscire dalla tossicodipendenza uno deve analizzarsi, confrontarsi giorno per giorno e questo costa tempo e fatica. Ma non esiste la dipendenza dalla comunità, quando ti senti sicuro segui la tua strada.

Raffaella - C'è poi chi sceglie di restare qui, ma è una scelta ben precisa per aiutare gli altri e non un isolarsi dall'esterno.

Consuelo - Certamente quando uno esce rimane legato alla comunità per affetto; qui ci hanno dato qualcosa e l'affetto, l'amicizia, rimangono.

Sino a che punto S. Patrignano è Muccioli?

Consuelo - Chiaramente dietro S. Patrignano c'è Vincenzo, non ce ne sono tanti come lui. Lui ci ha dato molto, è una persona molto saggia di cui ci fidiamo. A me ha sempre saputo dare delle risposte che ho verificato come valide. Ciò che ti dice lo verifichi in quello che vive lui e che viviamo noi tutti i giorni, questo gli da credibilità.

Stefano - È una persona che ha annullato completamente la sua vita per darla a noi.

Come vivete la disciplina, che, almeno dall'esterno, appare molto rigida con regole "medioevali" anche riguardo al sesso, ai rapporti con l'esterno, ecc. ?

Stefano - Visto le persone che sono qua le misure sono giuste. Se ti arriva posta per esempio potrebbero esserci dentro soldi o roba. Siamo 500 e c'è bisogno di un controllo.

Consuelo - Sono state delle esigenze che hanno fatto nascere queste regole. All'inizio non era così. Relativamente ai rapporti sessuali, quando uno arriva ha storie di piazza e di sesso fino alla saturazione; arrivi non hai più roba, se ti butti sul sesso, in storie senza importanza, questo ti può di nuovo provocare delusioni, avvilimenti. Col tempo uno matura, si realizza come persona e nessuno gli impedisce la storia. Ad esempio io mi sono sposata qua ma quando all'inizio mi sedevo in braccio a qualcuno, gli toccavo i capelli, Vincenzo mi diceva. "No, tu non fai così, prima ti realizzi come donna, nel lavoro, con una tua personalità, poi puoi farti la tua storia".

Raffaella - Io ci tengo a precisare che quando uno entra tutte queste cose gli vengono dette.

Giorgio - Se non ci fossero regole ci sarebbero molti casini, siamo 500 e non eravamo certo angioletti. Inoltre ogni forma di società, anche la più primitiva, deve sottostare a certe regole per garantire la socializzazione. San Patrignano rispecchia soltanto un prototipo di una società normale basata su valori che fuori puoi perdere di vista, qui no.

Ma parlate di valori che già avevate o sono "scoperte" fatte qui ?

Stefano - Li potevi anche conoscere, ma li ignoravi perché ti faceva comodo.

Giorgio - Quando uno comincia a bucare a dodici anni non ha modo di conoscere valori come l'onestà, la lealtà, apprezzare i rapporti interpersonali. Per la maggioranza di noi penso siano valori maturati qui.

Consuelo - Prima non ci si credeva più. Io sono arrivata al buco anche, non solo, perché non credevo più a determinate cose tipo la gente, la famiglia, la politica: eravamo pieni di tante intenzioni che si sono rivelate solo parole, di conseguenza è venuta meno la forza di tirare avanti. Ecco, qui alcune cose le ho ritrovate, altre sono nuove.

Possibile che per uscire dal tunnel della droga 500 persone, in modo così compatto, abbiano bisogno di abbracciare questi valori? Valori in passato anche contestati?

Consuelo - Sono valori reali e non sono tanti! Crediamo in queste cose perché sono reali.

Stefano - Questo è un modo di uscirne, non l'unico. Vincenzo ci pone davanti a problematiche di vita da superare e ti da l'opportunità di capirle.

Consuelo - Non è che Vincenzo ti da un decalogo. È che nella vita di tutti i giorni scopri per esigenza l'onestà, ecc... In passato ci era comodo andare contro la famiglia, ma ciò che la famiglia fa è sempre in buona fede, anche se c'è chi sbaglia. Ma la famiglia come fondamento della società esiste. Noi contestavamo la "nostra" famiglia, ma l'essenza è giusta, come unione, come nucleo della società. Vincenzo ha riportato qui ciò che fa in famiglia con sua moglie ed i suoi figli: la coerenza e la responsabilità di un uomo.

Raffaella - Certamente poi tutti questi valori ognuno li assimila a modo suo.

Sappiamo che siete contrari alla liberalizzazione della droga. Perché? La droga non deve essere libera perché qualcuno ne impedisce l'uso oppure è necessaria una crescita di coscienza e poi il problema non si pone più?

Consuelo - Sono contraria alla liberalizzazione, perché sarebbe come dire andiamo avanti a farci: non togli il furto perché la roba non basta mai; non togli la mortalità perché di droga si muore sempre; non togli spacciatori e contrabbando. È come dire legalizziamo i morti.

Stefano - A livello politico creeresti una massa di persone, una generazione che vegeta, è contenta, non protesta, non chiede niente.

Giorgio - Sì, è importante la coerenza e qui ormai siamo sensibilizzati, ma fuori non vediamo risultati.

Stefano - Non ci sono leggi adeguate. È una guerra fredda e allora bisogna rimboccarsi le maniche: prendiamo le cose buone e andiamo avanti con quelle. Legalizzare la roba è assurdo perché ti toglie la voglia di vivere.

Consuelo - Sarebbe lo stato di spaccio...

