Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 15 nr. 127
aprile 1985


Rivista Anarchica Online

Vivere è scegliere in ogni momento
di Sylvia Ribeiro

Prima per un ventennio a Montevideo. Poi, dopo alcuni anni di repressione carcere espulsioni ecc., a Stoccolma. Non c'è solo un filo ideale a collegare la Comunidad del Sur uruguayana all'esperienza di Comunidad in Svezia. Ci sono le vite vissute, le riflessioni, gli entusiasmi di chi ne è stato protagonista. Nella tavola rotonda che pubblichiamo nelle pagine seguenti sono le donne della Comunidad a raccontare, analizzare, dibattere la loro storia. Si parla di educazione, sessualità, famiglia, lavoro, coppia, gravidanza, bambini, emancipazione, ecc... Con la concretezza che deriva dell'esperienza diretta in un contesto davvero eccezionale.

Parlare della situazione della donna, già dalla scelta dell'argomento, implica una messa a fuoco, un punto di vista determinato. Il movimento femminista, in varie circostanze, ha rivendicato la necessità dell'analisi e del cambiamento della situazione della donna. Oggi, nel 1984, possiamo anche riconoscere che molte femministe che 15 anni fa parlavano di liberazione sessuale, di ridefinizione dei ruoli femminili e maschili, sono tornate su posizioni "conservatrici", soprattutto in relazione al problema dei figli (è di nuovo un valore rimanere a casa con i propri figli) o a quello del vuoto lasciato dai rapporti sessuali multipli (e che porta addirittura alcune femministe "storiche" a difendere la castità come valore). L'"impasse" giunge dopo alcuni trionfi immediati, dopo certe riforme legislative e un'accettazione relativamente benevola delle posizioni femministe. Però, quando le attiviste, davanti alla situazione attuale si chiedono "Che fare?", davanti a loro si apre solo la desolata prospettiva di continuare a battagliare col marito, a denunciare casi di violenza ed a occuparsi di bambini abbandonati o di cause di divorzio, compiti questi, molto più adatti ad un'assistente sociale che a una militante rivoluzionaria. Che fare quando, dopo aver conquistato gli ultimi baluardi legislativi e costituzionali, si ha lo stesso la sensazione che la situazione reale della donna non è affatto cambiata? (come scriveva Lidia Falcon sul quotidiano El Pais del 1.5.1983).
In questo senso l'eventuale originalità di questo articolo sta nel fatto che scaturisce da un'esperienza concreta, dal tentativo di gettare le basi per una società dove tutti i ruoli (femminili e maschili, professionali, politici ed economici) sono stati messi in discussione, e soprattutto dallo sviluppo nella prassi di altri ruoli e di altri valori, prima dei quali il tentativo di creare un immaginario sociale non-gerarchico che a sua volta si confronti continuamente con la prassi realizzata.
È necessario chiarire, tuttavia, che questa prassi è sempre stata circoscritta all'interno di una società quasi sempre nemica dell'esperienza realizzata, e che noi, che ne facciamo parte, siamo portatori di questo immaginario sociale gerarchico che rifiutiamo e che tentiamo di sostituire.
Il materiale che utilizziamo in questo articolo è dunque descrittivo di questa esperienza. Anche se non abbiamo effettuato un'elaborazione di tipo teorico, pensiamo che sia lo stesso valido e che forse possa servire da spunto per questa elaborazione.
Il gruppo che si è occupato della realizzazione di questo articolo ha come denominatore comune il fatto che tutti i membri hanno e/o hanno avuto un'esperienza di vita comunitaria, o nella Comunità del Sur (a Montevideo 1955-1975) o nel gruppo Comunità di Stoccolma.
Le partecipanti a questa tavola rotonda sono state: Edda (50 anni e 5 figli) e Suzy (36 anni e 3 figli) della Comunidad del Sur. Attualmente vivono sole. Anche Sylvia (27 anni), Laura (27 anni e 1 figlia) e Laurita (17 anni) hanno fatto parte della Comunidad del Sur e attualmente sono membri del gruppo Comunidad di Stoccolma insieme ad Ann-Lis (29 anni) e Ana (29 anni). Ad eccezione di Ann-Lis che è svedese, siamo tutte uruguayane.
Oltre alla trascrizione parziale delle conversazioni realizzate da questo gruppo di compagne, useremo documenti elaborati precedentemente nella Comunidad del Sur. Nelle conversazioni seguiamo le diverse tappe dello sviluppo di una donna: adolescente, donna adulta e madre nella comunità, dato che quando si parla del problema della donna nella nostra società, il più delle volte si fa riferimento alle adulte, trascurando tutta la fase precedente di socializzazione che invece è quella che condiziona i ruoli, i valori e il comportamento nell'età adulta.

Sylvia Ribeiro


Edda - Nella comunità non si faceva alcuna differenza tra maschi e femmine: a tutti piaceva correre, giocare e sporcarsi. Non c'era nessun atteggiamento speciale differenziato per nessuno, salvo casi di malattia o di altro tipo, ma non legati al sesso. In generale il comportamento dei bambini non era diverso da quello delle bambine, tranne il caso, per esempio, di T. che era molto delicata, cioè era molto femminuccia nel senso che si dà in genere al termine nella nostra società, tuttavia i suoi fratellini erano diversi.

Sylvia - Non si trattava forse di una sua caratteristica peculiare? Forse era solo più precisa, per esempio.

Laura - No, al contrario, lei era più maldestra degli altri: infatti non si lanciava nei giochi, non le piaceva sporcarsi, ecc... in realtà era debole. Credo che bisogna anche tenere presente l'influenza che può esercitare l'ambiente sui bambini: per esempio i vicini della comunità trattavano le bambine come "donnine" e questo fattore incideva moltissimo, o perlomeno ci condizionava. Quando facevamo il bagno nude i vicini ci dicevano che era male, che era immorale. Però, all'interno della comunità, io non ho mai notato atteggiamenti o attività diverse determinati dal fatto che si trattasse di bambini o di bambine.

Ann-Lis - Però gli adulti che facevano parte della comunità erano cresciuti all'interno della società e avevano necessariamente assimilato un concetto di "maschile" e di "femminile".

Laura - Questo è vero, però quando si discuteva insieme di questo problema e lo si analizzava, gli adulti dovevano tentare di operare un distinguo" tra quelle che erano le loro attitudini "spontanee (determinate cioè da un particolare tipo di educazione) e sforzarsi di non ripeterle, ma invece agire in funzione dei valori scelti. Inoltre, gli adulti che lavoravano direttamente con i bambini - nelle nostre attività quotidiane - erano proprio quelli che l'intera comunità considerava i più adatti per trasmettere questi valori comuni e questo lo si verificava continuamente nella commissione di educazione o nei sottogruppi di cui facevano parte anche i genitori biologici e quelli che lavoravano direttamente con i bambini. Voglio dire che a livello educativo non si favoriva la discriminazione tra un sesso e l'altro: l'atteggiamento degli adulti era sempre lo stesso.

