Rivista Anarchica Online
Vivere è
scegliere in ogni momento
di Sylvia Ribeiro
Prima per un
ventennio a Montevideo. Poi, dopo alcuni anni di repressione carcere
espulsioni ecc., a Stoccolma. Non c'è solo un filo ideale a
collegare la Comunidad del Sur uruguayana all'esperienza di Comunidad
in Svezia. Ci sono le vite vissute, le riflessioni, gli entusiasmi di
chi ne è stato protagonista. Nella tavola rotonda che pubblichiamo
nelle pagine seguenti sono le donne della Comunidad a raccontare,
analizzare, dibattere la loro storia. Si parla di educazione,
sessualità, famiglia, lavoro, coppia, gravidanza, bambini,
emancipazione, ecc... Con la concretezza che deriva dell'esperienza
diretta in un contesto davvero eccezionale.
Parlare della
situazione della donna, già dalla scelta dell'argomento, implica una
messa a fuoco, un punto di vista determinato. Il movimento
femminista, in varie circostanze, ha rivendicato la necessità
dell'analisi e del cambiamento della situazione della donna. Oggi,
nel 1984, possiamo anche riconoscere che molte femministe che 15 anni
fa parlavano di liberazione sessuale, di ridefinizione dei ruoli
femminili e maschili, sono tornate su posizioni "conservatrici",
soprattutto in relazione al problema dei figli (è di nuovo un valore
rimanere a casa con i propri figli) o a quello del vuoto lasciato dai
rapporti sessuali multipli (e che porta addirittura alcune femministe
"storiche" a difendere la castità come valore). L'"impasse"
giunge dopo alcuni trionfi immediati, dopo certe riforme legislative
e un'accettazione relativamente benevola delle posizioni femministe.
Però, quando le attiviste, davanti alla situazione attuale si
chiedono "Che fare?", davanti a loro si apre solo la desolata
prospettiva di continuare a battagliare col marito, a denunciare casi
di violenza ed a occuparsi di bambini abbandonati o di cause di
divorzio, compiti questi, molto più adatti ad un'assistente
sociale che a una militante rivoluzionaria. Che
fare quando, dopo aver conquistato gli ultimi baluardi legislativi e
costituzionali, si ha lo stesso la sensazione che la
situazione reale della donna non è affatto cambiata? (come
scriveva Lidia Falcon sul quotidiano El Pais
del 1.5.1983). In
questo senso l'eventuale originalità di questo articolo sta nel
fatto che scaturisce da un'esperienza concreta, dal tentativo di
gettare le basi per una società dove tutti
i ruoli (femminili e maschili, professionali, politici ed economici)
sono stati messi in discussione, e soprattutto dallo sviluppo nella
prassi di altri ruoli e di altri
valori, prima dei quali il tentativo di creare un immaginario sociale
non-gerarchico che a sua volta si confronti continuamente con la
prassi realizzata. È
necessario chiarire, tuttavia, che questa prassi è sempre stata
circoscritta all'interno di una società quasi sempre nemica
dell'esperienza realizzata, e che noi, che ne facciamo parte, siamo
portatori di questo immaginario sociale gerarchico che rifiutiamo e
che tentiamo di sostituire. Il materiale che utilizziamo in questo articolo è
dunque descrittivo di questa esperienza. Anche se non abbiamo
effettuato un'elaborazione di tipo teorico, pensiamo che sia lo
stesso valido e che forse possa servire da spunto per questa
elaborazione. Il
gruppo che si è occupato della realizzazione di questo articolo ha
come denominatore comune il fatto che tutti i membri hanno e/o hanno
avuto un'esperienza di vita comunitaria, o nella Comunità del Sur (a
Montevideo 1955-1975) o nel gruppo Comunità di Stoccolma. Le
partecipanti a questa tavola rotonda sono state: Edda (50 anni e 5
figli) e Suzy (36 anni e 3 figli) della Comunidad del Sur.
Attualmente vivono sole. Anche Sylvia (27 anni), Laura (27 anni e 1
figlia) e Laurita (17 anni) hanno fatto parte della Comunidad del Sur
e attualmente sono membri del gruppo Comunidad di Stoccolma insieme
ad Ann-Lis (29 anni) e Ana (29 anni). Ad eccezione di Ann-Lis
che è svedese, siamo tutte uruguayane. Oltre
alla trascrizione parziale delle conversazioni realizzate da questo
gruppo di compagne, useremo documenti elaborati precedentemente nella
Comunidad del Sur. Nelle conversazioni seguiamo le diverse tappe
dello sviluppo di una donna: adolescente, donna adulta e madre nella
comunità, dato che quando si parla del problema della donna nella
nostra società, il più delle volte si fa riferimento alle adulte,
trascurando tutta la fase precedente di socializzazione che invece è
quella che condiziona i ruoli, i valori e il comportamento nell'età
adulta.
Sylvia
Ribeiro
Edda - Nella
comunità non si faceva alcuna differenza tra maschi e femmine: a
tutti piaceva correre, giocare e sporcarsi. Non c'era nessun
atteggiamento speciale differenziato per nessuno, salvo casi di
malattia o di altro tipo, ma non legati al sesso. In generale il
comportamento dei bambini non era diverso da quello delle bambine,
tranne il caso, per esempio, di T. che era molto delicata, cioè era
molto femminuccia nel senso che si dà in genere al termine nella
nostra società, tuttavia i suoi fratellini erano diversi.
Sylvia
- Non si trattava forse di una sua caratteristica peculiare? Forse
era solo più precisa, per esempio.
Laura - No,
al contrario, lei era più maldestra degli altri: infatti non si
lanciava nei giochi, non le piaceva sporcarsi, ecc... in realtà era
debole. Credo che bisogna anche tenere presente l'influenza che può
esercitare l'ambiente sui bambini: per esempio i vicini della
comunità trattavano le bambine come "donnine" e questo fattore
incideva moltissimo, o perlomeno ci condizionava. Quando facevamo il
bagno nude i vicini ci dicevano che era male, che era immorale. Però,
all'interno della comunità, io non ho mai notato atteggiamenti o
attività diverse determinati dal fatto che si trattasse di bambini o
di bambine.
Ann-Lis
- Però gli adulti che facevano parte della comunità erano
cresciuti all'interno della società e avevano necessariamente
assimilato un concetto di "maschile" e di "femminile".
Laura -
Questo è vero, però quando si discuteva insieme di questo problema
e lo si analizzava, gli adulti dovevano tentare di operare un
distinguo" tra quelle che erano le loro attitudini "spontanee
(determinate cioè da un particolare tipo di educazione) e sforzarsi
di non ripeterle, ma invece agire in funzione dei valori scelti.
Inoltre, gli adulti che lavoravano direttamente con i bambini - nelle
nostre attività quotidiane - erano proprio quelli che l'intera
comunità considerava i più adatti per trasmettere questi valori
comuni e questo lo si verificava continuamente nella commissione di
educazione o nei sottogruppi di cui facevano parte anche i genitori
biologici e quelli che lavoravano direttamente con i bambini. Voglio
dire che a livello educativo non si favoriva la discriminazione tra
un sesso e l'altro: l'atteggiamento degli adulti era sempre lo
stesso.
