Rivista Anarchica Online
È di scena la
pace
di Maria Teresa Romiti
"Ginevra, show
della distensione" il titolo a tutta pagina del quotidiano è
fin troppo realistico. Ginevra è il grande show che tutti, volenti o
nolenti, seguono, uno show fatto di piccoli passi, di riunioni
amichevoli, di bruschi cambiamenti d'umore. La commedia continua alla
prossima puntata. Ma lo spettacolo
non può essere il solo motore di riunioni che continuano da anni,
decenni. Anche se la sua importanza fa parte del gioco, c'è da
chiedersi cosa cercano veramente di ottenere i grigi funzionari,
insieme a brillanti scienziati che passano ore intorno a tavoli di
mogano. Non pretendo di entrare nel cervello e nelle elucubrazioni
politiche dei "massimi dirigenti mondiali", troppo lontane
dal mio essere, ma non riesco ad immaginarle dettate solo da
necessità di spettacolo. La concretezza fa parte della loro
formazione e visto che il fine dei colloqui di Ginevra non è
certamente la pace, bisogna chiedersi cosa sia. L'immagine nella
società dello spettacolo è molto, ma non è tutto. Forse la risposta è
in un aforisma di Aron, filosofo conservatore francese: "guerra
improbabile, pace impossibile". La preoccupazione dei dirigenti
delle superpotenze è rendere improbabile una guerra totale che,
anche se non li distruggerebbe come persone (hanno certamente
considerato il modo per salvarsi, loro!), li distruggerebbe come
ruoli. Che senso avrebbe dirigere società ormai inesistenti, esseri
umani a malapena sopravvissuti, spaventati, la cui unica
preoccupazione sarebbe il quotidiano cercare di non morire? Il
problema non è da poco: trovare i metodi per evitare che il sistema
sfugga di mano, che, per errore, per necessità d'immagine, la Guerra
Totale debba scoppiare, senza però dover rinunciare alla guerra
giornaliera, ai piccoli fuochi che scoppiano ovunque, oggi qui,
domani là, sempre attentamente limitati. È
ancora Orwell che viene alla mente: la guerra è necessaria al
dominio, ma non deve distruggere i dominati. Oggi il pericolo
che qualcosa non funzioni, che un incidente si trasformi nella Guerra
è realistico. La risposta nucleare deve essere immediata, forse
anche automatica. Fino a quando sarà possibile bloccarla dal centro? Un filo di rasoio
su cui camminiamo da troppo tempo. Un filo che forse ci sta cambiando
senza che riusciamo a rendercene conto. È
sempre difficile e semplicistico fare ragionamenti che coinvolgono
milioni di persone senza tener presente le diversità di condizioni
sociali, di cultura, di situazioni, ma vorrei tentare lo stesso a
lanciare un'ipotesi tenendo ben presente che è solo un modello molto
semplicistico. L'idea mi è stata donata da una ragazza a cui avevo
chiesto il motivo per cui i giovani sembrano apatici, preoccupati
solo di se stessi, quasi incapaci di vedere il mondo con un più
ampio respiro. "Abbiamo paura" mi ha risposto "potremmo
essere tutti morti prima del duemila, fra solo quindici anni! Come
vuoi che possiamo pensare o lavorare per il domani?". Non è forse solo
quel filo di rasoio, quella paura inconscia (ma quanto profonda?) di
un domani inesistente. Esistono altri problemi: la mancanza di
possibilità di lavoro, l'inquinamento, le mille possibilità di
morte, ma questo rimane il più terrorizzante. In effetti i giovani
d'oggi sembrano essere per la maggior parte apatici, amorfi,
preoccupati solo del quotidiano, del domani ristretto di casa,
lavoro, divertimento, chiusi ai grandi problemi che solo una
generazione fa (quanto tempo è passato!) erano al centro delle idee
e delle discussioni. Bloccati perché incapaci di pensare alla
possibile catastrofe o così occupati a spendere energie per
rimuoverne anche la sola idea da non avere più nulla da spendere? È
forse un caso che le nascite continuano a diminuire? Gli antropologi
risponderebbero di no. Esse sono il segno della vitalità di una
società. Quando si smette di fare figli è perché in fondo la
società ha deciso di morire (muta protesta di donne? la vita che
cede alla morte?). E non è certo grande psicologia leggere le
musiche sempre più forti, il divertimento ad ogni costo come la
ricerca dell'ottundimento dei sensi, droga perché il cervello non
debba pensare. Così come la violenza gratuita, le risse negli stadi
e nelle discoteche sono il segno del disagio, della paura. Perfino tra i
giovani americani, la generazione che viene definita culturalmente
rivoluzionaria, non alberga più il "sogno americano".
Giovani ansiosi di guadagnare molto denaro, ma più edonisti dei loro
genitori, più preoccupati della qualità della vita e desiderosi di
sicurezza sociale; giovani labili, se non capricciosi, nelle loro
idee e incapaci di ribellarsi. È
l'ansia di riuscire perché forse domani non si potrà più? È
la ricerca della sicurezza nella religione, nella famiglia? Chissà?
Vasco Rossi, l'idolo delle nuove generazioni italiane dice che i
giovani "non seguono più nessuno, non hanno più rispetto, per
niente e per nessuno. Perché hanno paura del buio. Come me. E
cantano per farsi coraggio". Non sono tutti
bloccati, non tutti cantano per farsi coraggio. C'è anche chi agisce
per farsi coraggio. Variegate piccole minoranze che abbracciano
ideologie anche fondamentalmente diverse tra loro. Mentre il resto è
amorfo, aspetta. Ma non sarà sempre così. Non si può restare
bloccati tutta la vita come statue. Prima o poi si sceglierà perché
fare qualcosa, qualsiasi cosa è meglio che non fare nulla. E quale
sarà la scelta: la vita o la morte?
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