Sylvia - Inoltre ci sono aspetti strutturali. Nel lavoro, nelle assemblee i bambini potevano imparare a vivere, dato che la partecipazione non era determinata dal sesso: nei lavori di casa erano impegnati sia uomini che donne. Lo stesso accadeva con le decisioni da prendere sui diversi aspetti della vita, come consumo e pianificazione: non erano basate sulla relazione sessuale (coppia), ma erano affidate all'assemblea dove ogni singolo esprimeva il suo parere. E tutto ciò costituisce una differenza fondamentale rispetto al modo di vivere della maggioranza dei bambini, dato che, per quanto avanzati siano i genitori di una bambina, la differenziazione dei ruoli (lavori di casa, dipendenza economica e affettiva) compare quotidianamente nella pratica.

Sylvia - Anche per i genitori l'esperienza globale della comunità voleva dire molto. I genitori biologici incontravano i figli dopo il lavoro e in quel momento erano liberi da qualsiasi impegno di altro tipo, per potersi dedicare interamente loro. Ciò significava che i genitori potevano stare con i loro figli e allo stesso tempo avevano la tranquillità di sapere che il resto funzionava anche senza di loro.
Quelli che non avevano figli avevano l'incarico di servire la cena o di svolgere altri compiti serali. All'ora di cena, qualcuno di quelli che non avevano figli accompagnava i bambini a letto (questo serviva ad arricchire il mondo sia dei bambini sia di questi adulti senza figli) e si fermava un po' con loro per leggere una favola o conversare. Il risultato finale era che, nel lasso di tempo in cui i genitori stavano con i loro figli, la loro disponibilità era totale e il loro rapporto non riceveva pressioni dall'esterno, ma era esclusivamente un rapporto di creatività reciproca.

Edda - Per una donna e madre tutto questo ha un'enorme importanza. Quando io me ne andai dalla comunità, sentii che il rapporto con i miei figli si stava impoverendo. Con Rafael, che è il mio figlio minore ed è venuto via dalla comunità insieme a me, la relazione fu diversa che con gli altri fratelli più grandi, per i limiti che comporta una vita familiare tradizionale. Per esempio, quando lui si faceva il bagno, voleva dire semplicemente farsi il bagno, mentre nella comunità questo significava allo stesso tempo giocare, stare con gli altri e scoprire il corpo degli altri, visto che i bambini facevano il bagno in tre o quattro alla volta. Inoltre, vivendo sola c'è poco da scegliere: bisogna cucinare, lavare, stirare e stare con i figli contemporaneamente, senza poter dedicare loro il tempo sufficiente per un rapporto del genere. Senza contare che ci sono anche meno possibilità di fare cose "personali, si è molto più legate agli impegni quotidiani che non possono essere rimandati.

Ma l'emancipazione è un'altra cosa

Sylvia - Io credo che questo sia uno dei punti in cui il movimento femminista ha fallito. Quando si esige l'emancipazione della donna, questo si traduce nella maggior parte dei casi nell'affidarle compiti produttivi o compiti che finora sono stati prerogativa dell'ambito maschile, cosa che - oltre al fatto di rivelare scarsità di immaginazione (il problema non è quello di raggiungere un livello di integrazione uguale a quello degli uomini, ma quello di rimettere completamente in discussione un sistema che permette l'esistenza di dominati e dominatori) - ricade soprattutto sui bambini che, infatti, restano o abbandonati a se stessi, o affidati a istituzioni che si occupano di loro sia in senso burocratico sia trasmettendo valori che riproducono in ogni caso il sistema. Il compito di educare, che storicamente era prerogativa della donna, passa quindi nelle mani dello stato, espressione tipica di un sistema di dominati/dominatori. Credo che questa conseguenza (peraltro non cercata) che la lotta di emancipazione ha determinato per i figli, sia stata una delle cause per cui ora alcune femministe esaltano di nuovo la vita in famiglia (che è una regressione), anziché cercare forme di collaborazione che tengano in considerazione sia la situazione della donna sia quella dei figli.

Ann-Lis - È recente il caso di due compagni che sono usciti dalla comunità per paura - soprattutto da parte di lei - che le sue figlie acquisissero maggior confidenza con altri adulti che non loro. Come reagiva la comunità davanti a problemi come questo?

Suzy - I timori esistevano e a volte i genitori si risentivano perché i loro figli avevano più confidenza con altri adulti che con loro. Anche a me questo dispiaceva, però fui costretta a cambiare atteggiamento quando fui arrestata e vidi che i miei figli erano in grado di stare con gli altri compagni e che questi trasmettevano loro la stessa sicurezza che gli avrei trasmesso io.

Laura - La comunità, per come è strutturata, trasmette valori particolari. Anche i genitori lo fanno, però a volte, con la loro vita, trasmettono valori contrari a quelli che affermano, non perché non credano in questi valori, ma perché, vivendo in famiglia, si riaffermano ogni giorno questa struttura, questo modo di concepire l'economia, il rapporto adulto-bambino, uomo-donna, ecc... Anche nella comunità succede lo stesso, per cui i valori che uno trasmette sono realmente quelli che mette in pratica tutti i giorni. Per questo credo che l'esperienza della comunità sia importante, anche se non ha raggiunto tutti gli obiettivi che si era prefissa e se contiene degli errori (cosa d'altra parte inevitabile in una fase sperimentale).

Sylvia - Come dice Nietzsche: "I fondatori di un movimento non sono mai un'argomentazione valida contro il movimento stesso".

Laura - Io penso che sia importante chiederci quello che si è chiesto Jaime Rojas Bernidez, autore argentino di psicodrammi che ha lavorato a lungo con la comunità per studiare le reazioni che determinava la vita di gruppo sulla personalità. Cosa succede realmente ai bambini della comunità? Una prassi comunitaria, una alternativa sociale vera e propria implica: una struttura, dei valori e una applicazione pratica di entrambi. Perché io credo che i valori siano stati assimilati, ma non altrettanto la capacità di organizzarsi per dar vita a questi valori in un contesto completamente diverso. Inoltre i valori non si possono trasmettere, se non si mettono in pratica. Per esempio, quello che diceva Edda: quando è andata a vivere sola col figlio ha conservato gli stessi valori, ma non poteva più realizzarli, non poteva più inserirli in pratiche sociali tanto diverse da quelle che sono alla base di un'educazione libertaria.
D'altro canto, aver assimilato valori quali la solidarietà e il rispetto per i bambini come individui che possiedono una vita e delle opinioni proprie, sono inestimabili. Io vivo come una grossa perdita il fato che Gaby, Adriana e Marcela (altre ragazze figlie della comunità che sono cresciute con me in Uruguay), non facciano più parte della comunità, perché le forze che avremmo insieme per trasmettere i valori di una vita nuova ai figli sono praticamente insostituibili, per noi i valori che contano sono la spontaneità e la conoscenza, che a differenza degli adulti che hanno fondato la comunità, abbiamo scelto, mentre loro dovevano lottare anche contro i falsi valori assimilati precedentemente. Per le ragazze cresciute nella comunità, "spontaneità" equivale a "saper vivere in gruppo".

Edda - Capisco cosa vuoi dire perché nutro lo stesso sentimento nei confronti dei compagni che se ne sono andati dalla comunità. Mi dispiace non poter lavorare con loro: è come se tutto questo lavoro di trasformazione fosse un'occasione d'oro lasciata scappare.