Sylvia
- Inoltre ci sono aspetti strutturali. Nel lavoro, nelle assemblee i
bambini potevano imparare a vivere, dato che la partecipazione non era
determinata dal sesso: nei lavori di casa erano impegnati sia uomini
che donne. Lo stesso accadeva con le decisioni da prendere sui
diversi aspetti della vita, come consumo e pianificazione: non erano
basate sulla relazione sessuale (coppia), ma erano affidate
all'assemblea dove ogni singolo esprimeva il suo parere. E tutto ciò
costituisce una differenza fondamentale rispetto al modo di vivere
della maggioranza dei bambini, dato che, per quanto avanzati siano i
genitori di una bambina, la differenziazione dei ruoli (lavori di
casa, dipendenza economica e affettiva) compare quotidianamente nella
pratica.
Sylvia -
Anche per i genitori l'esperienza globale della comunità voleva dire
molto. I genitori biologici incontravano i figli dopo il lavoro e in
quel momento erano liberi da qualsiasi impegno di altro tipo, per
potersi dedicare interamente loro. Ciò significava che i genitori
potevano stare con i loro figli e allo stesso tempo avevano la
tranquillità di sapere che il resto funzionava anche senza di loro. Quelli che non
avevano figli avevano l'incarico di servire la cena o di svolgere
altri compiti serali. All'ora di cena, qualcuno di quelli che non
avevano figli accompagnava i bambini a letto (questo serviva ad
arricchire il mondo sia dei bambini sia di questi adulti senza figli)
e si fermava un po' con loro per leggere una favola o conversare. Il
risultato finale era che, nel lasso di tempo in cui i genitori
stavano con i loro figli, la loro disponibilità era totale e il loro
rapporto non riceveva pressioni dall'esterno, ma era esclusivamente
un rapporto di creatività reciproca.
Edda - Per
una donna e madre tutto questo ha un'enorme importanza. Quando io me
ne andai dalla comunità, sentii che il rapporto con i miei figli si
stava impoverendo. Con Rafael, che è il mio figlio minore ed è
venuto via dalla comunità insieme a me, la relazione fu diversa che
con gli altri fratelli più grandi, per i limiti che comporta una
vita familiare tradizionale. Per esempio, quando lui si faceva il
bagno, voleva dire semplicemente farsi il bagno, mentre nella
comunità questo significava allo stesso tempo giocare, stare con gli
altri e scoprire il corpo degli altri, visto che i bambini facevano
il bagno in tre o quattro alla volta. Inoltre, vivendo sola c'è poco
da scegliere: bisogna cucinare, lavare, stirare e stare con i figli
contemporaneamente, senza poter dedicare loro il tempo sufficiente
per un rapporto del genere. Senza contare che ci sono anche meno
possibilità di fare cose "personali, si è molto più legate agli
impegni quotidiani che non possono essere rimandati.
Ma
l'emancipazione è un'altra cosa
Sylvia - Io
credo che questo sia uno dei punti in cui il movimento femminista ha
fallito. Quando si esige l'emancipazione della donna, questo si
traduce nella maggior parte dei casi nell'affidarle compiti
produttivi o compiti che finora sono stati prerogativa dell'ambito
maschile, cosa che - oltre al fatto di rivelare scarsità di
immaginazione (il problema non è quello di raggiungere un livello di
integrazione uguale a quello degli uomini, ma quello di rimettere
completamente in discussione un sistema che permette l'esistenza di
dominati e dominatori) - ricade soprattutto sui bambini che, infatti,
restano o abbandonati a se stessi, o affidati a istituzioni che si
occupano di loro sia in senso burocratico sia trasmettendo valori che
riproducono in ogni caso il sistema. Il compito di educare, che
storicamente era prerogativa della donna, passa quindi nelle mani
dello stato, espressione tipica di un sistema di dominati/dominatori.
Credo che questa conseguenza (peraltro non cercata) che la lotta di
emancipazione ha determinato per i figli, sia stata una delle cause
per cui ora alcune femministe esaltano di nuovo la vita in famiglia
(che è una regressione), anziché cercare forme di collaborazione
che tengano in considerazione sia la situazione della donna sia
quella dei figli.
Ann-Lis -
È recente il caso di due
compagni che sono usciti dalla comunità per paura - soprattutto da
parte di lei - che le sue figlie acquisissero maggior confidenza con
altri adulti che non loro. Come reagiva la comunità davanti a
problemi come questo?
Suzy - I
timori esistevano e a volte i genitori si risentivano perché i loro
figli avevano più confidenza con altri adulti che con loro. Anche a
me questo dispiaceva, però fui costretta a cambiare atteggiamento
quando fui arrestata e vidi che i miei figli erano in grado di stare
con gli altri compagni e che questi trasmettevano loro la stessa
sicurezza che gli avrei trasmesso io.
Laura - La
comunità, per come è strutturata, trasmette valori particolari.
Anche i genitori lo fanno, però a volte, con la loro vita,
trasmettono valori contrari a quelli che affermano, non perché non
credano in questi valori, ma perché, vivendo in famiglia, si
riaffermano ogni giorno questa struttura, questo modo di concepire
l'economia, il rapporto adulto-bambino, uomo-donna, ecc... Anche
nella comunità succede lo stesso, per cui i valori che uno trasmette
sono realmente quelli che mette in pratica tutti i giorni. Per questo
credo che l'esperienza della comunità sia importante, anche se non
ha raggiunto tutti gli obiettivi che si era prefissa e se contiene
degli errori (cosa d'altra parte inevitabile in una fase
sperimentale).
Sylvia -
Come dice Nietzsche: "I fondatori di un movimento non sono mai
un'argomentazione valida contro il movimento stesso".
Laura - Io
penso che sia importante chiederci quello che si è chiesto Jaime
Rojas Bernidez, autore argentino di psicodrammi che ha lavorato a
lungo con la comunità per studiare le reazioni che determinava la
vita di gruppo sulla personalità. Cosa succede realmente ai bambini
della comunità? Una prassi comunitaria, una alternativa sociale vera
e propria implica: una struttura, dei valori e una applicazione
pratica di entrambi. Perché io credo che i valori siano stati
assimilati, ma non altrettanto la capacità di organizzarsi per dar
vita a questi valori in un contesto completamente diverso. Inoltre i
valori non si possono trasmettere, se non si mettono in pratica. Per
esempio, quello che diceva Edda: quando è andata a vivere sola col
figlio ha conservato gli stessi valori, ma non poteva più
realizzarli, non poteva più inserirli in pratiche sociali tanto
diverse da quelle che sono alla base di un'educazione libertaria. D'altro canto, aver
assimilato valori quali la solidarietà e il rispetto per i bambini
come individui che possiedono una vita e delle opinioni proprie, sono
inestimabili. Io vivo come una grossa perdita il fato che Gaby,
Adriana e Marcela (altre ragazze figlie della comunità che sono
cresciute con me in Uruguay), non facciano più parte della comunità,
perché le forze che avremmo insieme per trasmettere i valori di una
vita nuova ai figli sono praticamente insostituibili, per noi i
valori che contano sono la spontaneità e la conoscenza, che a
differenza degli adulti che hanno fondato la comunità, abbiamo
scelto, mentre loro dovevano lottare anche contro i falsi valori
assimilati precedentemente. Per le ragazze cresciute nella comunità,
"spontaneità" equivale a "saper vivere in gruppo".
Edda -
Capisco cosa vuoi dire perché nutro lo stesso sentimento nei
confronti dei compagni che se ne sono andati dalla comunità. Mi
dispiace non poter lavorare con loro: è come se tutto questo lavoro
di trasformazione fosse un'occasione d'oro lasciata scappare.
