Rivista Anarchica Online
Cassaintegrati o
disintegrati?
di Patrizio Biagi
Ore 6,30 del
mattino. Dopo essermi svegliato di soprassalto e avere lanciato un
sonoro vaffanculo mi accingo ad alzarmi, non appena il bit-bit
della sveglia si farà sentire. Dopo aver realizzato la situazione,
però, mi accorgo che dovrò attendere invano: Ma che cavolo sto
facendo? Da oggi comincia il mio mese di cassa-integrazione!
Cassa-integrazione!! Quella che una volta era l'anticamera del
licenziamento e che oggi funziona un po' da serbatoio per tenere
buona un'enorme fetta di lavoratori espulsi dai luoghi di lavoro. Il
creare nuovi disoccupati sarebbe troppo pericoloso (per stato e
padroni) perché potrebbe far scoppiare qualche cosa di grosso,
potrebbe creare malcontento, e allora si crea questa enorme area
di parcheggio in cui raccogliere questi ibridi, non più
lavoratori e non ancora disoccupati, dimodochè non rompano i
coglioni. Da oggi
ricominciano le battutine, che sotto una patina di humour nascondono
sia l'invidia di chi vorrebbe ma non può, sia l'idea che
molti si sono fatti di essere loro in fondo che ti mantengono in
panciolle: Se quel disgraziato lì è in giro a fare un cazzo, è
perché ci siamo noi a mantenerlo. Assisti alla
sfilata di un campionario significativo di quel bestiario che ti
circonda. Trovi quello che ti dice che sei in contraddizione perché
essendo anarchico (e volendo quindi l'abolizione dello stato)
percepisci i soldi dallo stesso, e ti verrebbe voglia di rispondergli
che i soldi che lo stato ti dà li hai sputati fino all'ultimo in
anni e anni di lavoro e che, se si vogliono guardare le
contraddizioni, perché non si guardano le proprie? Quanti "compagni"
ci sono, che ti fanno queste menate e poi magari passano la vita
scroccando cibo e ospitalità ad altri compagni? Quanti sono i
compagni impiegati direttamente sotto lo stato? Ma a cosa servirebbe
dire questo a persone che hanno il cervello atrofizzato dalla
sloganistica e che quindi non saprebbero come usare quella appendice
che si ritrovano sulle spalle? Trovi quello che ti
dice che è un'indecenza che esista una cosa come la
cassa-integrazione, che in America invece uno viene licenziato e
quindi si cerca un altro lavoro... e tu ascolti e ti verrebbe voglia
di dire: Ma non è indecente anche l'attività del commercio? Non
è forse un mestiere parassitario? Non è forse il consumatore che
paga una "tangente" al commerciante e quindi quest'ultimo
vive speculando sul lavoro prodotto da altri? E poi in che cavolo di
mondo vivi se non sai neppure che oggi esiste una tremenda difficoltà
nel trovare un lavoro. Passi per uno come, che quando ha mangiato lui
hanno mangiato tutti, e quindi non avrebbe problemi immediati, ma il
padre di famiglia che ha un paio di figli in che modo pensi potrebbe
fare a tirare avanti se non esistesse la cassa- integrazione? Non voglio fare
dell'ideologia, né proporre l'abolizione del commercio, voglio solo
dire ai facili moralisti (è sempre facile ritagliare morali sugli
altri) persi nelle loro "elucubrazioni filosofiche", che la
cassa-integrazione, anche se a volte può far piacere, è un grave
problema e che forse bisognerebbe parlarne con un po' più di
cognizione di causa e non con la solita superficialità salottiera
con cui si fa ideologia. Trovi infine quelli
che ti dicono che sono loro a mantenerti con i soldi che lo stato gli
preleva ecc. ecc.. Ti scappa quasi da ridere, pensando ai tuoi
quindici anni di fabbrica dove ti sei fatto un culo non indifferente
e poi guardi questi tipi, che magari non fanno niente o che lavorano
da qualche mese, tutti probabilmente con il paparino che scuce la
lira quando ne hanno bisogno e ti viene di pensare che se dovessi
percepire i soldi pagati da costoro, ci sarebbe da prendere in seria
considerazione la proposta di andare a fare la fila per la minestra