Ann-Lis - I bambini che conosco, nati nella comunità, sono chiaramente sia maschi che femmine. Tu, Laura, quando hai scoperto di essere una "femmina"?

I primi giochi sessuali

Laura - L'ho sempre saputo - da che mi ricordo - anche quando, da piccoli, si facevano i giochini a sfondo erotico. Dopodiché lo notai nei bambini della comunità più piccoli di me. Però fu solo a scuola che mi resi conto di come essere donna implicasse atteggiamenti determinati. I bambini "toccavano" le bambine, le trattavano in altro modo. All'inizio la cosa mi sbalordì, mi sembrò un atteggiamento strano, però in seguito noi bambine della comunità ci unimmo per difenderci. E così, mentre le altre bambine uscivano correndo, noi picchiavamo i maschi, e a quel punto erano loro che dovevano correre. Solo allora mi accorsi veramente che essere donna poteva significare qualcosa di speciale.

Edda - Voi, Laura e Laurita, vi ricordate dei primi giochi sessuali?

Laurita - Io mi ricordo che facevamo il bagno nude sul terreno della comunità e che i vicini si scandalizzavano.

Sylvia - L'esistenza di un contesto sociale antitetico ai valori della comunità è un dato di fatto. Sarebbe però interessante verificare se nella comunità si sviluppavano ruoli particolarmente condizionati dal fatto di essere uomo o donna. Cosa significava il fatto di vivere in una struttura sociale dove i ruoli non erano determinati dal sesso; per esempio il fatto che ci fossero donne addette al settore produttivo e uomini addetti ai lavori domestici? Voi che avete vissuto nella comunità da bambine, cosa volevate fare da grandi?

Laura - (Pausa di incertezza) Mah... Il fatto è che certe domande le facevano solo a scuola. E in quella situazione potevamo solo avere progetti uguali a quelli di tutte le altre bambine: maestra, hostess, ecc... Però, avevamo la sensazione che tutto questo apparteneva ad un "altro mondo", nella comunità non si parlava di queste cose, si parlava di cosa fare adesso, di cosa fare insieme, di come comportarsi nel presente.

Edda - Noi adulti non facevamo queste domande perché l'unica cosa importante era imparare a vivere in collettività. Il lavoro era del tutto secondario. Come dice il poeta spagnolo Leon Felipe "l'unico impegno importante è quello che insegna all'uomo a essere uomo".

Ann-Lis - Però il gruppo aveva un obiettivo: non creare discriminazioni tra maschi e femmine. Raccontaci ancora qualcosa su questo argomento.

Edda - Pensavamo le cose di cui stiamo parlando ora. In realtà le differenze non derivano dal fatto di essere uomo o donna, ma dalla capacità di essere se stessi e allo stesso tempo di esserlo con gli altri e sono altrettanto determinate dalla capacità o meno di essere solidali, di preoccuparsi dell'"altro" e dei beni della comunità. Tutto questo è la premessa per poter essere un membro cosciente di una società che si autogestisce. "Fuori" le donne, in generale, si preoccupano dell'abbigliamento, della casa, degli affetti. Gli uomini, dal canto loro, sembrano quasi "i proprietari delle idee", di quello che si produce, di quello che è razionale. Secondo noi bisognava capovolgere questo concetto e colmare questa frattura completandoci a vicenda. Tutti dovevamo sforzarci di cambiare. E tentavamo di applicare questo principio nell'educazione, nel rapporto diretto con i bambini e in quello tra noi adulti, che rappresentava un modello per i bambini.
Dopo alcuni anni dall'inizio dell'esperienza di "comunitarizzazione", il gruppo di compagni responsabili di questa iniziativa realizzò un test dove si cercava di capire come i bambini ponevano in relazione il fatto di essere maschio o femmina con determinati ruoli. Venne elaborato un questionario in cui si ponevano 6 domande aperte relative a: divisione del lavoro, interessi, rapporti con gli adulti, preoccupazione per l'aspetto esteriore, aggressività, sicurezza di se e tendenze.
Dai risultati dell'inchiesta non emersero grandi differenze di ruolo in rapporto al sesso, salvo per alcuni casi in cui si faceva riferimento ad attività che richiedevano un grande sforzo fisico (che secondo loro dovevano essere svolte dai maschi) e altri (non tutti) in cui si faceva riferimento all'aspetto esteriore, distinguendo tra quello dell'uomo e quello della donna.

Sposarsi? Nemmeno per idea

Sylvia - Non so se sarà una domanda capziosa. In classe mia, quando frequentavo il liceo, tutte le ragazze pensavano di sposarsi e in un modo o nell'altro, a volte dopo aver conseguito un titolo di studio, quello rimaneva l'unico scopo della loro vita.

Suzy - Era lo scopo che la società stabiliva in partenza per la donna: sposarsi e avere figli.

Laura - Per noi invece era chiaro: non avevamo nessuna intenzione di sposarci. Alcuni adulti della comunità si sposavano perché costretti dalla società, dalla famiglia, ecc. però per noi era chiaro che la nostra vita affettiva e sessuale doveva essere la manifestazione dei nostri sentimenti espressi nella massima libertà e mai mediati da qualcosa di estraneo a questo rapporto, come la Chiesa o lo Stato. Era altrettanto chiaro che qualsiasi rapporto implicava un compromesso sociale. Nella comunità il matrimonio, la decisione di due compagni di dare inizio ad un rapporto stabile, veniva riconosciuta e festeggiata, e questo era un modo di far partecipare gli altri, la comunità, a questa scelta e viceversa. Noi ragazzine sognavamo di avere un compagno o vari compagni, ma questo non era uno scopo in sé. L'appagamento del bisogno d'affetto non può essere uno scopo, ma deve essere un mezzo per realizzarsi: per essere nel mondo, per creare e proiettare i valori ritenuti validi. Nella società le donne e i poveri sono convinti che il loro scopo sia quello di soddisfare i bisogni primari, le une di affetto e sicurezza, gli altri di benessere e sicurezza. Gli uomini e i dirigenti tengono per sé gli scopi più alti e di tipo trascendente.

Suzy - Certo, però non vedevo gran differenza tra le aspirazioni vostre e quelle delle altre ragazze della vostra età. Anche voi volevate andare a ballare, trovare il fidanzato, e in quella fase non vi interessavano le attività che si facevano al sabato sera nella comunità, e che volevano essere un'alternativa a quello che offre la società dei consumi per divertirsi e non per rigenerarsi. Però penso che questo disinteresse non fosse naturale, ma imposto dal resto della società. Per le ragazze che stavano fuori dalla comunità non c'erano altre alternative, mentre per voi si trattava di una novità, di una cosa diversa che volevate sperimentare e che poi avete lasciato perché non vi interessava.

Edda - È chiaro che il contesto sociale in cui uno è costretto a vivere, condiziona, alimenta o riduce la capacità di immaginazione, la creatività. Alvaro e Martin possono immaginare un altro tipo di società che anche rappresentano graficamente, perché il loro contesto sociale primario li condiziona (Alvaro e Martin sono due bambini della comunità di Stoccolma che hanno disegnato per un giornale il quartiere del futuro. Nei loro disegni appare tutta la rete di rapporti sociali, economici e politici su cui si potrebbe reggere una società libertaria. Vedi Comunidad n. 31/32, 1983. - S.R.).