Ann-Lis - I
bambini che conosco, nati nella comunità, sono chiaramente sia
maschi che femmine. Tu, Laura, quando hai scoperto di essere una
"femmina"?
I primi giochi
sessuali
Laura - L'ho sempre saputo - da che mi ricordo - anche
quando, da piccoli, si facevano i giochini a sfondo erotico.
Dopodiché lo notai nei bambini della comunità più piccoli di me.
Però fu solo a scuola che mi resi conto di come essere donna
implicasse atteggiamenti determinati. I bambini "toccavano"
le bambine, le trattavano in altro modo. All'inizio la cosa mi
sbalordì, mi sembrò un atteggiamento strano, però in seguito noi
bambine della comunità ci unimmo per difenderci. E così, mentre le
altre bambine uscivano correndo, noi picchiavamo i maschi, e a quel
punto erano loro che dovevano correre. Solo allora mi accorsi
veramente che essere donna poteva significare qualcosa di speciale.
Edda - Voi, Laura e Laurita, vi ricordate dei primi giochi
sessuali?
Laurita
- Io mi ricordo che facevamo il bagno nude sul terreno della
comunità e che i vicini si scandalizzavano.
Sylvia
- L'esistenza di un contesto sociale antitetico ai valori della
comunità è un dato di fatto. Sarebbe però interessante
verificare se nella comunità si sviluppavano ruoli particolarmente
condizionati dal fatto di
essere uomo o donna. Cosa significava il fatto di vivere in una
struttura sociale dove i ruoli non erano determinati dal sesso; per
esempio il fatto che ci fossero donne addette al settore produttivo e
uomini addetti ai lavori domestici? Voi che avete vissuto nella
comunità da bambine, cosa volevate fare da grandi?
Laura
- (Pausa di incertezza) Mah... Il fatto è che certe domande le
facevano solo a scuola. E in quella situazione potevamo solo avere
progetti uguali a quelli di tutte le altre bambine: maestra, hostess,
ecc... Però, avevamo la sensazione che tutto questo apparteneva ad
un "altro mondo", nella comunità non si parlava di queste cose,
si parlava di cosa fare adesso,
di cosa fare insieme, di come comportarsi nel presente.
Edda
- Noi adulti non facevamo queste domande perché l'unica cosa
importante era imparare a vivere in collettività. Il lavoro era del
tutto secondario. Come dice il poeta spagnolo Leon Felipe "l'unico
impegno importante è quello che insegna all'uomo a essere uomo".
Ann-Lis
- Però il gruppo aveva un obiettivo: non creare discriminazioni
tra maschi e femmine. Raccontaci ancora qualcosa su questo argomento.
Edda
- Pensavamo le cose di cui stiamo parlando ora. In realtà le
differenze non
derivano dal fatto di essere uomo o donna, ma dalla capacità di
essere se stessi e allo stesso tempo di esserlo con gli altri
e sono altrettanto determinate dalla capacità o meno di essere
solidali, di preoccuparsi dell'"altro" e dei beni della comunità.
Tutto questo è la premessa per poter essere un membro cosciente di
una società che si autogestisce. "Fuori" le donne, in generale,
si preoccupano dell'abbigliamento,
della casa, degli affetti. Gli uomini, dal canto loro, sembrano quasi
"i proprietari delle idee", di quello che si produce, di quello
che è razionale. Secondo noi bisognava capovolgere
questo concetto e colmare questa frattura completandoci
a vicenda. Tutti dovevamo sforzarci di cambiare. E tentavamo di
applicare questo principio
nell'educazione, nel rapporto diretto con i bambini e in quello tra
noi adulti, che rappresentava un modello per i bambini. Dopo
alcuni anni dall'inizio dell'esperienza di "comunitarizzazione",
il gruppo di compagni responsabili di questa iniziativa realizzò un
test dove si cercava di capire come i bambini ponevano in relazione
il fatto di essere maschio o femmina con determinati ruoli. Venne
elaborato un questionario in cui si ponevano 6 domande aperte
relative a: divisione del lavoro, interessi, rapporti con gli adulti,
preoccupazione per l'aspetto esteriore, aggressività, sicurezza
di se e tendenze. Dai risultati
dell'inchiesta non emersero grandi differenze di ruolo in rapporto al
sesso, salvo per alcuni casi in cui si faceva riferimento ad attività
che richiedevano un grande sforzo fisico (che secondo loro dovevano
essere svolte dai maschi) e altri (non tutti) in cui si faceva
riferimento all'aspetto esteriore, distinguendo tra quello dell'uomo
e quello della donna.
Sposarsi?
Nemmeno per idea
Sylvia - Non
so se sarà una domanda capziosa. In classe mia, quando frequentavo
il liceo, tutte le ragazze pensavano di sposarsi e in un modo o
nell'altro, a volte dopo aver conseguito un titolo di studio, quello
rimaneva l'unico scopo della loro vita.
Suzy - Era
lo scopo che la società stabiliva in partenza per la donna: sposarsi
e avere figli.
Laura - Per
noi invece era chiaro: non avevamo nessuna intenzione di sposarci.
Alcuni adulti della comunità si sposavano perché costretti dalla
società, dalla famiglia, ecc. però per noi era chiaro che la nostra
vita affettiva e sessuale doveva essere la manifestazione dei nostri
sentimenti espressi nella massima libertà e mai mediati da qualcosa
di estraneo a questo rapporto, come la Chiesa o lo Stato. Era
altrettanto chiaro che qualsiasi rapporto implicava un compromesso
sociale. Nella comunità il matrimonio, la decisione di due compagni
di dare inizio ad un rapporto stabile, veniva riconosciuta e
festeggiata, e questo era un modo di far partecipare gli altri, la
comunità, a questa scelta e viceversa. Noi ragazzine sognavamo di
avere un compagno o vari compagni, ma questo non era uno scopo in sé.
L'appagamento del bisogno d'affetto non può essere uno scopo, ma
deve essere un mezzo per realizzarsi: per essere nel mondo, per
creare e proiettare i valori ritenuti validi. Nella società le donne
e i poveri sono convinti che il loro scopo sia quello di soddisfare i
bisogni primari, le une di affetto e sicurezza, gli altri di
benessere e sicurezza. Gli uomini e i dirigenti tengono per sé gli
scopi più alti e di tipo trascendente.
Suzy -
Certo, però non vedevo gran differenza tra le aspirazioni vostre e
quelle delle altre ragazze della vostra età. Anche voi volevate
andare a ballare, trovare il fidanzato, e in quella fase non vi
interessavano le attività che si facevano al sabato sera nella
comunità, e che volevano essere un'alternativa a quello che offre la
società dei consumi per divertirsi e non per rigenerarsi. Però
penso che questo disinteresse non fosse naturale, ma imposto dal
resto della società. Per le ragazze che stavano fuori dalla comunità
non c'erano altre alternative, mentre per voi si trattava di una
novità, di una cosa diversa che volevate sperimentare e che poi
avete lasciato perché non vi interessava.
Edda - È
chiaro che il contesto sociale in cui uno è costretto a vivere,
condiziona, alimenta o riduce la capacità di immaginazione, la
creatività. Alvaro e Martin possono immaginare un altro tipo di
società che anche rappresentano graficamente, perché il loro
contesto sociale primario li condiziona (Alvaro e Martin sono due
bambini della comunità di Stoccolma che hanno disegnato per un
giornale il quartiere del futuro. Nei loro disegni
appare tutta la rete di rapporti sociali, economici e politici
su cui si potrebbe reggere una società libertaria.