Stefano - Diventeremmo poi un mercato per l'estero... (n.d.r.: il discorso non è recepito nei nostri ripetuti tentativi di portarlo su un piano metodologico e sociale, così come non si è riusciti ad approfondire i motivi che li hanno portati al buco. Anche in questo caso le nostre domande non sono state raccolte sino in fondo)...

Passando ad altro, nel campo del lavoro ognuno può seguire i suoi interessi ed inclinazioni personali oppure deve seguire quanto viene deciso da altri?

Consuelo - Ognuno sceglie ciò che gli piace. A me piace cucire ed ora sono inserita nella pellicceria. Noi lavoriamo per soddisfazione personale, non per lo stipendio.

Raffaella - Nessuno viene indirizzato; all'inizio il ragazzo viene seguito da un altro ragazzo, per cui inizialmente segue ciò che fa l'altro. Poi col tempo può scegliere di cambiare e fare ciò che più gli piace. I lavori si sono creati mano a mano dalle nostre esigenze.

Giorgio - Qui ci specializziamo in vari settori e cerchiamo di essere competitivi in ogni campo.

Avete detto che non si può parlare di terapia, quindi in definitiva in che modo "guarite"?

Raffaella - Il rapporto con gli altri, sentire il loro appoggio, vedere gli altri agire e muoversi in un certo modo ti dà la carica giorno per giorno. È l'ambiente che ti aiuta, l'esempio di altri ex-tossici che trovi guariti. Sono persone che hanno vissuto la tua stessa esperienza.

Stefano - Sì, inconsciamente vedere gli altri ti aiuta. All'inizio ti lasci trasportare, poi cominci a svegliarti, a prenderti impegni, con qualcuno che ti dà sempre una mano. All'inizio puoi sentirti isolato: poi col lavoro, con le amicizie, cominci a tirare avanti. A questo punto non è che diventi perfetto, però nel confronto con gli altri riesci a sentirti forte, a gestirti meglio.

Come vedete il vostro futuro?

Consuelo - Rosa! Uscirò, vorrei realizzarmi con il lavoro, con il mio uomo, con i miei figli ed essere felice. Scherzo, ma in sostanza è ciò che voglio e la mia più grande paura è non avere amici fuori.

Raffaella - Io ho buone prospettive di lavoro. Per quando uscirò, mi aspetto certamente delle difficoltà, ma conto sulle mie forze per poterle affrontare.


4.Floriana Raggi, operatrice sociale a Rimini

Detto fra noi non mi convince

Cosa ci puoi dire della comunità di S. Patrignano, tu che operi nella zona?

L'unica volta che ho avuto un contatto diretto con S. Patrignano è stato nel 1980 per un paziente seguito al centro di igiene mentale. Lui stava presso la comunità e ci telefonò disperato chiedendo di parlare con noi perché voleva uscire da S. Patrignano, dove stava male. Quando un collega ed io ci siamo recati sul posto, per parlargli, ci è stato permesso di farlo solo alla presenza di alcuni operatori di fiducia di Muccioli. Ho vissuto male questa situazione, come una violenza che non riscontravo più da tempo neanche in quelle strutture ritenute istituzioni totali come i manicomi. Non mi hanno quindi stupito le denunce nei confronti della comunità, perché di fatto è un ambiente con un forte controllo verso l'esterno.

Muccioli che figura è all'interno della comunità?

Indubbiamente Muccioli è una persona che ha una grossa carica umana, una grossa carica affettiva, un grosso potere, se vogliamo usare questa parola. Ha senz'altro delle capacità intuitive non comuni, ed è vero, come alcuni hanno detto, che terapeuti si nasce. Indubbiamente il suo potere carismatico ha molta importanza rispetto al recupero dei tossicodipendenti. Comunque sicuramente lui non ha le qualifiche professionali che si richiedono normalmente per lavorare in questi settori; non ha lauree, non ha specializzazioni, cosa che indubbiamente dà fastidio agli "addetti ai lavori".

Muccioli è un autodidatta, si è costruito una sua terapia dalla pratica stessa nella comunità. Cosa ne pensi?