Sylvia - Io credo che le ragazze della comunità subissero le influenze della comunità e dell'ambiente esterno, però non in modo cosciente. Quando arrivai nella comunità avevo 15 anni e volevo avere quello che avevano loro. La cosa che mi attraeva di più era il rapporto diverso con gli adulti e la possibilità di fare delle scelte per conto mio.

Edda - Io penso che una delle cose più importanti era che nella comunità non c'era alcuna differenza tra noi donne e gli uomini: non prestavamo particolare attenzione né all'abbigliamento né all'igiene. In generale eravamo tutti molto austeri. Adesso ho la sensazione che abbiamo esagerato un po'.

Laura - Era solo una reazione alla vuota frivolezza che esiste nella società, nel suo vendere un'immagine. La nostra idea era quella di mostrarci come eravamo e i rapporti nascevano dal fatto di sentirsi partecipi delle stesse idee, degli "altri", di dividere e dividersi.
Il rapporto fra uomini e donne era molto bello perché si poteva creare insieme e non perché ci si conquistava a vicenda. Il valore stava nel fare non nel possedere. Forse per questo era importante avere figli. Non c'era nessuno che immaginasse di non avere figli.

Edda - Voi che non siete state educate nella comunità, avete pensato sul serio che la vostra massima aspirazione era quella di sposarvi e di avere figli?

Sylvia - Forse non direttamente, non razionalmente. Però era sempre presente. Per me uno dei problemi più importanti nella pubertà era l'inizio dei rapporti sessuali. La mia famiglia non era molto repressiva, sembrava quasi che la sessualità degli adolescenti fosse per loro un concetto acquisito. Tuttavia, come donna, la società era molto feroce e anche se nessuno me lo diceva, io avvertivo che avere rapporti sessuali prima del matrimonio non era permesso. Questo implicava necessariamente il bisogno di sposarsi. Credo che la stragrande maggioranza delle ragazze della mia età, anche se erano militanti o manifestavano le idee più diverse, condividevano questo pregiudizio. Al contrario, nella comunità, anche se questo problema era sentito (quando le ragazze avevano rapporti con ragazzi di fuori) loro stesse lo vivevano in un altro modo. Non esisteva il concetto di "colpa", anche se affrontare l'ambiente esterno era difficile. Si sapeva che nella comunità la sessualità degli adolescenti era accettata.

Laura - Non era solo accettata: era appoggiata. Ricordo che c'erano riunioni di adolescenti a cui partecipavano anche gli adulti della comunità, dove si affrontavano questi problemi e questi conflitti. Fu un'esperienza unica, di inestimabile valore. Mettevamo in comune il nostro vissuto e questo era molto importante, anche se non risolveva tutti i problemi. Dopotutto non eravamo dei santi!

Sylvia - Sì, il gruppo degli adolescenti arricchiva tutti moltissimo, sia maschi che femmine. Per esempio, la discussione sui primi rapporti sessuali, le gravidanze non volute, l'esperienza dell'aborto, la maternità e la possibilità di condividere quello che vi succedeva come donna e come uomo.

Il dialogo con gli adulti

Suzy - Quando le ragazze cominciarono ad avere rapporti sessuali, avevano molte persone adulte con cui parlare, con cui confrontarsi. C'erano alcuni compagni delegati a questo che non erano scelti dai giovani, per cui poteva capitare di trovarsi davanti ai propri genitori, nel qual caso però, ci si poteva rivolgere ad altri adulti. Quello che non capisco è perché voi, molte volte, sceglievate di avere rapporti al di fuori della comunità, quando invece avevate la possibilità di portare i ragazzi lì, e sarebbe stato certo più sicuro: vi sareste esposte di meno al giudizio del quartiere, se non altro. E non facevate così solo di fronte al problema sessuale, ma anche di fronte a quello dello studio e del lavoro. Avevamo senz'altro qualcosa che non rispondeva alle vostre necessità.

Edda - Forse questo avveniva anche perché i ragazzi non condividevano l'impronta ideologica della comunità, e a prescindere dal fatto che le ragazze avevano appreso un altro modo di rapportarsi agli altri, non era facile trovare ruoli complementari.

Laura - E i ragazzi dovevano andare fieri delle loro conquiste, a quanto pare. Per esempio Mo., che si definiva rivoluzionario, racconta che venne alla comunità perché lì le ragazze erano facili. Però arrivavano lì e si rendevano conto che non era così facile come loro pensavano. Noi ragazze esigevamo da loro ruoli e comportamenti del tutto diversi da quelli a cui erano abituati e questo creava loro un sacco di contraddizioni. Ad ogni modo, quando i nostri amici venivano alle feste del sabato in cui c'erano dibattiti e si ballava, non lo facevano per andare a caccia, ma penso che si divertissero molto lo stesso. La maggior parte dei ragazzi che parteciparono a queste attività che la comunità organizzava il sabato sera, rimase colpita dal fatto che si potevano stabilire altri tipi di rapporti. Abbiamo potuto verificarlo con persone che abbiamo incontrato durante l'esilio, dieci anni dopo, che ancora ricordavano quei momenti.

Suzy - Il problema per gli adulti era un altro: cosa succedeva quando arrivavano i ragazzi? Nella comunità si accettava l'idea che i giovani avessero rapporti sessuali, pero non volevano che si venisse alla comunità perché le ragazze erano facili: questo sviliva tutto quello che noi volevamo trasmettere.

Laura - Credo che questo rimanesse chiaro nel proprio rapporto. Il pregiudizio esisteva, ma nel rapporto si andava trasformando.

Sylvia - E i ragazzi dovevano comunque rivedere il loro ruolo di "maschi", perché con noi non funzionava. Si trovavano di colpo in un pasticcio tremendo. Io mi avvicinai alla comunità con un gruppo di Giovani Libertari. Andavamo spesso alla comunità, in parte per motivi ideologici, e forse, i maschi, anche perché erano molto affascinati dalle ragazze della comunità. Ricordo che noi donne del gruppo libertario eravamo intoccabili, dovevamo essere vergini di ferro. Militanti, però non donne.
Uno dei ragazzi del gruppo ebbe un rapporto fugace con una ragazza della comunità. Il problema fu affrontato dal gruppo di adolescenti della comunità come si faceva di solito: e questo indusse anche il Gruppo Libertario a fare lo stesso. Fu per noi (del Gruppo Libertario) un'esperienza molto importante. Ci fece mettere in discussione molti schemi nostri sulla relazione tra i sessi, inoltre il contatto con le ragazze della comunità ci fece sperimentare concretamente il fatto che la vita quotidiana e le idee non possono rimanere due realtà separate.

Suzy - Ricordo il tuo primo fidanzato, Laura. Era un ragazzo di borgata e la vita della comunità era per lui come un altro pianeta, come se noi parlassimo un'altra lingua. Per lui tutto risultava complicato, era un "vero uomo", la sessualità non era neanche un problema, non c'era niente da cambiare.