Vedi Comunidad n. 31/32, 1983. - S.R.).
Sylvia - Io
credo che le ragazze della comunità subissero le influenze della
comunità e dell'ambiente esterno, però non in modo cosciente.
Quando arrivai nella comunità avevo 15 anni e volevo avere quello
che avevano loro. La cosa che mi attraeva di più era il rapporto
diverso con gli adulti e la possibilità di fare delle scelte per
conto mio.
Edda - Io
penso che una delle cose più importanti era che nella comunità non
c'era alcuna differenza tra noi donne e gli uomini: non prestavamo
particolare attenzione né all'abbigliamento né all'igiene. In
generale eravamo tutti molto austeri. Adesso ho la sensazione che
abbiamo esagerato un po'.
Laura - Era
solo una reazione alla vuota frivolezza che esiste nella società,
nel suo vendere un'immagine. La nostra idea era quella di mostrarci
come eravamo e i rapporti nascevano dal fatto di sentirsi partecipi
delle stesse idee, degli "altri", di dividere e dividersi. Il rapporto fra
uomini e donne era molto bello perché si poteva creare insieme e non
perché ci si conquistava a vicenda. Il valore stava nel fare non nel
possedere. Forse per questo era importante avere figli. Non c'era
nessuno che immaginasse di non avere figli.
Edda - Voi
che non siete state educate nella comunità, avete pensato sul serio
che la vostra massima aspirazione era quella di sposarvi e di avere
figli?
Sylvia -
Forse non direttamente, non razionalmente. Però era sempre presente.
Per me uno dei problemi più importanti nella pubertà era l'inizio
dei rapporti sessuali. La mia famiglia non era molto repressiva,
sembrava quasi che la sessualità degli adolescenti fosse per loro un
concetto acquisito. Tuttavia, come donna, la società era molto
feroce e anche se nessuno me lo diceva, io avvertivo che avere
rapporti sessuali prima del matrimonio non era permesso. Questo
implicava necessariamente il bisogno di sposarsi. Credo che la
stragrande maggioranza delle ragazze della mia età, anche se erano
militanti o manifestavano le idee più diverse, condividevano questo
pregiudizio. Al contrario, nella comunità, anche se questo problema
era sentito (quando le ragazze avevano rapporti con ragazzi di fuori)
loro stesse lo vivevano in un altro modo. Non
esisteva il concetto di "colpa", anche se affrontare l'ambiente
esterno era difficile. Si sapeva che nella comunità la sessualità
degli adolescenti era accettata.
Laura - Non
era solo accettata: era appoggiata. Ricordo che c'erano riunioni di
adolescenti a cui partecipavano anche gli adulti della comunità,
dove si affrontavano questi problemi e questi conflitti. Fu
un'esperienza unica, di inestimabile valore. Mettevamo in comune il
nostro vissuto e questo era molto importante, anche se non risolveva
tutti i problemi. Dopotutto non eravamo dei santi!
Sylvia - Sì,
il gruppo degli adolescenti arricchiva tutti moltissimo, sia maschi
che femmine. Per esempio, la discussione sui primi rapporti sessuali,
le gravidanze non volute, l'esperienza dell'aborto, la maternità e
la possibilità di condividere quello che vi succedeva come donna e
come uomo.
Il dialogo con
gli adulti
Suzy -
Quando le ragazze cominciarono ad avere rapporti sessuali, avevano
molte persone adulte con cui parlare, con cui confrontarsi. C'erano
alcuni compagni delegati a questo che non erano scelti dai giovani,
per cui poteva capitare di trovarsi davanti ai propri genitori, nel
qual caso però, ci si poteva rivolgere ad altri adulti. Quello che
non capisco è perché voi, molte volte, sceglievate di avere
rapporti al di fuori della comunità, quando invece avevate la
possibilità di portare i ragazzi lì, e sarebbe stato certo più
sicuro: vi sareste esposte di meno al giudizio del quartiere, se non
altro. E non facevate così solo di fronte al problema sessuale, ma
anche di fronte a quello dello studio e del lavoro. Avevamo
senz'altro qualcosa che non rispondeva alle vostre necessità.
Edda - Forse
questo avveniva anche perché i ragazzi non condividevano l'impronta
ideologica della comunità, e a prescindere dal fatto che le ragazze
avevano appreso un altro modo di rapportarsi agli altri, non era
facile trovare ruoli complementari.
Laura - E i
ragazzi dovevano andare fieri delle loro conquiste, a quanto pare.
Per esempio Mo., che si definiva rivoluzionario, racconta che venne
alla comunità perché lì le ragazze erano facili. Però arrivavano
lì e si rendevano conto che non era così facile come loro
pensavano. Noi ragazze esigevamo da loro ruoli e comportamenti del
tutto diversi da quelli a cui erano abituati e questo creava loro un
sacco di contraddizioni. Ad ogni modo, quando i nostri amici venivano
alle feste del sabato in cui c'erano dibattiti e si ballava, non lo
facevano per andare a caccia, ma penso che si divertissero molto lo
stesso. La maggior parte dei ragazzi che parteciparono a queste
attività che la comunità organizzava il sabato sera, rimase colpita
dal fatto che si potevano stabilire altri tipi di rapporti. Abbiamo
potuto verificarlo con persone che abbiamo incontrato durante
l'esilio, dieci anni dopo, che ancora ricordavano quei momenti.
Suzy - Il
problema per gli adulti era un altro: cosa succedeva quando
arrivavano i ragazzi? Nella comunità si accettava l'idea che i
giovani avessero rapporti sessuali, pero non volevano che si venisse
alla comunità perché le ragazze erano facili: questo sviliva tutto
quello che noi volevamo trasmettere.
Laura -
Credo che questo rimanesse chiaro nel proprio rapporto. Il
pregiudizio esisteva, ma nel rapporto si andava trasformando.
Sylvia - E i
ragazzi dovevano comunque rivedere il loro ruolo di "maschi", perché
con noi non funzionava. Si trovavano di colpo in un pasticcio
tremendo. Io mi avvicinai alla comunità con un gruppo di Giovani
Libertari. Andavamo spesso alla comunità, in parte per motivi
ideologici, e forse, i maschi, anche perché erano molto affascinati
dalle ragazze della comunità. Ricordo che noi donne del gruppo
libertario eravamo intoccabili, dovevamo essere vergini di ferro.
Militanti, però non donne. Uno dei ragazzi del
gruppo ebbe un rapporto fugace con una ragazza della comunità. Il
problema fu affrontato dal gruppo di adolescenti della comunità come
si faceva di solito: e questo indusse anche il Gruppo Libertario a
fare lo stesso. Fu per noi (del Gruppo Libertario) un'esperienza
molto importante. Ci fece mettere in discussione molti schemi nostri
sulla relazione tra i sessi, inoltre il contatto con le ragazze della
comunità ci fece sperimentare concretamente il fatto che la vita
quotidiana e le idee non possono rimanere due realtà separate.
Suzy -
Ricordo il tuo primo fidanzato, Laura. Era un ragazzo di borgata e la
vita della comunità era per lui come un altro pianeta, come se noi
parlassimo un'altra lingua. Per lui tutto risultava complicato, era
un "vero uomo", la sessualità non era neanche un problema, non
c'era niente da cambiare.
Laura - Io
mi sono sempre sentita molto appoggiata dalla comunità. Non andavo a
letto con un ragazzo perché ero "obbligata", o non lo rifiutavo
perché non potevo farlo, ma in quel momento era una mia scelta, ero
io che ritenevo importante quel rapporto (all'ora avevo 15 anni).
