Rivista Anarchica Online
Il prezzo da
pagare
di Maria Teresa Romiti
"Una mobilità
più spinta sul mercato del lavoro (chiamate nominative, part-time,
salario d'ingresso)...)" sono le condizioni necessarie per
frenare la disoccupazione secondo Lucchini, presidente della
Confindustria; "Adozione di contratti speciali per i giovani, il
part-time, la differenziazione dei salari per fascia d'età e per
settore produttivo e la "deregulation" del mercato del lavoro"
sono le risposte di Lang, presidente della Federmeccanica, ai
problemi dell'economia, che in questi giorni ha rincarato la dose
sostenendo che è necessaria "...la liberalizzazione del mercato
di entrata e di uscita, il licenziamento considerato come un momento
normale della vita lavorativa e non come un trauma caricato di
significati psicologici, morali ed anche religiosi". Il costo
del lavoro, ma soprattutto la possibilità per le aziende di usare in
modo flessibile, senza rigidità, assunzioni e licenziamenti torna al
centro del dibattito; con una variante: questa volta, sono le aziende
a parlare, proporre, condurre il gioco di fronte ad un sindacato
diviso, disorientato, essenzialmente bloccato e ad un mondo politico
senza risposte. Cosa sta
succedendo? È il
riflusso che una volta ancora colpisce? Un golpe delle aziende
sull'onda del neo-liberismo americano? Magari la risposta fosse così
semplice! In realtà gli
industriali stanno cercando a tentoni qualche soluzione di fronte a
un problema molto più vasto che sta colpendo tutti i paesi
occidentali ad esclusione del Giappone, cercando di copiare il loro
modello preferito: gli Stati Uniti. Del resto, se il tasso di
disoccupazione in Italia è al 10,3%, in Gran Bretagna è all'11,6,
in Francia al 9,3 e in Germania all'8,3. Perfino gli Stati uniti,
nonostante tutto il parlare di ripresa, viaggiano sempre ad un tasso
del 7,5%. Potremmo dire di essere in buona compagnia. E i dati non
sono certo migliori se si considerano le previsioni sia a breve che a
medio periodo. Una ricerca della Prometeia prevede nel 1986 la
Francia all'11%, la Gran Bretagna all'11,7%, l'Italia al 10,6 e gli
Stati Uniti al 7,5. Anche le previsioni dell'istituto di ricerca
dell'IBM, che considerano un tempo più lungo (1990), non sono più
rosee: Francia al 13%, Germania 8,7%, Gran Bretagna 12,8%, Italia 9,6%
e USA 6,2%. Dati che si affiancano a previsioni di crescita economica
sotto il 3%. L'unica eccezione è il Giappone, con tassi di crescita
costanti sul 4,5% e tassi di disoccupazione sotto il 3%. La crisi del mondo
occidentale è il problema dell'automazione. In effetti i tassi di
crescita devono essere più alti di quelli previsti solitamente dagli
economisti per invertire la tendenza alla disoccupazione perché
l'automazione diminuisce posti di lavoro, tende a portare a zero
l'occupazione per industria e l'agricoltura. Non solo, ma i posti di
lavoro creati dall'informatica sono super-specialistici, altamente
tecnici e in poco tempo obsoleti. Non è un caso che
la situazione statunitense, da tutti considerata positiva (dopotutto
ha tassi di disoccupazione in discesa, seppur minima) ad un'analisi
un po' più approfondita riveli storture notevoli. Il decremento del
tasso di disoccupazione americano (due punti in due anni) è stato
pagato soprattutto da operai ed agricoltori. I colletti blu sono in
via di estinzione; nella ricca America gli agricoltori stanno
conoscendo la peggiore recessione degli ultimi sessant'anni. Il
dollaro forte, l'economia che tira sono validi solo per alcune fasce
della popolazione, mentre altre stanno pagando la ripresa in termini
che sembravano ormai appartenere al passato. È il prezzo da
pagare, l'economia torna competitiva utilizzando in pieno le nuove
tecnologie, ma qualcuno, come sempre, paga la ripresa. Un prezzo che
non risparmia neppure i tecnici, i lavoratori specializzati
dell'informatica, come fa notare incidentalmente il giornalista
inglese Jungk, raccontando l'esperienza di un ingegnere della Silicon
Valley passato in quattro anni dal paradiso all'inferno. Attirato dal
lavoro ben pagato, dalla villetta con giardino messa a disposizione
dalla ditta, si è trovato dopo soli quattro anni, senza lavoro e
senza casa. Un microprocessore aveva preso il suo posto; faceva il
suo lavoro meglio e più in fretta. A lui non restava che arrabbiarsi
per aver contribuito a creare questi aggeggi. D'altra parte insegnare
un nuovo lavoro ad un tecnico specializzato costa troppo, meglio
prenderne uno nuovo, agli inizi, che imparerà il nuovo lavoro almeno
finché serve. Il prodotto umano non conta, le cose cambiano a ritmo
vorticoso e prima o poi si rimarrà indietro, spodestati da un nuovo
strumento più veloce, più elegante, più efficiente. La mobilità
americana è questa: io perdo il posto, ma un altro lo trova al mio
posto, almeno per un po', la statistica è salva. È un sistema
sicuro ed efficiente e, almeno negli Stati Uniti, al riparo da
tensioni sociali: i nuovi disoccupati si arrabbiano solo con se
stessi, non si ribellano, quasi incapaci di capire cosa sta
succedendo. Ovviamente la
situazione italiana non è a questi livelli, anzi, ha ancora una
lunga strada da percorrere anche se le direzioni sono obbligate e il
modello davanti spinge alla corsa per non perdere l'ultimo treno.
L'America, il Giappone non aspettano. L'uomo è ormai merce obsoleta.
Bisogna tenerlo a mente perché è l'unica strada per essere
competitivi economicamente, per non restare indietro. Non c'è
alternativa, hanno ragione gli industriali. A meno che non si voglia
ripensare il progresso, i valori che lo sottendono, l'importanza
dell'uomo, dell'ambiente, il significato della tecnologia. Ma questa
è la rivoluzione non è vero?
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