Laura - Io mi sono sempre sentita molto appoggiata dalla comunità. Non andavo a letto con un ragazzo perché ero "obbligata", o non lo rifiutavo perché non potevo farlo, ma in quel momento era una mia scelta, ero io che ritenevo importante quel rapporto (all'ora avevo 15 anni). Credo che anche le altre ragazze della comunità la pensassero allo stesso modo. Però il conflitto di cui parla Suzy era reale: noi volevamo avere un rapporto "perché di sì", noi cercavamo il compagno, l'amico. Ci sentivamo protette, sapevamo che eravamo libere e che questo implicava delle responsabilità. Noi non avevamo le idee confuse, anche se spesso ci comportavamo in modo confuso. Sapevamo che non c'era motivo di essere come gli altri si aspettavano che fossimo, ma che potevamo scegliere.

Edda - Io penso che la cosa più importante sia considerare i risultati a cui si giungeva vivendo in gruppo, la differenza tra l'avere un gruppo di perone della stessa età e di età diverse, o di adulti diversi a cui fare riferimento.

Sylvia - Per me, come adolescente, la cosa più importante fu avere molti adulti su cui contare. Quando si è adolescenti ci si crede molto indipendenti, però in realtà è il momento in cui si ha più bisogno degli adulti.

Edda - Inoltre si ha bisogno di dimostrare ai propri genitori che si è indipendenti.

Suzy - Anche per i bambini il mondo si amplia. Non hanno solo il papà e la mamma, come figure di riferimento. Nella comunità avevano la possibilità di avere rapporti molto vari con gli adulti, non come succede all'interno della famiglia tradizionale.

Laura - Quando avevamo 12 o 13 anni, nella comunità si discuteva intensamente di problemi come il rapporto uomo-donna, l'amore, la sessualità. Anche noi giovani parlavamo e lo facevamo con estrema serietà, cosa che arricchiva enormemente tutti. Non si faceva altro che parlare di rapporti sessuali. Però le ragazze della nostra età, fuori, non le consideravano un argomento fondamentale della vita. Noi invece discutevamo e soffrivamo: il problema non era tanto se avere rapporti sessuali o no, ma sapere cosa questi implicavano. Il problema era l'amore, il donarsi, l'apprendere a stare con l'altro.

Essere donna nella comunità

Edda - Quando si cerca di parlare della donna in una struttura libertaria è difficile farlo senza ricorrere al confronto. Cioè, la donna dentro e fuori dalla comunità. È facile parlare in linea astratta, mentre è molto importante considerare i cambiamenti vissuti nella realtà. Io mi sono resa conto che vivere con gli altri implica più responsabilità, ma è anche fonte di maggiori possibilità e risorse. Una delle cose che ritengo più difficili è il passaggio tra la fase individuale e quella collettiva. Per esempio, c'è una tendenza iniziale all'irresponsabilità, a sottovalutare le cose che appartengono anche agli altri.

Laura e Ann-Lis - In questo passaggio, c'è qualcosa che riguarda esclusivamente la donna?

Edda - Le donne, per tradizione storica, sono più legate alle cose materiali.

Laura - Sì, per la maggior parte delle donne, vivere in una comunità è qualcosa di minaccioso: perdono i loro possessi. Non sono più loro a dominare le cose ma sono le cose a dominare loro. Ed è lo stesso per i loro rapporti.

Suzy - Non so se questo riguarda esclusivamente la donna. Credo che il problema sia capire che le cose in comune sono della comunità, ma che la comunità siamo noi. In effetti, quello che si vive è l'estraneità a ciò che è comune. E non solo nelle cose materiali come i servizi, le pulizie, il cibo, ecc. La comunità, ciò che è comune possono essere vissuti come la nuova "sposa", colei che si assume la responsabilità di pulire quello che sporchiamo, colei a cui raccomandiamo di mettere a posto. Però nella comunità questa tendenza viene continuamente messa in discussione; qui la sfera domestica non è esclusiva della donna, ma di tutti. Nella famiglia invece, tutto questo, non solo non viene mai messo in discussione, ma addirittura costituiste la regola.

Laura - Nella famiglia è più definito: la donna pulisce, l'uomo usufruisce.

Edda - Io credo che sia molto importante il ruolo della coppia e il cambiamento cui è costretta entrando a far parte della comunità. S. per esempio, viveva con C. prima di venire qui, poi sono entrati nella comunità insieme.

Suzy - Io mi sono sposata molto presto (18 anni) ed ero ammirata da tutti perché, pur così giovane, sapevo essere una "vera donna": cucinavo, tenevo la casa in ordine, seguivo molto i bambini. Ero l'orgoglio della famiglia, insomma. La gente mi stimava e io mi sentivo appagata. Sapevo fare tutto quello che può rendere una vita felice: lavavo, stiravo, cucinavo, servivo a tavola e addirittura toglievo il piatto a mio marito quando aveva finito. Lui, nel frattempo, provvedeva economicamente lavorando.
Quando ci trasferimmo nella comunità tutto questo non mi serviva più a niente. La cosa mi fece riflettere, ed era giusto che fosse così: le cose importanti sono altre; i figli in comune, la proprietà in comune. Pensavo: "Chi sono io allora? Io sono la madre dei miei figli, non qualcosa in comune". E tutte queste cose che ora mi sembrano banali, in quel momento erano fondamentali. Giunsi ad una situazione molto angosciante. Tutto quello che avevo imparato fuori non aveva senso nella comunità: i vecchi ruoli non mi servivano e quelli nuovi non li conoscevo ancora. Carlos, anche se nella comunità "si sentiva perso", da uomo tradizionale qual era, cercò di aiutarmi, ma io non capii e reagii male.
Arrivando alla comunità scoprii che la gente poteva vivere in un altro modo. Bisognava dare un taglio col ruolo che la donna aveva sempre avuto nella società. Io cominciai a lavorare nella tipografia, e Carlos in cucina e in mensa. È molto difficile descrivere tutti i cambiamenti che ho vissuto.

Laura - Che ruoli nuovi dovevi affrontare?

Ann-Lis - E quali dovevi lasciare?