Credo che anche le altre ragazze della comunità la pensassero allo
stesso modo. Però il conflitto di cui parla Suzy era reale: noi
volevamo avere un rapporto "perché di sì", noi cercavamo il
compagno, l'amico. Ci sentivamo protette, sapevamo che eravamo
libere e che questo implicava delle responsabilità. Noi non avevamo
le idee confuse, anche se spesso ci comportavamo in modo confuso.
Sapevamo che non c'era motivo di essere come gli altri si
aspettavano che fossimo, ma che potevamo scegliere.
Edda - Io
penso che la cosa più importante sia considerare i risultati a cui
si giungeva vivendo in gruppo, la differenza tra l'avere un gruppo di
perone della stessa età e di età diverse, o di adulti diversi a cui
fare riferimento.
Sylvia - Per
me, come adolescente, la cosa più importante fu avere molti adulti
su cui contare. Quando si è adolescenti ci si crede molto
indipendenti, però in realtà è il momento in cui si ha più
bisogno degli adulti.
Edda -
Inoltre si ha bisogno di dimostrare ai propri genitori che si è
indipendenti.
Suzy - Anche
per i bambini il mondo si amplia. Non hanno solo il papà e la mamma,
come figure di riferimento. Nella comunità avevano la possibilità
di avere rapporti molto vari con gli adulti, non come succede
all'interno della famiglia tradizionale.
Laura -
Quando avevamo 12 o 13 anni, nella comunità si discuteva
intensamente di problemi come il rapporto uomo-donna, l'amore, la
sessualità. Anche noi giovani parlavamo e lo facevamo con estrema
serietà, cosa che arricchiva enormemente tutti. Non si faceva altro
che parlare di rapporti sessuali. Però le ragazze della nostra età,
fuori, non le consideravano un argomento fondamentale della vita.
Noi invece discutevamo e soffrivamo: il problema non era tanto se
avere rapporti sessuali o no, ma sapere cosa questi implicavano. Il
problema era l'amore, il donarsi, l'apprendere a stare con l'altro.
Essere donna
nella comunità
Edda -
Quando si cerca di parlare della donna in una struttura libertaria è
difficile farlo senza ricorrere al confronto. Cioè, la donna dentro
e fuori dalla comunità. È
facile parlare in linea astratta, mentre è molto importante
considerare i cambiamenti vissuti nella realtà. Io mi sono resa
conto che vivere con gli altri implica più responsabilità, ma è
anche fonte di maggiori possibilità e risorse. Una delle cose che
ritengo più difficili è il passaggio tra la fase individuale e
quella collettiva. Per esempio, c'è una tendenza iniziale
all'irresponsabilità, a sottovalutare le cose che appartengono anche
agli altri.
Laura
e Ann-Lis - In questo passaggio, c'è qualcosa
che riguarda esclusivamente la donna?
Edda
- Le donne, per tradizione storica, sono più legate alle cose
materiali.
Laura - Sì,
per la maggior parte delle donne, vivere in una comunità è qualcosa
di minaccioso: perdono i loro possessi. Non sono più loro a dominare
le cose ma sono le cose a dominare loro. Ed è lo stesso per i loro
rapporti.
Suzy -
Non so se questo riguarda esclusivamente la donna. Credo che il
problema sia capire che le cose in comune sono della comunità, ma
che la comunità siamo noi. In effetti, quello che si vive è
l'estraneità a ciò che è comune. E non solo nelle cose materiali
come i servizi, le pulizie, il cibo, ecc. La comunità, ciò che è
comune possono essere vissuti come la nuova "sposa", colei che si
assume la responsabilità di pulire quello che sporchiamo, colei a
cui raccomandiamo di mettere a posto. Però nella comunità questa
tendenza viene continuamente messa in discussione; qui la sfera
domestica non è esclusiva della donna, ma di tutti. Nella famiglia
invece, tutto questo, non solo non viene mai messo in discussione, ma
addirittura costituiste la regola.
Laura -
Nella famiglia è più definito: la donna pulisce, l'uomo usufruisce.
Edda -
Io credo che sia molto importante il ruolo della coppia e il
cambiamento cui è costretta entrando a far parte della comunità. S.
per esempio, viveva con C. prima di venire qui, poi sono entrati
nella comunità insieme.
Suzy - Io mi
sono sposata molto presto (18 anni) ed ero ammirata da tutti perché,
pur così giovane, sapevo essere una "vera donna": cucinavo,
tenevo la casa in ordine, seguivo molto i bambini. Ero l'orgoglio
della famiglia, insomma. La gente mi stimava e io mi sentivo
appagata. Sapevo fare tutto quello che può rendere una vita felice:
lavavo, stiravo, cucinavo, servivo a tavola e addirittura toglievo il
piatto a mio marito quando aveva finito. Lui, nel frattempo,
provvedeva economicamente lavorando. Quando ci
trasferimmo nella comunità tutto questo non mi serviva più a
niente. La cosa mi fece riflettere, ed era giusto che fosse così: le
cose importanti sono altre; i figli in comune, la proprietà in
comune. Pensavo: "Chi sono io allora? Io sono la madre dei miei
figli, non qualcosa in comune". E tutte queste cose che ora mi
sembrano banali, in quel momento erano fondamentali. Giunsi ad una
situazione molto angosciante. Tutto quello che avevo imparato fuori
non aveva senso nella comunità: i vecchi ruoli non mi servivano e
quelli nuovi non li conoscevo ancora. Carlos, anche se nella comunità
"si sentiva perso", da uomo tradizionale qual era, cercò di
aiutarmi, ma io non capii e reagii male. Arrivando alla
comunità scoprii che la gente poteva vivere in un altro modo.
Bisognava dare un taglio col ruolo che la donna aveva sempre avuto
nella società. Io cominciai a lavorare nella tipografia, e Carlos in
cucina e in mensa. È
molto difficile descrivere tutti i cambiamenti che ho vissuto.
Laura - Che
ruoli nuovi dovevi affrontare?
Ann-Lis
- E quali dovevi lasciare?
Ma gli uomini
partecipavano di più
Suzy -
Mi accorsi che nella comunità, donne e uomini avevano le stesse
responsabilità: non c'erano lavori "maschili" o "femminili".
Prima era Carlos che mi dava la paga con cui io mandavo avanti la
casa, però l'Economia con la E maiuscola era solo sua. Adesso
invece, l'economia è un problema di tutti: quanto produrre, quanto
consumare, come distribuire e realizzare i vari compiti. Anche
nell'educazione le diversità erano sostanziali: dovevo educare i
miei figli insieme ad altri figli, dovevo assumermi la
responsabilità di tutti i bambini e in modo cosciente: scegliere
cosa comunicare, come agire. Non era solo quello che avevo imparato:
qualcosa mi usciva con la massima spontaneità. Anche rispetto al
problema economico dovetti cambiare il mio modo di vedere: non si
trattava solo di pensare al consumo e alla produzione, ma bisognava
anche fare progetti. A volte non c'erano molti soldi, però si
decideva lo stesso di mandare i bambini in campeggio perché questo
era ritenuto più importante di altri bisogni materiali. Questo per
me era motivo di conflitto: io non pensavo che la realizzazione di
progetti di quel genere fosse più importante delle necessità
primarie e immediate; o che le necessità primarie fossero altre,
scelte in funzione di valori prestabiliti. Non è vero che i bisogni
sono gli stessi per tutti. Due compagni della
comunità si riunivano con noi che stavamo facendo esperienza per
integrarci. Parlavano di decisioni da prendere, di progetti
collettivi. Anche se adesso mi pare ovvio, fu lì che mi resi conto
che si può anche farsi un programma di vita, che non necessariamente
la forma di vita data (anche quello un "programma di vita") è
naturale, ma che è anche una scelta e come tale si può cambiare.