dei poveri. Ma al di là delle
battute di gente che non potrà mai capire la complessità di quello
che si sta agitando all'esterno, perché troppo presa dai propri
particolarismi e dalle proprie speculazioni "intellettuali",
la cassa-integrazione è diventata senz'altro un problema sociale di
vasta portata. È
in atto un'ampia manovra di ristrutturazione che non è solo una
semplice restaurazione del potere aziendale, messo in crisi negli
anni settanta, ma è anche uno snellimento produttivo dettato dai
vari problemi concorrenziali interni e internazionali. È una manovra
che passa attraverso la cosiddetta riduzione del costo del lavoro
(tagli sulla contingenza, collaborazionismo sindacale e scarsa
conflittualità rivendicativa, ecc.), l'aumento dei ritmi di lavoro
(pressioni continue di capi e capetti sui lavoratori affinché il
lavoro venga velocizzato, tagli dei tempi di lavorazione, ecc.),
l'applicazione a certi cicli produttivi dell'informatica e della
robotica. Tutto questo comporta quindi un'espulsione di manodopera
dalle fabbriche, che si concretizza nella cassa-integrazione, dalla
quale si verrà riciclati, se si sarà fortunati, in qualche altro
posto di lavoro, oppure si finirà, prima o poi, con l'ingrossare le
fila dell'esercito dei disoccupati. Ma la
cassa-integrazione non è solo una questione di carattere
politico-sindacale. La sua portata sociale è rappresentata anche dal
fatto che essa è diventata, a livello di ogni singolo individuo, un
problema psichico non indifferente. Ogni lavoratore posto in
cassa-integrazione reagisce (a seconda dei propri valori, delle
proprie convinzioni politiche, delle condizioni familiari, ecc.), in
modo diverso, individuale. C'è chi vive questo periodo come una
liberazione dalla fabbrica, ma c'è anche chi la vive come una
punizione e pensa, per questo, di essere ritenuto un "lazzarone",
non tanto dalle gerarchie della fabbrica (anche se per molti è
importante anche questo giudizio), ma dagli amici, dalla famiglia,
dai conoscenti. È stato
recentemente pubblicato dal "Coordinamento di Base Hinterland"
(formato da compagni di vari gruppi di sinistra dell'hinterland
milanese) un ciclostilato intitolato Cassa-integr/azione/ati,
che tenta di fare un'analisi, e a mio avviso ci riesce anche
abbastanza bene, sulla cassa-integrazione e sulla devastazione, a
livello psicologico, che questo stato causa sui singoli individui. Vorrei qui
riportare alcuni brani che mi sembrano significativi e che condivido
appieno: "Ho perso i miei compagni di lavoro, la sicurezza
nel sindacato, mi sono isolato sempre più, poi non ce l'ho
più fatta, tutto mi è crollato addosso, non credevo
più né in me stesso né negli altri." "Mi sento
come un limone spremuto, tradito da un'azienda che adesso mi butta
via, dopo vent'anni di lavoro senza un'assenza, con l'eczema alle
mani e la silicosi riportate sul lavoro". Voci di
cassa-integrati, quelli che dopo un po' scompaiono e non si sa cosa
fanno, come vivono, cosa pensano; quelli senza precisi riferimenti,
quelli che vivono in una disgregazione e in un isolamento quasi
totale, quelli che fanno parlare di sé quando "scoppiano". È
chiaro che il disagio sociale e psichico derivante dall'essere
collocato in cassa-integrazione è soggettivo e mutevole in funzione
di elementi che differenziano un lavoratore da un altro. L'età, il
sesso, la durata più o meno lunga della presenza in fabbrica, il
grado di politicizzazione e l'impegno sindacale, la famiglia, la
situazione economica, l'identificazione o meno nel lavoro, lo stato
fisico (handicappati, invalidi, ammalati cronici...), sono alcuni di
questi elementi. E prosegue
parlando, più avanti, del crollo esistenziale riscontrabile in
lavoratori per i quali il lavoro è la principale fonte di
realizzazione individuale... nei lavoratori per i quali