Ma gli uomini partecipavano di più

Suzy - Mi accorsi che nella comunità, donne e uomini avevano le stesse responsabilità: non c'erano lavori "maschili" o "femminili". Prima era Carlos che mi dava la paga con cui io mandavo avanti la casa, però l'Economia con la E maiuscola era solo sua. Adesso invece, l'economia è un problema di tutti: quanto produrre, quanto consumare, come distribuire e realizzare i vari compiti. Anche nell'educazione le diversità erano sostanziali: dovevo educare i miei figli insieme ad altri figli, dovevo assumermi la responsabilità di tutti i bambini e in modo cosciente: scegliere cosa comunicare, come agire. Non era solo quello che avevo imparato: qualcosa mi usciva con la massima spontaneità.
Anche rispetto al problema economico dovetti cambiare il mio modo di vedere: non si trattava solo di pensare al consumo e alla produzione, ma bisognava anche fare progetti. A volte non c'erano molti soldi, però si decideva lo stesso di mandare i bambini in campeggio perché questo era ritenuto più importante di altri bisogni materiali. Questo per me era motivo di conflitto: io non pensavo che la realizzazione di progetti di quel genere fosse più importante delle necessità primarie e immediate; o che le necessità primarie fossero altre, scelte in funzione di valori prestabiliti. Non è vero che i bisogni sono gli stessi per tutti.
Due compagni della comunità si riunivano con noi che stavamo facendo esperienza per integrarci. Parlavano di decisioni da prendere, di progetti collettivi. Anche se adesso mi pare ovvio, fu lì che mi resi conto che si può anche farsi un programma di vita, che non necessariamente la forma di vita data (anche quello un "programma di vita") è naturale, ma che è anche una scelta e come tale si può cambiare. Però in quel momento non lo potevo capire del tutto. Avevo una grande confusione. La vita lì era così diversa! La cosa importante non erano i vari ruoli sociali che riscoprivo, ma ero importante io come persona e gli altri per me. Si trattava di un progetto sociale di vita, non era il mio piccolo mondo in cui avevo vegetato fino a quel momento. Fu una crescita enorme.
Ma in quel momento non riuscii a sopportare tanti cambiamenti. Non sopportai i miei nuovi ruoli. Interruppi quell'esperienza. Me ne andai dalla comunità. Però ormai avevo capito quali erano i problemi e non potevo tornare indietro. Il passato non mi serviva più, il futuro mi spaventava. Passò un po' di tempo. Sorse una nuova forma di esperienza di integrazione al progetto comunitario: "la provetta", un gruppo di giovani (che avrebbe fatto un'esperienza di vita in comune in un altro posto fisico) a cui interessava molto la comunità, ma non per integrarsi, solo per chiarirsi le idee.
Nella comunità c'erano diversi livelli di partecipazione alla assemblea: c'erano gli "integrati", cioè quelli che avevano già deciso di rimanere nella comunità, quelli che vivevano nella comunità facendo un'esperienza di integrazione e che però non partecipavano alle assemblee, e la "provetta", cioè quelli che vivevano l'esperienza autonoma. La "provetta" non mi sembrava tanto minacciosa come la comunità. Lì eravamo tutti uguali. Allora mi decisi a prendervi parte di nuovo, però in un altro modo. Durante questo periodo avevamo una riunione settimanale con gente della comunità e con una psicologa che lavorava con noi in dinamica di gruppo. Alla fine di quest'esperienza mi dichiarai favorevole alla vita comunitaria. Però, che io volessi non voleva necessariamente dire che io sapessi vivere con gli altri. Nella "provetta" eravamo molto esigenti. Per esempio, c'erano due compagni che alla fine dell'esperienza si erano definiti favorevoli alla comunità, però la maggior parte di noi riteneva che non fossero adatti ad una vita in comune o che non fossero abbastanza maturi per farlo. La comunità al contrario, non li ostacolò affatto: era molto più indulgente di noi. Uscimmo tutti molto fortificati da quell'esperienza: più maturi come persone e anche come coppie o nei nostri rapporti affettivo-sessuali. Tuttavia, a livello di coppia, anche se uomini e donne avevano le stesse potenziali possibilità, gli uomini erano capaci di una partecipazione politica più attiva.

Edda - Però anche loro dovevano mettere in discussione i loro ruoli tradizionali: era implicito nella struttura organizzativa della comunità. Anche se può sembrare incredibile, quando io me ne sono andata dalla comunità col mio compagno, eravamo le stesse persone di prima, eppure lui non lavava più i piatti.

Suzy - Per me e Carlos (il mio compagno) nacque un conflitto tremendo tra i ruoli vecchi e quelli nuovi. I ragazzi erano più preparati, avevano più esperienza politica e pur non volendolo, si notavano grosse differenze all'atto pratico.

Ana - Però la partecipazione ad attività di progettazione veniva decisa dalla comunità. Non era la comunità che decideva a chi affidare i compiti, se agli uomini o alle donne?

Suzy - Sì, quando lavoravamo con il sindacato dei tagliatori di canne da zucchero nel nord dell'Uruguay, vennero scelte due compagne.

Edda - È vero che gli uomini si dedicavano di più ad attività tradizionalmente chiamate "politiche". Ruben, il mio compagno, arrivava spessa tardi ai gruppi di lavoro per questo motivo però io non lo vivevo come una differenza tra uomo e donna. Era più che altro un conflitto tra funzioni: tra il lavoro in tipografia, come attività produttiva, e il lavoro in casa, semplice attività domestica. C'era una specie di antagonismo tra un'attività e l'altra. E questo si ripercuoteva sulla quantità di tempo che si dedicava a una o all'altra, a seconda del gruppo a cui si apparteneva in quel turno. Però non era un conflitto uomo-donna, era un conflitto di funzioni, visto soprattutto che ogni elemento della comunità, in rotazione, avrebbe svolto prima o poi tutte le mansioni, ed era curioso notare che il problema sussisteva anche quando cambiavano le persone, fossero indifferentemente uomini o donne.

Essere incinta era un privilegio

Laura - La maggior partecipazione verbale o ad attività pubbliche degli uomini, non era dovuta anche al fatto che loro erano più preparati?

Suzy - Sì, ma non bisogna neanche dimenticare che molti di loro non volevano che le cose cambiassero. Quando io cominciai ad avere le idee più chiare, a non essere sempre d'accordo e a manifestarlo, il primo che si dimostrò contrariato fu proprio il mio compagno.

Sylvia - Penso che ad ogni modo le cose siano cambiate col tempo. Attualmente a Stoccolma non si notano queste differenze e se ce ne sono, è perché le donne sono più attive degli uomini, più militanti. Forse questo dipende anche dal fatto che apparteniamo ad una generazione più giovane, figlia non solo della comunità ma anche del movimento femminista.

Suzy - Nella comunità, essere incinta era un "privilegio": si prendevano cura di te, ti seguivano e tutti vivevano in attesa del nuovo nato. Allo stesso tempo noi, quando eravamo incinte, non volevamo che si considerasse la gravidanza come una situazione speciale e volevamo mantenere il ritmo di lavoro di sempre. La gravidanza comunque, aveva un grande valore nella comunità. Io, che ho provato ad essere incinta sia dentro che fuori dalla comunità, posso dire che la differenza è sostanziale. Era come se nella comunità, il fatto stesso di sentire che la vita aveva senso, ci portava a desiderare di avere dei figli.
Gli uomini vivevano il periodo della gravidanza nei modi più diversi: alcuni non si rendevano conto che quest'esperienza implica un cambiamento a livello fisiologico nell'organismo della donna e pretendevano troppo da lei. Altri esageravano in senso opposto e non ti lasciavano fare niente. Però tutto questo era un continuo motivo di discussioni da cui ognuno di noi imparava molto. Credo che tutti fossero disposti a dare il meglio di sé.
Quando nacque Emiliano, mio figlio, nella comunità, fu bellissimo: tutti parteciparono con grande entusiasmo all'evento.
Diaz che era stato tagliatore di canna da zucchero e proveniva da un ambiente contadino - dove i ruoli tradizionali sono molto ben discriminati - nella comunità lavorava nella lavanderia, e si irritava se qualcuno degli altri compagni che lavoravano lì, non faceva venire i pannolini bianchissimi come faceva lui. E, invece, si sedeva su una seggiola a capotavola, in mensa, e tutti quelli che passavano si sentivano in dovere di dirgli qualcosa, di salutarlo. Lui rimaneva impassibile e continuava a guardare gli altri che si muovevano e faticavano intorno a lui.