Chiunque lavori con i tossicodipendenti o i folli apprende, dalle persone stesse, e si arricchisce attraverso queste ed i loro problemi. Se vogliamo ricollegarci ai fatti che l'hanno portato in tribunale, è innegabile che ci siano state delle denunce e quindi delle persone che hanno ritenuto di dover intervenire nei suoi confronti in termini di legge. Probabilmente Muccioli non ha saputo porre dei limiti al suo potere, ne ha abusato in termini di violenza, e questo, come operatrice, come persona che ha creduto in una certa pratica psichiatrica contro la violenza delle istituzioni totali, per la chiusura dei manicomi, a favore di un rapporto di rispetto della soggettività della persona che sta male (anche se in quel momento non ragiona, anche se è in crisi), non posso accettare che da parte di qualcuno che si ritiene in grado di recuperare queste persone, si abusi poi di questo potere sapendo o facendo quello che è bene per l'altro. Quindi questo rinchiudere la gente, l'uso delle catene, il diritto di violare la libertà altrui, mi sembrano un eccesso da condannare e da combattere. Perché sono le stesse violenze contro cui abbiamo lottato nel periodo della chiusura dei manicomi ed ancora lottiamo laddove si abusa di un certo potere da parte dei medici. E soprattutto laddove non c'è un controllo pubblico.
Parallelamente a questo mi sembra che da Muccioli traspaia una mentalità tradizionale, molto conservatrice. Da una parte sembra che lui combatta la mentalità dominante, rappresentata dalle istituzioni dello stato (non accettando di avere contatti con la struttura pubblica dell'U.S.L.), dall'altra però ripropone i valori della famiglia "sana". Valori che sono l'opposto di quelli che il tossico cercava nel buco; perché la cultura che girava attorno al buco era, fino a qualche anno fa, una cultura tutto sommato alternativa.
In realtà Muccioli ripropone un'istituzione totale, sulla quale secondo lui ci deve essere il controllo della collettività. I cittadini hanno il diritto di entrare in una struttura che non è chiara, che non è trasparente, e da cui partono le denunce. Infatti chi ha subito la repressione dei manicomi, o negli istituti per handicappati, nel momento in cui queste strutture sono state distrutte, grazie al controllo pubblico, è riuscito a reinserirsi e a costruirsi una sua soggettività. Tutto questo grazie al movimento che allora si sviluppò e di cui bisogna mantenere viva la memoria storica.
Come operatori non possiamo permettere che passi questa logica, non possiamo legittimare la violenza come metodo. Tra l'altro è stato dimostrato da altre comunità che non si deve necessariamente arrivare a questi metodi violenti e repressivi; e laddove questi si usano, significa che c'è da parte dell'operatore, del terapeuta, un'impotenza a gestire la situazione. Le comunità che operano in questo campo si orientano metodologicamente verso un contratto terapeutico di solito molto severo (il tossicodipendente al suo ingresso, acconsente ad una serie di regole rigide e a un tempo strutturate altrettanto rigidamente), contratto che però non ha nulla a che vedere con la contenzione - gli stanzini bui o le catene - ma semmai con il contenimento. Due termini, questi ultimi, carichi di storia e che occorre distinguere, non solo dal punto di vista semantico. Se dietro la parola "contenzione" ci sono gli orrori dell'Ospedale Psichiatrico, il "contenimento" è un termine che fa pensare a strategie di intervento tese a ricomporre le realtà interne delle persone, perché queste, aumentando la consapevolezza di sé, assumano maggiore contrattualità sia verso l'esterno che verso se stesse.

Ma i risultati pratici in realtà quali sono?

Riguardo al numero di persone che sono uscite dalla comunità non ci sono dati certi, anche perché molti continuano a viverci o a rimanere collegati. Disintossicati, ma non autonomi, con un percorso proprio, e non a caso ci sono state accuse di dipendenza dalla comunità. Credo che ciò sia inevitabile, così come esiste la dipendenza dal terapeuta, del figlio dal genitore o dell'innamorato dall'innamorata. La dipendenza è una condizione in cui tutti, credo, siamo immersi. Bisognerà vedere cosa succederà quando verrà a mancare la figura di Muccioli sempre più carismatica, perché a quanto ne so, mi risulta che sia lui stesso in prima persona che gestisce le crisi. Ma la valutazione di questa esperienza è difficile poterla fare ora, in quanto è in corso da troppo poco tempo.


5. Don Ulisse Frascari, animatore della comunità il "Villaggio del fanciullo" a Ravenna

Ma da curare è la società

Come è nata la sua esperienza, nel campo della tossicodipendenza, e quali sono state le evoluzioni e le esperienze del Villaggio del fanciullo?