il lavoro è l'unico modo di esistere e il cui valore è lo stipendio
fisso e sicuro a fine mese... nei lavoratori che vivono
un senso di angoscia e di solitudine di
fronte all'incomprensione sociale, familiare e
degli amici, nei lavoratori per i quali l'essere improduttivo
coincide con l'essere inutile. Con un macabro
senso dell'humour si potrebbe dire, infine, che la cassa-integrazione
si tramuta, per molti di quelli che hanno raggiunto l'ultimo stadio
della disperazione, in cassa da morto, difatti: In questa
realtà di espulsioni, sono tanti, tantissimi ormai
i lavoratori che evidenziano problemi e disturbi di
tipo psichico, e purtroppo sono tanti, troppi quei casi
di lavoratori che con il suicidio, hanno deciso di non accettare
di vivere in questo ruolo
di espulso. Pochi sono i
censimenti conosciuti: 150 a Torino, 3 alla Breda e poi il vuoto, non
ci è possibile sapere, tutto tace, si preferisce coprire i giornali
con l'"effetto ripresa", con le percentuali di aumento della
produttività, della produzione industriale, del calo dell'inflazione
e dell'assenteismo. Le poche righe che
ho scritto, le ho scritte per tentar di far capire che la
cassa-integrazione non è quel paese di Bengodi che molti credono (da
quando in qua le cose funzionali al potere politico-economico possono
esserlo?), ma che può essere l'avvio di tragedie collettive e
individuali che possono finire in modo molto drammatico. Non ho nemmeno la
mia formuletta finale per risolvere questi gravi problemi.
Francamente la solita panacea a base sloganistica del tipo:
autogestisci di qui, autogestisci di là, oppure solo l'azione
diretta delle masse (quali?) mi lascia ormai piuttosto freddo e
refrattario.
Nella USL 28 di
Torino
"Cassa
integrazione e disagio psichico" è il titolo del numero III/84 di
Psichiatria/Informazione, periodico edito a
Torino dall'"Associazione per la lotta contro le malattie
mentali". Vi sono illustrate le esperienze di alcuni servizi
psichiatrici di varie USL rispetto a pazienti in Cassa integrazione
guadagni (Cig). In particolare sono riportati i risultati di una
ricerca svolta dalla USL 28 (che comprende quattro comuni della
cintura torinese) tra lavoratori venuti a contatto con il servizio
dopo l'esperienza della Cig e altri messi in cassa integrazione
quando erano già in carico al servizio. Gli operatori della
USL hanno distribuito un questionario volto ad evidenziare quali
siano state le conseguenze della cassa integrazione a livello
economico e relazionale: sia nell'ambito familiare sia in quello
sociale. In tutte le situazioni venute a contato con il servizio ci
sono state precedenti esperienze di cure presso il medico di base,
psicoterapie private, frequenti ricorsi alla Guardia Medica o al
Pronto Soccorso, consulti presso specialisti pubblici o privati
(neurologi o psichiatri). Tutti questi dati, sommati alle richieste
di ricovero presso una casa di cura, mettono in rilievo la
drammaticità del fenomeno e, come fanno notare i curatori della
ricerca, sono un segno di "quanto ormai dominante sia la
medicalizzazione di ogni forma di disagio". La redazione di
Psichiatria/Informazione precisa di non avere inteso dimostrare nessi
meccanicistici tra cassa integrazione e malattia, ma di avere voluto
indagare su un fenomeno che ha messo in rilievo come la perdita del
posto di lavoro (sia pure mascherata da un'indennità economica)
"contribuisce all'emergere di sofferenze e di guasti, in alcuni
casi gravissimi, specialmente in quanto agisce da elemento
catalizzatore e mette o rimette in moto meccanismi di emarginazione,
di esclusione, di perdita". La rivista presenta inoltre alcuni
dati statistici relativi alla cassa integrazione in Piemonte e
interventi di giuristi e sindacalisti.
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