Ann-Lis - Rimanere incinta nella comunità, dove l'essere umano è un bene tanto prezioso, è un'esperienza meravigliosa. Tutti condividono la tua attesa, e tu ti senti rivalutata sia come donna che come essere umano.

Suzy - Mi ricordo che in un'epoca in cui c'erano molte compagne incinte, facevano tutte insieme esercizi preparatori al parto. Anche i bambini partecipavano e così si abituavano gradatamente ad accettare quanto stava accadendo. Anche loro si modificavano per ricevere il nuovo nato. In qualche modo, si facevano anche un'idea di come erano stati attesi loro.
Quest'esperienza dipendeva anche dal rapporto che c'era tra i due nella coppia e tra loro e il resto della comunità. Se non era buono, anche la gravidanza ne risentiva: l'entusiasmo non era lo stesso.

Fare figli o no?

Sylvia - Nella comunità si discuteva (e lo si fa ancora adesso), quando qualcuno voleva un figlio. Visto che il contesto sociale in cui nasceva eravamo tutti noi, questo implicava il parere di tutti. La decisione fondamentale spettava ai genitori, ma lo stesso si condivideva la loro scelta e le loro motivazioni fin dall'inizio.
Io che non sono nata nella comunità, prima di entrare a farne parte "non amavo" i bambini. Questa è una deformazione tipica della società in cui viviamo, dove è frequente sentire espressioni del tipo: "A me non piacciono i bambini", oppure "i vecchi". Viviamo conflitti artificiali, che disumanizzano e che fanno pensare che anche le cose più naturali, in realtà non lo sono. Cambiai questo mio modo di vedere senza rendermene conto, solo perché nella pratica della comunità la scala di valori era differente. Tutte le età venivano valorizzate, e forse in modo particolare proprio quelle che nella nostra società moderna sono le più emarginate: l'infanzia e la vecchiaia.
Un altro aspetto interessante della vita della comunità è che dava molto da imparare ad essere madre "prima" di avere figli, attraverso l'esperienza vissuta in comune. C'erano sempre dei neonati nella comunità e questo ci permetteva di imparare a fare il padre e la madre prima ancora di esserlo.

Edda - Quando fondammo la comunità, la sensazione stessa di stare creando un mondo diverso ci faceva amare i bambini. Una cosa era diretta conseguenza dell'altra. Imparammo a trattare con i bambini attraverso un processo fatto di varie tappe. I compagni che entrarono in seguito, in qualche modo ereditarono tutto questo.
All'inizio il rapporto con i bambini era più "teso", perché non avevamo ancora chiarito con noi stessi il concetto di rapporto con i figli. Aspettare un figlio insieme fu una liberazione per tutti: per i bambini, per i genitori e per me come donna. Il fatto che il rapporto di coppia nella comunità avesse un senso completamente diverso, influiva inoltre moltissimo. Io penso che ci sia una stretta relazione tra potere e sessualità. Nella comunità siccome né la vita sociale, né quella economica, né quella politica si basavano sulla coppia, il rapporto tra due compagni era determinato dalle loro affinità e dalla loro reciproca attrazione. Gli altri problemi non pesavano sulla coppia, ma sulla comunità.

Suzy - Dopo il parto, noi madri non eravamo tenute a lavorare finché non ci sentivamo in grado di farlo. Era straordinario poter partecipare ai lavori che si facevano e non rimanere invece isolate in un mondo esclusivo come quello madre-figlio. Ci si sentiva molto meglio, perché si sapeva che non c'era nessuna "costrizione", ma che si poteva continuare a far parte del mondo che continuava ad andare avanti. Dopo, abbastanza in fretta, era la comunità ad occuparsi del bambino. La madre faceva qualche lavoro che le permettesse di continuare ad allattare il più a lungo possibile e di continuare a mantenere un rapporto molto intenso con il figlio per tutto il tempo necessario.
Quella che secondo me era la differenza sostanziale rispetto alla gravidanza vissuta fuori, era che nella comunità l'esperienza pre e post-parto era considerata una condizione privilegiata però non speciale: era perfettamente integrata al resto del mondo ed essere madre non era una trasformazione totale ed inesorabile, non voleva dire rimanere tagliata fuori da attività di informazione, ecc.
In seguito, dopo la realizzazione di queste interviste qui riportate, Laura ebbe una figlia nella comunità di Stoccolma. Il parto avvenne in casa, con la presenza di tutti i membri della comunità, compresi i bambini. Dopodiché ci riunimmo per valutare che cosa aveva significato per tutti la partecipazione diretta al parto. Forse l'elemento fondamentale fu il fatto in sé di partecipare a questo evento così naturale e al tempo stesso così meraviglioso. Come se quello che prima era stato considerato come qualcosa di magico e misterioso, ora diventasse una parte integrante della vita di tutti: non più solo misterioso dunque, ma solo meraviglioso.
Per le donne significò una rivalutazione del loro corpo, della capacità di dare la vita e della sessualità. Gli uomini, grazie a questa esperienza, ebbero la possibilità di demistificare il parto considerato fino a quel momento come mistero "oscuro" e in qualche modo "pericoloso", accese in loro una specie di sana invidia compensata dal fatto di partecipare all'evento.
Forse il cambiamento più profondo avvenne nei maschi preadolescenti - figli della comunità - che in modo del tutto naturale e piacevole vissero contemporaneamente un rapporto con la sessualità, con la maternità, con il corpo femminile e con la loro potenzialità di futuri padri.
Ad ogni modo, il parto vissuto e condiviso da tutti, acquisisce un valore simbolico, dove la differenza tra il "maschile" e il "femminile" si delinea molto chiaramente, affermandosi come positiva e complementare.

(tavola-rotonda curata e trascritta da Sylvia Ribeiro, tradotta da Tiziana Tosolini)


La coppia nella comunità

Amore è volere la libertà, la completa indipendenza dell'altro; il primo atto di vero amore è l'emancipazione completa di colui che si ama. Non c'è un modo più totale di amare un altro che quello di farlo sentire completamente libero e indipendente, non solo da tutti gli altri, ma anche e soprattutto da colui da cui si è amati e che si ama, perché, se quando amiamo cerchiamo la dipendenza di colui che amiamo, allora amiamo una cosa e non un essere umano, perché l'unico valore che distingue l'essere umano dalle cose è la libertà; e se l'amore implicasse anche la dipendenza, sarebbe la cosa più pericolosa e più infame del mondo, perché in quel caso sarebbe una fonte inesauribile di schiavitù e di abbrutimento per l'umanità. In ogni vero rapporto d'amore, la fiducia deve essere totale.