Il Villaggio del fanciullo sorse, nel 1960, come sperimentazione per dare una risposta al problema dell'emarginazione. Dapprima si rivolse all'infanzia occupandosi anche del diffuso stato di analfabetismo. In seguito l'attenzione si spostò sul problema delle scuole speciali, ed anche il livello di età si alzò; lavorammo molto con gli handicappati ed i ragazzi disadattati che erano costretti a vivere in manicomio. Infatti, per molto tempo ed ancora oggi, il Villaggio del fanciullo è conosciuto in gran parte d'Italia per questa sua attività. Attorno agli anni '70, circa, col sorgere del problema droga, avemmo un primo caso di un tossicodipendente, ma fu un'esperienza isolata. Qualche tempo dopo, col dilatarsi del fenomeno, e su invito di altri operatori, l'esigenza di occuparsi delle tossicodipendenze si fece molto forte; da allora ce ne occupiamo e siamo nel pieno di questa attività.
Il problema della droga fa molta paura e non ha avuto fino ad ora delle prospettive di soluzione, precise e chiare. Non ci sono o non ci vogliono essere (soprattutto a livello politico) perché si vuole incapsulare questo fenomeno in una realtà patologica, il che non è assolutamente vero. Che sia una malattia, posso essere d'accordo, però non è una malattia dell'individuo ma della società; la tossicodipendenza, quindi, non è altro che una logica conseguenza dell'anormale realtà sociale. Vanno usate non delle metodologie terapeutiche, come purtroppo oggi succede, ma una metodologia politica. Ed è in questa ottica che dobbiamo agire.
La nostra non è una comunità terapeutica, anche se da altri è considerata tale, ma un gruppo politico. Ritengo sia assurdo parlare di comunità terapeutica, soprattutto considerando quella che è la struttura di tali comunità: una forma chiusa, dove uno è obbligato a degli schemi ben precisi e dove avviene un indottrinamento che è impressionante. Dove cioè, praticamente un individuo viene preso, messo in uno stampino e battuto lì dentro finché non si identifica con esso. Quando lo stampino è pronto lo tirano fuori, se resta con la forma desiderata, va tutto bene se, al contrario, non si è uniformato il processo di identificazione viene ripreso. Questo è inconcepibile. L'individuo deve poter restare tale, deve avere la capacità di esprimere la sua individualità. Io posso tentare di aiutarlo a correggere la sua anomalia, se questa esiste, perché a volte riteniamo che una fenomenologia anomala sia nell'altro, mentre invece è in noi. È questo confronto che purtroppo viene a meno, quindi noi ci muoviamo come gruppo all'interno del quale si convive, dove si cerca di presentare delle alternative attraverso uno studio di quella che è la realtà sociale con ricerche e sperimentazioni che credo meritino di essere considerate, come ad esempio il discorso dell'autogestione.
Il gruppo che produce gestisce così la sua realtà auto-produttiva, in maniera totale. Credo che queste sia molto importante. Ho visto che con l'investimento globale delle problematiche che esistono nella realtà sociale, l'individuo ritrova se stesso. Trova il desiderio ed il bisogno di potersi esprimere, di poter evidenziare la sua realtà e quindi diventa un recupero, non tanto alla società, ma a se stesso. C'è un'inversione di marcia, dunque, molto importante. Non si tratta di portare l'individuo ad una integrazione nella struttura sociale (considerato che questa è assurda in quanto esprime soltanto violenza, valori umani che non hanno senso e porta avanti un discorso di comunismo parossistico) ma è all'identificazione con se stesso che, confrontata con l'identità degli altri, pone le basi di un progresso civile valido.
La nostra struttura è impostata in questo senso; quindi non è comunità ma è convivenza; è esperienza di realtà sociale alternativa, di realtà sovversiva.
Non dobbiamo aver paura dell'eversione. Oggi il potere identifica il discorso eversivo con quello dinamitardo che è solo una sua espressione violenta. Eversione vuole invece dire trasformazione sociale e, per tale ragione, un'eversione pacifica dobbiamo cercarla tutti, perché questa deriva da un confronto pacifico, accettato reciprocamente da individui che vivono assieme. Io vivo in una realtà per me inadeguata, che non riesco a sopportare perché mi sta soffocando, e non devo avere paura di dire che voglio cambiarla e crearne un'altra che possa essere più vivibile. Quindi il nostro scopo è quello di realizzare una realtà comunitaria per arrivare al superamento delle comunità.
Anche per quanto riguarda la legge, non mi trovo d'accordo con una società che dice che l'uomo è fatto per la legge e deve osservarla. Sono convinto del contrario. È la legge che deve osservare l'uomo. Egli deve, tutt'al più, dare gli strumenti al governante, che deve avere una funzione di sola organizzazione e non di potere; strumenti per poter fare delle regole, che possono servire ad armonizzare i rapporti tra gli individui. E quando queste regole perdono tale funzione, diventano di disturbo per i rapporti dell'uomo, devono essere superate e messe da parte. Si tratta quindi di un principio di vita e non di morte. Purtroppo, spesso, la legge è strumento di morte e non di vita, individuale o sociale. Far passare un discorso di questo genere non è facile, perché il potere teme la sua validità. Quello che è triste, è che anche la gente non lo accetta, non ha la maturità sufficiente, perché ha paura.
Purtroppo, oggi, c'è in tutti una grande insicurezza e si è portati ad attribuire le proprie certezze agli altri. Il lavoratore affida la sua al padrone, senza rendersi conto che questa gli dà sicurezza di uno stipendio, finché ne ha un guadagno, e quindi una sicurezza aleatoria. Noi dobbiamo invertire questa logica e dire: "sono io la mia sicurezza", ed ognuno può crearsi la propria, soprattutto unendosi agli altri e collaborando con essi.

Perché il fenomeno droga è un problema politico? Qual è la sua radice, da quale bisogno è giustificato?

Il problema della droga, per me, è legato principalmente alla non-soluzione dei problemi giovanili. Molti dei ragazzi con cui ho a che fare presentano una problematica di questo genere. Hanno una grossa insicurezza ed un'incapacità di affrontare (per vari motivi, come i dissesti familiari e l'eccessivo protezionismo dei genitori) il proprio futuro, perché non hanno speranze di riuscire ad affrontare la propria esistenza e la realtà. Una fenomenologia, questa, che non viene certo affrontata dall'ente pubblico e dallo stato, nel modo più assoluto. Il discorso può essere applicato in modo diverso riferendoci, per esempio, al lavoro artigianale. Nelle botteghe, il ragazzo aveva la possibilità di ricercare e scoprire la propria creatività. Questo è un aspetto che, attualmente, è completamente scomparso. Oggi questa società ti vuol dare tutto; questa mentalità assistenzialistica continua ha annullato nell'individuo le sue qualità essenziali, come quelle della creatività. Questi sono tutti fattori che possono portare ad una situazione di tossicodipendenza e che noi dobbiamo rianalizzare con un senso di equilibrio diverso.

Rispetto agli enti istituzionali la vostra collettività che rapporti ha, viste le basi su cui si fonda?

Noi non ci proponiamo come realtà privata contraria all'ente pubblico, ma come collettivo che vuole collaborare con esso. Alcuni risultati li abbiamo già ottenuti, per esempio, per quanto riguarda l'assistenza medica. Io sono pedagogista, ed ho qualche conoscenza di psicologia, ma non sono un medico e quindi ho bisogno del supporto di questo, anche istantaneo, nei casi che presentano problemi, di carattere patologico, molto gravi. In questo senso ho una collaborazione molto stretta con gli ospedali ed il CTST (Comitato Territoriale per la Salute dei Tossicodipendenti), che ha dato risultati molto positivi.
Avevamo anche cominciato a mantenere dei rapporti con le famiglie; oggi li abbiamo eliminati totalmente. In questo caso, l'ente pubblico è diventato un valido strumento interlocutorio con esse, perché alcune volte le famiglie non sono disposte ad accettare la linea, o le sperimentazioni, che fa il collettivo, per cui possono sorgere dei contrasti. Dovendo invece riferirci solo all'ente pubblico, riusciamo ad evitare questo problema, ottenendo così la possibilità di realizzare le sperimentazioni desiderate. Non si tratta quindi di demonizzare, in assoluto, la collaborazione con l'ente pubblico nel campo particolare della tossicodipendenza. Cerchiamo piuttosto di creare un discorso armonico, per attuare una collaborazione più produttiva ed efficace tra collettivo e pubblico.