Però in quel momento non lo potevo capire del tutto. Avevo una
grande confusione. La vita lì era così diversa! La cosa importante
non erano i vari ruoli sociali che riscoprivo, ma ero importante io
come persona e gli altri per me. Si trattava di un progetto sociale
di vita, non era il mio piccolo mondo in cui avevo vegetato fino a
quel momento. Fu una crescita enorme. Ma in quel momento
non riuscii a sopportare tanti cambiamenti. Non sopportai i miei
nuovi ruoli. Interruppi quell'esperienza. Me ne andai dalla comunità.
Però ormai avevo capito quali erano i problemi e non potevo tornare
indietro. Il passato non mi serviva più, il futuro mi spaventava.
Passò un po' di tempo. Sorse una nuova forma di esperienza di
integrazione al progetto comunitario: "la provetta", un gruppo di
giovani (che avrebbe fatto un'esperienza di vita in comune in un
altro posto fisico) a cui interessava molto la comunità, ma non per
integrarsi, solo per chiarirsi le idee. Nella comunità
c'erano diversi livelli di partecipazione alla assemblea: c'erano gli
"integrati", cioè quelli che avevano già deciso di rimanere
nella comunità, quelli che vivevano nella comunità facendo
un'esperienza di integrazione e che però non partecipavano alle
assemblee, e la "provetta", cioè quelli che vivevano
l'esperienza autonoma. La "provetta" non mi sembrava tanto
minacciosa come la comunità. Lì eravamo tutti uguali. Allora mi
decisi a prendervi parte di nuovo, però in un altro modo. Durante
questo periodo avevamo una riunione settimanale con gente della
comunità e con una psicologa che lavorava con noi in dinamica di
gruppo. Alla fine di quest'esperienza mi dichiarai favorevole alla
vita comunitaria. Però, che io volessi non voleva necessariamente
dire che io sapessi vivere con gli altri. Nella "provetta"
eravamo molto esigenti. Per esempio, c'erano due compagni che alla
fine dell'esperienza si erano definiti favorevoli alla comunità,
però la maggior parte di noi riteneva che non fossero adatti ad una
vita in comune o che non fossero abbastanza maturi per farlo. La
comunità al contrario, non li ostacolò affatto: era molto più
indulgente di noi. Uscimmo tutti molto fortificati da
quell'esperienza: più maturi come persone e anche come coppie o nei
nostri rapporti affettivo-sessuali. Tuttavia, a livello di coppia,
anche se uomini e donne avevano le stesse potenziali possibilità,
gli uomini erano capaci di una partecipazione politica più attiva.
Edda - Però
anche loro dovevano mettere in discussione i loro ruoli tradizionali:
era implicito nella struttura organizzativa della comunità. Anche se
può sembrare incredibile, quando io me ne sono andata dalla comunità
col mio compagno, eravamo le stesse persone di prima, eppure lui non
lavava più i piatti.
Suzy - Per
me e Carlos (il mio compagno) nacque un conflitto tremendo tra i
ruoli vecchi e quelli nuovi. I ragazzi erano più preparati, avevano
più esperienza politica e pur non volendolo, si notavano grosse
differenze all'atto pratico.
Ana - Però
la partecipazione ad attività di progettazione veniva decisa dalla
comunità. Non era la comunità che decideva a chi affidare i
compiti, se agli uomini o alle donne?
Suzy - Sì,
quando lavoravamo con il sindacato dei tagliatori di canne da
zucchero nel nord dell'Uruguay, vennero scelte due compagne.
Edda - È
vero che gli uomini si dedicavano di più ad attività
tradizionalmente chiamate "politiche". Ruben, il mio compagno,
arrivava spessa tardi ai gruppi di lavoro per questo motivo però io
non lo vivevo come una differenza tra uomo e donna. Era più che
altro un conflitto tra funzioni: tra il lavoro in tipografia, come
attività produttiva, e il lavoro in casa, semplice attività
domestica. C'era una specie di antagonismo tra un'attività e
l'altra. E questo si ripercuoteva sulla quantità di tempo che si
dedicava a una o all'altra, a seconda del gruppo a cui si apparteneva
in quel turno. Però non era un conflitto uomo-donna, era un
conflitto di funzioni, visto soprattutto che ogni elemento della
comunità, in rotazione, avrebbe svolto prima o poi tutte le
mansioni, ed era curioso notare che il problema sussisteva anche
quando cambiavano le persone, fossero indifferentemente uomini o
donne.
Essere incinta
era un privilegio
Laura - La
maggior partecipazione verbale o ad attività pubbliche degli uomini,
non era dovuta anche al fatto che loro erano più preparati?
Suzy - Sì,
ma non bisogna neanche dimenticare che molti di loro non volevano che
le cose cambiassero. Quando io cominciai ad avere le idee più
chiare, a non essere sempre d'accordo e a manifestarlo, il primo che
si dimostrò contrariato fu proprio il mio compagno.
Sylvia -
Penso che ad ogni modo le cose siano cambiate col tempo. Attualmente
a Stoccolma non si notano queste differenze e se ce ne sono, è
perché le donne sono più attive degli uomini, più militanti. Forse
questo dipende anche dal fatto che apparteniamo ad una generazione
più giovane, figlia non solo della comunità ma anche del movimento
femminista.
Suzy - Nella
comunità, essere incinta era un "privilegio": si prendevano cura
di te, ti seguivano e tutti vivevano in attesa del nuovo nato. Allo
stesso tempo noi, quando eravamo incinte, non volevamo che si
considerasse la gravidanza come una situazione speciale e volevamo
mantenere il ritmo di lavoro di sempre. La gravidanza comunque, aveva
un grande valore nella comunità. Io, che ho provato ad essere
incinta sia dentro che fuori dalla comunità, posso dire che la
differenza è sostanziale. Era come se nella comunità, il fatto
stesso di sentire che la vita aveva senso, ci portava a desiderare di
avere dei figli. Gli uomini vivevano
il periodo della gravidanza nei modi più diversi: alcuni non si
rendevano conto che quest'esperienza implica un cambiamento a livello
fisiologico nell'organismo della donna e pretendevano troppo da lei.
Altri esageravano in senso opposto e non ti lasciavano fare niente.
Però tutto questo era un continuo motivo di discussioni da cui
ognuno di noi imparava molto. Credo che tutti fossero disposti a dare
il meglio di sé. Quando nacque
Emiliano, mio figlio, nella comunità, fu bellissimo: tutti
parteciparono con grande entusiasmo all'evento. Diaz che era stato
tagliatore di canna da zucchero e proveniva da un ambiente contadino
- dove i ruoli tradizionali sono molto ben discriminati - nella
comunità lavorava nella lavanderia, e si irritava se qualcuno degli
altri compagni che lavoravano lì, non faceva venire i pannolini
bianchissimi come faceva lui. E, invece, si sedeva su una seggiola a
capotavola, in mensa, e tutti quelli che passavano si sentivano in
dovere di dirgli qualcosa, di salutarlo. Lui rimaneva impassibile e
continuava a guardare gli altri che si muovevano e faticavano intorno
a lui.