(Michele Bakunin)

Il rapporto tra compagni si basa su una reciproca promessa di lealtà, ossia su un impegno della volontà. Qualsiasi condizionamento esterno è falso. Lo spazio contenuto dall'abbraccio tra un uomo e una donna è il "luogo" di questa autenticità. E siccome è un "luogo" che non appartiene a nessuno dei due, lo stesso accadrà per i figli scaturiti da lui e in lui, e sono proprio quegli stessi figli la sintesi di quell'amore, di quella fiducia, la proiezione, la continuazione di quella vita.
La coppia, allora, non appare più come una calda tana dove fuggire, in cui rifugiarsi o diventare passivi, ma come il nucleo più piccolo in cui trovare la forza per prendere la spinta necessaria per vivere e lottare.
Per poter analizzare la coppia nella comunità useremo come metodo il confronto con la famiglia tipo borghese per evidenziare meglio le differenze ed anche per capire il motivo dei nostri fallimenti e dei nostri successi.
La comunità, visto che la produzione e il consumo sono in comune, sostituisce la famiglia nel suo ruolo di unità economica di base che questa, automaticamente, viene a perdere. La parità tra uomo e donna, che c'è nella comunità, ha distrutto le fondamenta del patriarcato, pertanto il fattore economico non è più dominante nella formazione, nel mantenimento, o, nel caso peggiore, nel fallimento della coppia.
Avendo risolto il problema della dipendenza economica, legale e spirituale, della donna rispetto all'uomo e al fattore economico (che nella coppia borghese può arrivare ad essere l'elemento decisivo per il mantenimento della struttura famigliare anche quando ognuno dei due coniugi ha la coscienza che la struttura non ha più senso), la coppia della comunità poggia su basi personali concrete e non su una struttura economica e impersonale.
L'amore, il desiderio di generare non solo figli, ma anche dei vincoli per una vita di cameratismo, di solidarietà emotiva e spirituale, sono i punti di partenza della coppia nella comunità e i suoi unici fondamenti. Naturalmente sarebbe assurdo sperare che questo garantisse che la coppia nella comunità sia sempre ineccepibile e che la sua vita interna sia perfettamente armoniosa.
L'eliminazione del fattore economico permette però che la scelta dei coniugi sia più obiettiva. Una buona professione, l'appartenere ad una classe privilegiata ed il benessere economico non sempre sono sufficienti per definire un "buon partito". Tutto dipende dalle persone e non dalle cose: dalle persone come in realtà sono, senza le sovrastrutture che sono così determinanti in questo tipo di scelte all'interno di una società capitalista.
Questo fattore (economico) è uno degli elementi più importanti che differenziano nettamente la coppia della comunità dalla coppia borghese, perché anche nel caso che si arrivi alla scelta di una separazione (dopo che se ne è discusso in gruppo) lo si può fare senza essere influenzati dal terrore di quello che può succedere in futuro: basterebbe infatti che i due si spostassero in camere separate. Per il resto continuerebbero i loro lavori, conservando il loro posto all'interno della comunità.
Molte situazioni conflittuali delle coppie che entrano nella comunità sono quasi sempre legate al fattore economico, e dal momento in cui entrano a far parte della comunità, questo fattore scompare come motivo determinante e mette la coppia nelle condizioni di considerare, con la massima lucidità, quali sono le reali responsabilità di entrambi.
Qui, dove uno più uno / siamo molti / e a prescindere da questo / siamo sempre pochi, / due, oggi, sono un'altra cosa / sono un NOI. E LÌ, in questa unione / sta il segreto / di prendere la decisione / di essere noi stessi, / spazio aperto e insaziabile / che vuole abbracciare / il mondo intero.

(relazione presentata al 2° Incontro Intercomunitario, Montevideo, 1969)

Femminismo e anarchismo

Ecco il riassunto dell'intervento che due compagne di Comunidad hanno fatto nel corso della sessione "Vivere l'anarchia" dell'Incontro anarchico internazionale (Venezia, settembre '84)

Chiarire le cause della disuguaglianza tra uomo e donna nelle nostre società ci si presenta come un compito difficile, se non impossibile, perché equivale a trovare le sorgenti del Nilo, come dice Rossella Di Leo nell'articolo omonimo (Volontà n. 3/83), ci si trova di fronte a successive biforcazioni che si perdono in territorio inesplorato.
Però tale disuguaglianza è una realtà con cui ci scontriamo e, in quanto protagoniste in essa coinvolte, dobbiamo provare a cambiarla. Un cambiamento che, dal nostro punto di vista, deve comprendere la vita pratica e la realtà immaginaria che non può rimanere separata dalla necessità di modificare tutto il sistema in cui viviamo, di porre fine alle relazioni di dominio dovunque si presentino.
Per tale motivo, riteniamo che tutte le riforme apparentemente egualitarie affacciatesi nell'ambito della legalità statale, portino in sé una contraddizione, e in genere abbiano avuto la funzione di integrare le donne al lavoro salariato, nel sistema istituzionale vigente, portando inoltre come conseguenza un intervento statale ancora più precoce nell'educazione dei figli. Il che significa integrazione di questa esigenza di cambiamento, di questa lotta per la liberazione femminile, nei valori di un sistema simbolico maschile e fondato sul potere dominio.
È urgente trovare, quindi, non solo forme di resistenza e di lotta, ma anche di creazione e solidarietà. Creare fin d'ora le istituzioni atte a prefigurare ciò che vogliamo, e all'interno di questo fine cercare di ampliare quegli spazi che possono permetterci, a loro volta, di ricostruire, trovare questo "immaginario scomparso", apportando tutta la ricchezza dello specifico femminile.
Per noi, questo ha significato la scelta di una vita comunitaria. Una opzione dove tutti i ruoli devono essere ripensati in pratica. Così, abbiamo definito la comunità come una matrice sociale in cui sia possibile educare e rieducarci, al tempo stesso in cui siamo tale matrice. Un modello e anche un percorso, poiché per tutto quanto detto prima, il cambiamento deve avvenire a livello di tutta la società e quindi sarebbe impossibile al livello particolare di un gruppo.
Un compito impossibile? Forse. Eppure, anche se densa di errori e contraddizioni, continuando noi ad essere immersi e partecipi del sistema che vogliamo cambiare, l'esperienza della comunità ci sembra valida, perché appunto ci permette di coniugare in un unico verbo la teoria e la pratica. E così, come donne, abbiamo la possibilità di assumere i ruoli di madri, di amanti, di produttrici di idee e valori, di persone che si dedicano all'autogestione, che partecipano alla vita politica interna ed esterna della comunità, partendo da una scelta sociale e non dal sacrificio personale, o abbandonando anche di poco questo o quello di tali ruoli.
La nostra esperienza concreta si basa in parte sulla Comunidad del Sur, gruppo comunitario originatosi nel 1955 a Montevideo (Uruguay), e in parte sul gruppo Comunidad, a partire dal 1977 a Stoccolma, in Svezia.
Comunidad ha 4 principi fondamentali:
- siamo libertari a livello politico (decisionalità, ecc .).
- siamo comunisti a livello economico, secondo il principio "da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni".
- siamo comunitari, per quanto attiene al modello eco-urbanistico della nostra vita sociale e dei suoi aspetti educativi.
- siamo rivoluzionari, perché una comunità non basta, è necessaria la trasformazione di tutta la società.
Sul piano organizzativo, applichiamo la rotazione di tutti gli incarichi, sia nel campo dei servizi che della produzione, abbiamo l'economia in comune e cerchiamo di praticare l'autogestione in tutti gli aspetti della vita.
I bambini, come diceva giustamente Bakunin, "non sono proprietà di nessuno, né dei genitori, né della società, appartengono solo alla loro futura libertà", ed è in questo senso che li consideriamo responsabilità comune.

Laura Prieto
Sylvia Ribeiro