Il tossicodipendente che arriva da voi, come viene inserito in questa convivenza? Per esempio a San Patrignano, c'è una sorta di decalogo che condiziona, da subito, la decisione di stare in comunità. Qui cosa succede?

Il tossicodipendente che viene da noi sa che entra in un contesto di convivenza, quindi credo che automaticamente debba accettare delle regole, che sono poi una sola: quella di accettare per farsi accettare; dargli cioè la nostra amicizia e far sì che lui ci dia la sua. Logicamente questo richiede una maggiore disponibilità da parte di chi ha già trovato una propria identificazione nei confronti di chi non l'ha ancora fatto. Noi non chiediamo la disintossicazione; abbiamo dei ragazzi che si sono "fatti" anche un'ora prima, ed entrano nel nostro contesto senza che gli si chieda niente. Nei momenti di maggiore sofferenza usiamo solo degli antidolorifici, con il proposito, però, di arrivare ad un taglio netto con droghe, psicofarmaci e roba del genere.
L'accettazione reciproca non è sempre facile: le nostre assemblee (una alla settimana, o anche più a seconda delle esigenze) affrontano spesso questo problema; la non sopraffazione dell'uno sull'altro. Non è facile, perché sono realtà che l'individuo troppo spesso non è abituato a riconoscere. Ognuno tende a vivere in un proprio mondo, desiderando che gli altri vi si adeguino senza essere disposti a fare altrettanto. Questa è una delle difficoltà più grosse da superare, ed il problema stesso della droga è stato accentuato da tale situazione.

Voi vi ponete come gruppo eversivo, quindi con una progettualità sociale alle spalle. Questo si traduce anche in un'azione politica, sociale, esterna, o rimane prettamente interna?

La nostra collettività si realizza anche con fatti e momenti che si inseriscono nel sociale. Se ciò non accadesse non avrebbe senso la nostra sperimentazione e ritorneremmo al discorso della comunità terapeutica. Usiamo la politica come terapia, perché il discorso politico è sociologico ed è in proiezione di una trasformazione sociologica del mondo che ci circonda. Tant'è vero che noi abbiamo realizzato una cooperativa, con dei principi che sono abbastanza "sconvolgenti". I nostri ragazzi non hanno stipendio, perché la collettività dà dei servizi e deve dare delle risposte a quelle che sono le necessità esistenziali dell'individuo. Sono questi i problemi cui occorre rapportarsi: non ad esigenze di imposizione e di potere.
Volevano farci cambiare lo statuto, che era stato creato dai ragazzi stessi, i quali si sono rifiutati di modificarlo. Esiste quindi, da parte nostra, il tentativo di proiettarci anche all'esterno, solo che cercano di comprimerci. Sono convinto che l'economia individuale sia fallimentare, mentre quella collettiva riuscirebbe a produrre benessere e progresso. Per esempio con 500.000 lire al mese uno da solo non riesce a vivere; 10 persone insieme con 500.000 lire al mese a testa, formano un reddito mensile di 5 milioni, e riescono a vivere bene. Non è quindi una questione di risposta finanziaria, ma di rapporti e di una loro modifica. Si tratta perciò di portare avanti i propri sforzi per riuscire a creare dei rapporti alternativi fra gli individui.

Se la sente di dare un giudizio sulla comunità di San Patrignano e su altre comunità terapeutiche di cui è a diretta conoscenza?