Ann-Lis -
Rimanere incinta nella comunità, dove l'essere umano è un bene
tanto prezioso, è un'esperienza meravigliosa. Tutti condividono la
tua attesa, e tu ti senti rivalutata sia come donna che come essere
umano.
Suzy - Mi
ricordo che in un'epoca in cui c'erano molte compagne incinte,
facevano tutte insieme esercizi preparatori al parto. Anche i bambini
partecipavano e così si abituavano gradatamente ad accettare quanto
stava accadendo. Anche loro si modificavano per ricevere il nuovo
nato. In qualche modo, si facevano anche un'idea di come erano stati
attesi loro. Quest'esperienza
dipendeva anche dal rapporto che c'era tra i due nella coppia e tra loro e il resto della comunità. Se
non era buono, anche la gravidanza ne risentiva: l'entusiasmo non era
lo stesso.
Fare figli o no?
Sylvia -
Nella comunità si discuteva (e lo si fa ancora adesso), quando
qualcuno voleva un figlio. Visto che il contesto sociale in cui
nasceva eravamo tutti noi, questo implicava il parere di tutti. La
decisione fondamentale spettava ai genitori, ma lo stesso si
condivideva la loro scelta e le loro motivazioni fin dall'inizio. Io che non sono
nata nella comunità, prima di entrare a farne parte "non amavo"
i bambini. Questa è una deformazione tipica della società in cui
viviamo, dove è frequente sentire espressioni del tipo: "A me non
piacciono i bambini", oppure "i vecchi". Viviamo conflitti
artificiali, che disumanizzano e che fanno pensare che anche le cose
più naturali, in realtà non lo sono. Cambiai questo mio modo di
vedere senza rendermene conto, solo perché nella pratica della
comunità la scala di valori era differente. Tutte le età venivano
valorizzate, e forse in modo particolare proprio quelle che nella
nostra società moderna sono le più emarginate: l'infanzia e la
vecchiaia. Un altro aspetto
interessante della vita della comunità è che dava molto da imparare
ad essere madre "prima" di avere figli, attraverso l'esperienza
vissuta in comune. C'erano sempre dei neonati nella comunità e
questo ci permetteva di imparare a fare il padre e la madre prima
ancora di esserlo.
Edda -
Quando fondammo la comunità, la sensazione stessa di stare creando
un mondo diverso ci faceva amare i bambini. Una cosa era diretta
conseguenza dell'altra. Imparammo a trattare con i bambini attraverso
un processo fatto di varie tappe. I compagni che entrarono in
seguito, in qualche modo ereditarono tutto questo. All'inizio il
rapporto con i bambini era più "teso", perché non avevamo
ancora chiarito con noi stessi il concetto di rapporto con i figli.
Aspettare un figlio insieme fu una liberazione per tutti: per i
bambini, per i genitori e per me come donna. Il fatto che il rapporto
di coppia nella comunità avesse un senso completamente diverso,
influiva inoltre moltissimo. Io penso che ci sia una stretta
relazione tra potere e sessualità. Nella comunità siccome né la
vita sociale, né quella economica, né quella politica si basavano
sulla coppia, il rapporto tra due compagni era determinato dalle loro
affinità e dalla loro reciproca attrazione. Gli altri problemi non
pesavano sulla coppia, ma sulla comunità.
Suzy - Dopo
il parto, noi madri non eravamo tenute a lavorare finché non ci
sentivamo in grado di farlo. Era straordinario poter partecipare ai
lavori che si facevano e non rimanere invece isolate in un mondo
esclusivo come quello madre-figlio. Ci si sentiva molto meglio,
perché si sapeva che non c'era nessuna "costrizione", ma che si
poteva continuare a far parte del mondo che continuava ad andare
avanti. Dopo, abbastanza in fretta, era la comunità ad occuparsi del
bambino. La madre faceva qualche lavoro che le permettesse di
continuare ad allattare il più a lungo possibile e di continuare a
mantenere un rapporto molto intenso con il figlio per tutto il tempo
necessario. Quella che secondo
me era la differenza sostanziale rispetto alla gravidanza vissuta
fuori, era che nella comunità l'esperienza pre e post-parto era
considerata una condizione privilegiata però non speciale: era
perfettamente integrata al resto del mondo ed essere madre non era
una trasformazione totale ed inesorabile, non voleva dire rimanere
tagliata fuori da attività di informazione, ecc. In seguito, dopo la
realizzazione di queste interviste qui riportate, Laura ebbe una
figlia nella comunità di Stoccolma. Il parto avvenne in casa, con la
presenza di tutti i membri della comunità, compresi i bambini.
Dopodiché ci riunimmo per valutare che cosa aveva significato per
tutti la partecipazione diretta al parto. Forse l'elemento
fondamentale fu il fatto in sé di partecipare a questo evento così
naturale e al tempo stesso così meraviglioso. Come se quello che
prima era stato considerato come qualcosa di magico e misterioso, ora
diventasse una parte integrante della vita di tutti: non più solo
misterioso dunque, ma solo meraviglioso. Per le donne
significò una rivalutazione del loro corpo, della capacità di dare
la vita e della sessualità. Gli uomini, grazie a questa esperienza,
ebbero la possibilità di demistificare il parto considerato fino a
quel momento come mistero "oscuro" e in qualche modo
"pericoloso", accese in loro una specie di sana invidia
compensata dal fatto di partecipare all'evento. Forse il
cambiamento più profondo avvenne nei maschi preadolescenti - figli
della comunità - che in modo del tutto naturale e piacevole vissero
contemporaneamente un rapporto con la sessualità, con la maternità,
con il corpo femminile e con la loro potenzialità di futuri padri. Ad ogni modo, il
parto vissuto e condiviso da tutti, acquisisce un valore simbolico,
dove la differenza tra il "maschile" e il "femminile" si
delinea molto chiaramente, affermandosi come positiva e
complementare.
(tavola-rotonda
curata e trascritta da Sylvia Ribeiro, tradotta da Tiziana Tosolini)
La coppia nella
comunità
Amore è volere
la libertà, la completa indipendenza dell'altro; il primo atto di
vero amore è l'emancipazione completa di colui che si ama. Non c'è
un modo più totale di amare un altro che quello di farlo sentire
completamente libero e indipendente, non solo da tutti gli altri, ma
anche e soprattutto da colui da cui si è amati e che si ama, perché,
se quando amiamo cerchiamo la dipendenza di colui che amiamo, allora
amiamo una cosa e non un essere umano, perché l'unico valore che
distingue l'essere umano dalle cose è la libertà; e se l'amore
implicasse anche la dipendenza, sarebbe la cosa più pericolosa e più
infame del mondo, perché in quel caso sarebbe una fonte inesauribile
di schiavitù e di abbrutimento per l'umanità. In ogni vero rapporto
d'amore, la fiducia deve essere totale.
(Michele Bakunin)
Il rapporto tra
compagni si basa su una reciproca promessa di lealtà, ossia su un
impegno della volontà. Qualsiasi condizionamento esterno è falso.