Su San Patrignano non ho gli elementi per poter esprimere un giudizio obiettivo. Indubbiamente è encomiabile e da apprezzare, per quelli che sono stati gli sforzi che fa per togliere dei giovani dall'emarginazione e dalla droga; sotto questo aspetto, quindi, l'approvo. Logicamente se potessi dire qualcosa a Muccioli, gli chiederei di stare attento a non crearsi un suo piedistallo; perché credo che nessuno di noi possa servirsi di quello che fa per crearsi una posizione di privilegio, a cui sono assolutamente contrario. In generale il concetto di comunità terapeutica mi fa paura, perché viene a conglobare la realtà della tossicodipendenza in una fenomenologia di carattere patologico; ed allora diventa una fenomenologia di comodo.
Oggi sia alla struttura sociale che al potere, fa comodo far passare il tossicodipendente come "malato", il che potrebbe giustificare, forse fra uno o due anni, la riapertura dei manicomi.
Non mi sento di condividere la chiusura che c'è, purtroppo, in tali comunità, e le loro barriere. L'uomo, l'individuo, deve trovare un suo modo di camminare in spirito di libertà, anche con la possibilità di potersi fare il buco; questo è importante. Io non posso farlo vivere sotto una cappa di vetro, dove resta preservato da tutto: sarebbe troppo comodo e, comunque, non più una sua scelta. E una volta tolta la cappa, cosa succederebbe? Potrebbe anche essere stato un successo. E se invece questo individuo l'hai distrutto? Se ne hai fatto un automa? Non è più se stesso; l'hai trasformato in una bestia, perché non è più libero di operare le sue scelte spontanee, volute e coscienti.
L'uomo deve restare un essere cosciente. Abbiamo avuto il caso di un ragazzo che da noi, in 9 mesi, si è fatto 3 volte; se però considero che nove mesi fa' quando è arrivato qui, si faceva sei buchi in un giorno, posso dire di aver ottenuto ugualmente un grosso progresso. Soprattutto considerando che questo è avvenuto in uno spirito di libertà, quando lui avrebbe potuto continuare a farsi tutti i giorni. Questo per me è importante.
Io mi pongo di fronte all'individuo che ha cominciato a camminare con le sue gambe già all'interno di questa nostra esperienza. E un domani, quando sarà arrivato alla sua maturazione e sarà diventato padrone di se stesso, potrà affrontare la realtà della droga, passarci in mezzo, senza averne paura. Deve essere insomma un processo personale, ed io debbo aiutarlo in questo, senza imporglielo. Fargli capire, non tanto quello che voglio io, ma quello che vuole lui. Aiutarlo a essere se stesso, non quello che voglio lui sia. È necessario imporre a se stessi di essere tali; imporsi la propria volontà, perché è da questa che provengono le barriere di ognuno non dalla volontà di un altro. Certo in questo modo i processi sono più lunghi e difficili; richiedono un'analisi molto più profonda che prima deve essere introspettiva, per ciascuno di noi, e poi anche nei confronti degli altri.
Io mi auguro che alcuni dei ragazzi che sono qui sentano poi l'esigenza, la voglia di fermarsi per continuare a collaborare, ma senza che questo crei nessun tipo di discriminazione o emarginazione nei confronti di chi non si sentirà di farlo. Mi piace pensare sia all'una che all'altra eventualità, perché anche chi esce di qui, con il bagaglio della nostra esperienza comune, può essere in grado di portare avanti, anche all'esterno, questo tipo di discorso, creando altre realtà alternative.


6.Il Comitato per i diritti civili di Massa-Carrara

Vogliono cancellare il '68 e Basaglia

"Muccioli è un borghese piccolo piccolo" è questo il titolo scelto dal Comitato per i diritti civili di Massa Carrara per l'introduzione al testo della sentenza con cui il tribunale di Rimini ha condannato - tra il grande scalpore dei mass-media - il leader della comunità di San Patrignano. Si tratta di un lungo documento stampato presso La Cooperativa Tipolitografica di Carrara (per averlo, richiederlo direttamente al Comitato, via Sforza 11, 54031 Avenza (MS).
Pur dissentendo su vari temi dall'impostazione ideologica e politica del Comitato (per quanto riguarda, per esempio, la preferenza sempre accordata dal Comitato al "pubblico" rispetto al "privato") noi della redazione riteniamo che questo documento sia valido e stimolante. Ne proponiamo qui alcuni stralci.

L'ideologia di S. Patrignano che il tossicodipendente è una persona in grado di intendere, ma non di volere, che è un bambino in cerca di un'autorità a cui affidarsi (su cosa si fondino tali convinzioni, Muccioli non lo ha mai detto: in compenso dimostra tutto il suo disprezzo per chi si droga, in ogni occasione, anche al processo di Rimini ha definito, molto sinteticamente e significativamente, svelando i suoi pensieri e sentimenti più riposti, i tossicodipendenti come "zombie") serve molto bene ad accreditare l'idea della necessità della coercizione e della segregazione.
Il tossicodipendente viene lasciato a disposizione delle libere iniziative, anche le più sadiche e violente, di chiunque si autoproclami, senza bisogno di ulteriore dimostrazione, "esperto in droga"; a disposizione di qualsiasi "missionario" che, in perfetta buona fede, tenderà a distruggere la "diversità" e la "devianza" e ad affermare e imporre la propria visione della vita, anche a costo di qualche rogo, o, visto che non sono più di moda, di un po' di catene e di pollai.
La comunità si propone di "liberare" dalla droga, ricostruendo e ristrutturando dalla radice la personalità del tossicodipendente che si asserisce essere del tutto destrutturata, proponendogli e imponendogli un sistema completo di valori morali e ideali già definiti e preconfezionati (il caso della tossicodipendente cacciata da una comunità perché aveva abortito è emblematico, cosi come le giustificazioni di Muccioli per aver incatenato una ragazza, perché voleva avere rapporti sessuali, all'interno della comunità e durante il suo trattamento); di qui la necessità dell'interruzione di qualsiasi comunicazione con l'ambiente esterno e familiare che potrebbero influenzare questa forma di radicale lavaggio del cervello e di condizionamento a senso unico. È una ben definita visione della vita al cui fondamento sta la condanna del piacere e l'esaltazione del sacrificio gratuito e della sofferenza ricercata come fine. In parte ciò può essere una schematizzazione, ma serve a indicare al di là di sfumature nei metodi adottati, la non laicità e quindi non scientificità e non razionalità delle forme di "recupero" delle comunità terapeutiche autoritarie e chiuse, nonostante la sponsorizzazione attuale di quella di Muccioli da parte dei partiti laici.
Bisognerebbe, innanzitutto, che venisse dimostrato che la personalità del tossicodipendente è quella presupposta da questi tipi di comunità, ma ciò è impossibile, perché certe affermazioni sono solo il risultato di analisi incomplete, superficiali e moralistiche; è vero piuttosto che chi vive solo e in funzione di un unico oggetto del desiderio, rischia di avere rapporti conflittuali o non rapporti con gli altri, ma ciò non autorizza a considerarlo una persona destrutturata e distrutta, anche se questo discorso avrebbe bisogno di essere approfondito in altra sede.
Se le comunità, laiche o religiose che siano, hanno avuto tanto successo presso l'opinione pubblica benpensante anche di sinistra (ma non tra i tossici, che, nella maggioranza non ne vogliono sentire parlare e le giudicano l'equivalente del carcere) è perché rispondono anche al bisogno, oggi molto forte, di fedi assolute e non problematiche, di autorità, di obbedienza, di adesione a istituzioni che rassicurino e insegnino la rinuncia, il sacrificio fine a se stesso, la disciplina e l'autodisciplina più rigide (vedi ancora le chiusure e le ossessioni di Muccioli e di tante comunità terapeutiche - che dividono rigorosamente gli "ospiti" secondo il sesso - di fronte a tutta la vita affettiva e sessuale non solo dei tossicodipendenti: così la non distinzione tra droghe pesanti e droghe leggere che non danno dipendenza, ecc.). Non si spiega diversamente il relativo successo, anche se ottenuto con meno clamore, e la diffusione di tante sette religiose o mistiche (portatrici di messaggi e programmi di ordine e autoritarismo che dall'individuo devono estendersi alla società) alla cui guida troviamo in genere santoni o guru o mamme Ebe delle più varie tendenze e specializzazioni ai quali tanto somiglia Muccioli, sia pure in versione laica anche sotto il profilo imprenditoriale e manageriale di sfruttamento di lavoro non pagato e non assicurato.
Il gran parlare di comunità terapeutiche serve a far passare un principio che è tutto da dimostrare: che il tossicodipendente è un malato da affidare a medici, psicologi, psichiatri, sociologi, comunità e stregoni vari.
Probabilmente questo è il momento in cui si vuole regolamentare il settore e passare da un'epoca pionieristica e avventuriera, alla Muccioli, a una strutturazione più rigida affidandola a figure professionalmente definite; tra le nuove professioni in via di espansione, possiamo ormai contare anche quella di "ricuperatore di tossicodipendenti". È evidente il giro di interessi che ci sta dietro in termini di occupazione, finanziamenti pubblici, di cliniche e comunità private, di cure, di piani di prevenzione, di centri diurni, ecc... Tutto passa al di sopra dei tossicodipendenti, destinatari inconsapevoli o non coinvolti in questo immenso affare, che serve certamente molto più a perpetuare la presenza dell'eroina che alla sua eliminazione. E sempre, in ogni proposta di "recupero", la mancanza profonda di rispetto e di riconoscimento del tossico come soggetto, come persona, magari in difficoltà, ma sempre persona autonoma e libera; basta un'osservazione linguistica: dei tossicodipendenti si parla solo e sempre usando il termine "ragazzi", anche se la maggioranza di loro sono adulti, segno che non gli si riconosce l'autonomia e la maturità delle loro scelte anche se negative o non condivisibili. Così come è offensivo nei loro confronti che li si consideri solo adatti alla lombricoltura, a un artigianato marginale, al giardinaggio, alla cartapesta, cioè ad attività in sé rispettabilissime, ma che se diventano il segno di una determinata categoria di persone possono significare solo l'intenzione di perpetuarne l'esclusione e la marginalità. Se poi cure devono essere, e spesso ce ne è anche bisogno, non per questo sono giustificabili violenze o cure coatte.
Non occorre scomodare il '68 o Basaglia, ricordando che, allora, si diceva che la libertà è terapeutica; bastano la Costituzione e le leggi vigenti, perché col processo Muccioli, ma non è il solo segnale che proviene oggi dalla società in questa direzione, si tende a ri-legittimare la malattia come colpa di fronte alla quale è giusta e necessaria la violenza; è la logica manicomiale e della custodia, delle istituzioni chiuse.
E' l'intero sistema dell'assistenza sanitaria e le 180 in particolare che la mobilitazione pro-Muccioli tendeva e tende a mettere in discussione e colpire. Non si capisce (o meglio, lo si capisce anche troppo), perché, una volta delegata del tutto l'assistenza di una determinata categoria come i tossicodipendenti ai privati, non si possa, via via, scorporare dall'assistenza pubblica anche quella di altre categorie di malati, magari meno "difficili" e più redditizi. La lunga battaglia democratica degli anni '70 per la riforma sanitaria e per il superamento e la chiusura delle istituzioni totali, escludenti e separanti, sembra finire nel suicidio idiota di una sinistra che si fa complice dei piani di restaurazione delle forze conservatrici e appoggia, in nome dei pregiudizi e del moralismo, forme rimaneggiate di segregazione, accompagnate dalla libertà di violenza, di incatenamento, di umiliazione e disprezzo più grossolano della persona (...).
Ma è dal moralismo e dall'insieme dei pregiudizi che circondano il mondo della droga che occorre soprattutto liberarsi.
È stato ampiamente dimostrato che quanto più si combatte l'illegalità dell'eroina, tanto più ne crescono il prezzo e i margini di profitto e, quindi, la diffusione; in altre parole la causa della diffusione dell'eroina sta in gran parte proprio nella sua illegalità che, consentendo profitti enormi, fa crescere il mercato. La soluzione, anche se qui non è la sede per approfondire la cosa, sta solo nella legalizzazione dell'eroina e nella sua introduzione nella farmacopea ufficiale; molti "zombie" riprenderebbero a vivere immediatamente una vita normale, oltre la "delinquenza", il carcere, i rapporti con gli spacciatori, il piccolo spaccio, l'angoscia per la "roba", le malattie da "buco" e da taglio, ecc... Il mercato cesserebbe di espandersi; in Inghilterra dove l'eroina è, in varie forme, liberalizzata fin dal 1924, il numero degli eroinomani esistenti è infinitamente inferiore a quello italiano.
Soprattutto si restituirebbe dignità personale e sociale a chi fa uso di eroina o di altre sostanze stupefacenti, sottraendolo all'emarginazione e alla morte civile a cui è condannato dalla ricerca della "roba".
Si spezzerebbe così anche la cultura della morte che è l'ideologia sottintesa, anche se non dichiarata, delle comunità terapeutiche autoritarie e chiuse; perché ciò che forse è più repellente in queste istituzioni è la loro convinzione fatalistica e moralistica che si può uscire dalla droga solo quando si è raggiunto il "fondo" (è un termine loro); è la loro attesa passiva, indifferente, sicura che, comunque, un certo numero di tossicodipendenti disperati, arrivati al "fondo", cadrà nelle loro reti. Non importa che prima di arrivare al fondo una percentuale spaventosa di tossici (enormemente superiore alle statistiche ufficiali) trovi la morte; non interessa contare il numero di quelli che scappano dalle comunità e, se possono, le abbandonano, basta che le comunità siano sempre piene, magari di gente che entra e se ne va senza aver concluso niente.
È questa cultura di morte (di cui anche il sadismo con cui si trattano i tossicodipendenti e la tendenza a colpevolizzare i loro familiari sono espressione emblematica), di rassegnazione, di impotenza e di indifferenza, da raccoglitori di cadaveri, da statistici dell'overdose, che va rifiutata.
La disinformazione e la demonizzazione del problema, la creazione di piccoli "eroi", le scelte a priori a senso unico delle soluzioni, i pregiudizi e il moralismo servono solo a perpetuare il potere dell'eroina (...)