Lo spazio contenuto dall'abbraccio tra un uomo e una donna è il
"luogo" di questa autenticità. E siccome è un "luogo" che
non appartiene a nessuno dei due, lo stesso accadrà per i figli
scaturiti da lui e in lui, e sono proprio quegli stessi figli la
sintesi di quell'amore, di quella fiducia, la proiezione, la
continuazione di quella vita. La coppia, allora,
non appare più come una calda tana dove fuggire, in cui rifugiarsi o
diventare passivi, ma come il nucleo più piccolo in cui trovare la
forza per prendere la spinta necessaria per vivere e lottare. Per poter
analizzare la coppia nella comunità useremo come metodo il confronto
con la famiglia tipo borghese per evidenziare meglio le differenze ed
anche per capire il motivo dei nostri fallimenti e dei nostri
successi. La comunità, visto
che la produzione e il consumo sono in comune, sostituisce la
famiglia nel suo ruolo di unità economica di base che questa,
automaticamente, viene a perdere. La parità tra uomo e donna, che
c'è nella comunità, ha distrutto le fondamenta del patriarcato,
pertanto il fattore economico non è più dominante nella formazione,
nel mantenimento, o, nel caso peggiore, nel fallimento della coppia. Avendo risolto il
problema della dipendenza economica, legale e spirituale, della donna
rispetto all'uomo e al fattore economico (che nella coppia borghese
può arrivare ad essere l'elemento decisivo per il mantenimento della
struttura famigliare anche quando ognuno dei due coniugi ha la
coscienza che la struttura non ha più senso), la coppia della
comunità poggia su basi personali concrete e non su una struttura
economica e impersonale. L'amore, il
desiderio di generare non solo figli, ma anche dei vincoli per una
vita di cameratismo, di solidarietà emotiva e spirituale, sono i
punti di partenza della coppia nella comunità e i suoi unici
fondamenti. Naturalmente sarebbe assurdo sperare che questo
garantisse che la coppia nella comunità sia sempre ineccepibile e
che la sua vita interna sia perfettamente armoniosa. L'eliminazione del
fattore economico permette però che la scelta dei coniugi sia più
obiettiva. Una buona professione, l'appartenere ad una classe
privilegiata ed il benessere economico non sempre sono sufficienti
per definire un "buon partito". Tutto dipende dalle persone e non
dalle cose: dalle persone come in realtà sono, senza le
sovrastrutture che sono così determinanti in questo tipo di scelte
all'interno di una società capitalista. Questo fattore
(economico) è uno degli elementi più importanti che differenziano
nettamente la coppia della comunità dalla coppia borghese, perché
anche nel caso che si arrivi alla scelta di una separazione (dopo che
se ne è discusso in gruppo) lo si può fare senza essere influenzati
dal terrore di quello che può succedere in futuro: basterebbe
infatti che i due si spostassero in camere separate. Per il resto
continuerebbero i loro lavori, conservando il loro posto all'interno
della comunità. Molte situazioni
conflittuali delle coppie che entrano nella comunità sono quasi
sempre legate al fattore economico, e dal momento in cui entrano a
far parte della comunità, questo fattore scompare come motivo
determinante e mette la coppia nelle condizioni di considerare, con
la massima lucidità, quali sono le reali responsabilità di
entrambi. Qui, dove uno
più uno / siamo molti / e a prescindere da questo / siamo sempre
pochi, / due, oggi, sono un'altra cosa / sono un NOI. E LÌ, in
questa unione / sta il segreto / di prendere la decisione / di essere
noi stessi, / spazio aperto e insaziabile / che vuole abbracciare /
il mondo intero.
(relazione
presentata al 2° Incontro Intercomunitario, Montevideo, 1969)
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Femminismo e anarchismo
Ecco il
riassunto dell'intervento che due compagne di Comunidad hanno fatto
nel corso della sessione "Vivere l'anarchia" dell'Incontro
anarchico internazionale (Venezia, settembre '84)
Chiarire le cause
della disuguaglianza tra uomo e donna nelle nostre società ci si
presenta come un compito difficile, se non impossibile, perché
equivale a trovare le sorgenti del Nilo, come dice Rossella Di Leo
nell'articolo omonimo (Volontà n. 3/83), ci si trova di fronte a
successive biforcazioni che si perdono in territorio inesplorato. Però tale
disuguaglianza è una realtà con cui ci scontriamo e, in quanto
protagoniste in essa coinvolte, dobbiamo provare a cambiarla. Un
cambiamento che, dal nostro punto di vista, deve comprendere la vita
pratica e la realtà immaginaria che non può rimanere separata dalla
necessità di modificare tutto il sistema in cui viviamo, di porre
fine alle relazioni di dominio dovunque si presentino. Per tale motivo,
riteniamo che tutte le riforme apparentemente egualitarie
affacciatesi nell'ambito della legalità statale, portino in sé una
contraddizione, e in genere abbiano avuto la funzione di integrare le
donne al lavoro salariato, nel sistema istituzionale vigente,
portando inoltre come conseguenza un intervento statale ancora più
precoce nell'educazione dei figli. Il che significa integrazione di
questa esigenza di cambiamento, di questa lotta per la liberazione
femminile, nei valori di un sistema simbolico maschile e fondato sul
potere dominio. È
urgente trovare, quindi, non solo forme di resistenza e di lotta, ma
anche di creazione e solidarietà. Creare fin d'ora le istituzioni
atte a prefigurare ciò che vogliamo, e all'interno di questo fine
cercare di ampliare quegli spazi che possono permetterci, a loro
volta, di ricostruire, trovare questo "immaginario scomparso",
apportando tutta la ricchezza dello specifico femminile. Per noi, questo ha
significato la scelta di una vita comunitaria. Una opzione dove tutti
i ruoli devono essere
ripensati in pratica. Così, abbiamo definito la comunità come una
matrice sociale in cui sia possibile educare e rieducarci, al tempo
stesso in cui siamo tale matrice. Un modello e anche un percorso,
poiché per tutto quanto detto prima, il cambiamento deve avvenire a
livello di tutta la società e quindi sarebbe impossibile al livello
particolare di un gruppo. Un compito
impossibile? Forse. Eppure, anche se densa di errori e
contraddizioni, continuando noi ad essere immersi e partecipi del
sistema che vogliamo cambiare, l'esperienza della comunità ci sembra
valida, perché appunto ci permette di coniugare in un unico verbo la
teoria e la pratica. E così, come donne, abbiamo la possibilità di
assumere i ruoli di madri, di amanti, di produttrici di idee e
valori, di persone che si dedicano all'autogestione, che partecipano
alla vita politica interna ed esterna della comunità, partendo da
una scelta sociale e non dal sacrificio personale, o abbandonando
anche di poco questo o quello di tali ruoli. La nostra
esperienza concreta si basa in parte sulla Comunidad del
Sur, gruppo comunitario originatosi nel 1955 a
Montevideo (Uruguay), e in parte sul gruppo Comunidad,
a partire dal 1977 a Stoccolma, in Svezia. Comunidad
ha 4 principi fondamentali:
- siamo libertari
a livello politico (decisionalità, ecc .). - siamo comunisti
a livello economico, secondo il principio "da ciascuno secondo le
sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni".
- siamo comunitari,
per quanto attiene al modello eco-urbanistico della nostra vita
sociale e dei suoi aspetti educativi.
- siamo
rivoluzionari, perché una comunità non basta, è necessaria
la trasformazione di tutta la società.
Sul piano
organizzativo, applichiamo la rotazione di tutti gli incarichi, sia
nel campo dei servizi che della produzione, abbiamo l'economia in
comune e cerchiamo di praticare l'autogestione in tutti gli aspetti
della vita. I bambini, come
diceva giustamente Bakunin, "non sono proprietà di nessuno, né
dei genitori, né della società, appartengono solo alla loro futura
libertà", ed è in questo senso che li consideriamo responsabilità
comune.
Laura Prieto Sylvia Ribeiro
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