7. Quasi una conclusione

Paradossalmente zombi

Dare un giudizio non è facile, ammesso che se ne voglia dare uno. Forse solo impressioni che ci hanno colto, in modo anche contraddittorio tra loro, durante la nostra visita. Una visita attesa per mesi, infatti i primi contatti sono avvenuti in gennaio, ma solo l'undici maggio abbiamo avuto il permesso di andare a S. Patrignano.
La prima impressione, al posto di blocco (come loro stessi lo hanno chiamato), è stata subito negativa e ci ha un po' raggelati, poi piano piano si è mitigata con la gentilezza ed ospitalità del resto della giornata. Anche se non è molto, abbiamo "vissuto" la comunità per un pomeriggio, fino a notte inoltrata. Lì i ragazzi smettono di bucarsi e questo è un fatto innegabile sul quale non possiamo avere molto da dire. Abbiamo parlato a lungo con alcuni di loro, abbiamo vissuto i loro momenti conviviali (la cena, uno spettacolo in teatro), abbiamo girato per tutta la comunità. E un po' d'invidia per questa loro vita in qualche modo diversa rischiava di spuntare nei nostri cuori, colmi di desideri "alternativi" spesso delusi.
Ma questo ad un primo sguardo superficiale (una vita "comunitaria", a contatto con la natura, fra bellissime colline, ecc...). Poi tutto si è ridimensionato, andando un po' più in profondità, ed anche parlando con chi ci ha accompagnato e con i ragazzi stessi.
Innanzitutto una cosa che ci ha sconcertato è che è stato un dialogo fra sordi. Da parte principalmente di Vincenzo Muccioli, che quasi da attore mestierante si è concesso al registratore e all'obiettivo con un distacco ed indifferenza notevoli per sciorinare una filastrocca ormai consueta che prescindeva totalmente dalle domande, che potevano essere nostre o di chiunque altro per ottenere lo stesso risultato. E questa sensazione di incomprensione si è ripetuta, anche se in misura diversa, con i ragazzi. Finché si è trattato di raccontare non si sono stati problemi, ma ogni volta che si cercava di superare il muro che li circonda, di approfondire certi discorsi o discuterne altri, raramente ci si capiva, e mai a fondo. Ognuno poi può giudicare da ciò che abbiamo riportato nelle nostre interviste/colloquio, anche se per ovvi motivi di spazio ne compaiono solo stralci.
Inoltre ci ha colpito la grandezza e l'efficienza della comunità dal punto di vista "produttivo". Soprattutto è la forte tendenza industriale e competitiva che salta agli occhi: è una vera e propria corporazione al passo coi tempi e che non vuole certo essere da meno sul mercato. Ultima e non meno importante impressione è lo scoprire la "potenza" di Muccioli verso i ragazzi. È Lui con la elle maiuscola e la più chiara aspirazione espressa dai ragazzi è cercare di essere come lui: tanti surrogati a sua immagine e somiglianza. E "l'alternativa"? Non l'abbiamo trovata, o almeno non è la nostra.
Paradossalmente ci siamo sentiti "zombie" in casa laica ed a "casa nostra" da un prete. Visitando la "tana" di Don Ulisse (conosciuto, contattato ed intervistato nel giro di una settimana) ci è tutto sembrato più umano. Il salto è stato enorme e la lunga chiacchierata con Don Ulisse dice già tutto da sola. A noi non resta che aggiungere che l'aria stessa che si respirava era diversa. E speriamo che... Ulisse continui a non farsi incantare dalle sirene, mentre c'è chi dispensa autografi.

Rossana Ambrogetti
Carla Atlante
Franco Melandri