Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 15 nr. 126
marzo 1985


Rivista Anarchica Online

Potere, dissenso, diritti civili
di Massimo La Torre

In questo scritto tratterò nella prima parte della struttura politica dei paesi del cosiddetto "socialismo reale", e nella seconda parte della questione della legalità e della rivendicazione dei diritti politici così come si pone in questi paesi. Una breve considerazione del valore del dissenso e della rivendicazione dei diritti dell'uomo in quel contesto concluderà questo studio. Per affrontare i problemi che ho menzionato, utilizzerò le riflessioni in merito di Vàclav Havel, un commediografo cecoslovacco animatore nel suo paese del movimento detto "Charta 77". Havel è l'autore di un pamphlet sulla situazione dei paesi "socialisti" (Il potere dei senza potere) che è stato tradotto e pubblicato in Italia qualche anno fa, e che ha destato purtroppo poco interesse e nessun clamore, pur essendo, a mio avviso, uno dei testi più lucidi sul presente stato di cose nelle società dell'Est europeo. A tale scritto, nelle pagine che seguono, farò costante riferimento.
Una precisazione, prima di proseguire. Havel impiega, per definire il sistema politico del "socialismo reale", il termine "post-totalitario". Io lo adotterò, ma intendo chiarirne in via preliminare il significato. Per fare ciò, mi richiamo a quanto sostiene sull'argomento Cornelius Castoriadis. Questo pensatore greco-francese, nel suo recente libro Devant la guerre (Fayard, Paris 1982), ritiene che nei paesi dell'Est non siamo più in presenza di un regime tipicamente totalitario, ma piuttosto dinanzi all'emergenza di un diverso sistema (post-totalitario), che egli chiama "stratocrazia", società dominata dall'esercito (stratòs in greco). Castoriadis enuncia una serie di fatti evidenziatisi nei paesi "socialisti" che supporterebbero la tesi di una mutazione del regime totalitario:
a) fine del terrore di massa (le deportazioni, i processi e le esecuzioni di milioni di persone);
b) fine del delirio staliniano e declino dell'ideologia (è la menzogna che domina), nel senso che non si cerca più un controllo positivo totale sulla realtà (il regime ha rinunciato a controllare l'anima e il pensiero della gente);
c) non esiste più il Führerprinzip (ciò che Solgenitsin chiama l'egocrate) (1).
Il regime post-staliniano ha rinunciato alla super-socializzazione forzata della gente (non li si trascina più a forza alle riunioni). Il regime spinge gli individui verso la privatizzazione, verso piccole carriere personali, verso il piccolo giardino personale se ce l'hanno e verso la vodka (2). Il progetto di una "maîtrise totale" della società ha dovuto essere abbandonato. Lo scopo della "maîtrise" viene ancora perseguito, ma come "maîtrise extérieure".
Questo regime, allora, che non mira più all'omogeneità e all'unificazione assoluta e che, come dice Castoriadis, è diventato "pavloviano-skinneriano", può ancora dirsi totalitario nel senso in cui lo era lo stalinismo? A me pare che sia sensato rispondere negativamente a tale interrogativo, se riteniamo che terrore indiscriminato e delirio dell'ideologia (ciò che Hannah Arendt chiama "logocrazia") siano i caratteri distintivi del totalitarismo (3). Pertanto, onde evitare confusioni sulla sostanza dei fenomeni sociali che appaiono diversi, assumerò il termine "post-totalitario" per definire l'attuale sistema dei paesi "socialisti". "Post-totalitario" non significa però "non-totalitario"; il prefisso "post" indica l'evoluzione del sistema e non già la rottura rispetto ad esso. Fra "totalitario" e "post-totalitario" non vi è soluzione di continuità.

Partito unico, stato, società
Di solito, nella letteratura giornalistica che fiorisce negli Stati dell'Occidente, il sistema di governo dei paesi dell'Est europeo in cui vige (per dichiarazione delle sue autorità e della sua classe intellettuale) il "socialismo reale", viene definito una dittatura, la dittatura in questo caso di una burocrazia politica sopra una società livellata. Questa forma di governo (dittatura) fonderebbe il proprio potere su strumenti apertamente pesantemente repressivi e risulterebbe riconoscibile dal fatto che la stragrande maggioranza deve soltanto negativamente conformarsi al diktat del ristretto gruppo di governanti e subire l'ideologia di questi. Di conseguenza - se così fosse -, basandosi essenzialmente sulla repressione e sull'inerzia forzata delle masse popolari, e avendo il proprio centro in una cerchia determinata di uomini investiti di un potere enorme, l'esistenza di questa forma di governo avrebbe un elevato tasso di provvisorietà perché sarebbe legata alla vita delle persone che l'hanno instaurata. In verità, il sistema dei "paesi socialisti" ha ben poco di provvisorio e ben poco in comune con un regime dittatoriale (quello che Reinhardt Künhl chiama dittatura "reazionaria", Franz Neumann dittatura "semplice" e Havel "classica"). Ciò non esclude che nei momenti più acuti di crisi politica il regime totalitario si riduca a nudo regime di oppressione, e quindi a dittatura, come è il caso del regime del generale Jaruzelsky in Polonia.
Innanzitutto il sistema politico del "socialismo reale" non ha una estensione limitata e agganciata ideologicamente ad uno specifico spazio nazionale (così come accadeva ai fascismi, il cui "asse" era costantemente insidiato dai rispettivi estremi motivi nazionalistici) ma è comune a tutto l'immenso blocco di potere dominato da una delle attuali superpotenze. Inoltre, se è vero che elemento imprescindibile della dittatura reazionaria è la sua storica instabilità, questo non può essere affermato a proposito del sistema del "socialismo reale". Anche se ormai da tempo esso si è allontanato da tutti i movimenti sociali originari dal cui retroterra sociale e ideale era nato, tuttavia l'autenticità di quei movimenti gli offre una innegabile stabilità storica.
Il sistema del "socialismo reale" dispone di un'ideologia assai più concisa, logicamente strutturata, generalmente comprensibile e per sua essenza molto elastica, la quale per la sua globalità e il suo esclusivismo assume quasi la portata di una religione secolarizzata: offre all'uomo una risposta pronta a qualsiasi domanda, e l'abbracciarla incide profondamente sull'esistenza umana. "Bisogna (...) star attenti a non definire la dittatura totalitaria semplicemente come il regno della violenza. Senza di essa, è vero, simili regimi non potrebbero sopravvivere, ma sarebbe parimenti impossibile che durassero a lungo se non esistesse una notevole identificazione da parte del popolo oppresso con i suoi governanti" (4). Qui troviamo il dato che accomuna i regimi fascisti e quelli "socialisti". Il parallelo tra essi si pone non nella loro qualificazione come "dittatura" (come regimi politici governati essenzialmente dal terrore esercitato da un pugno di uomini sul resto della società), ma nel dato della confusione (a) del partito unico con lo Stato e (b) dello Stato con la società. Nazionalsocialismo tedesco, fascismo italiano, socialismo sovietico, in maniera pressoché identica seppur con una ideologia di riferimento differente, costituiscono "il tentativo di avvolgere tutta la società in una rete capillare di organizzazioni di massa, che dovrebbe permettere di raggiungere organizzativamente, di plasmare ideologicamente e di controllare politicamente il più possibile ogni gruppo sociale" (5).

Quel fruttivendolo nel cuore di Praga
In mancanza di ogni effettivo meccanismo istituzionale di collegamento tra potere politico e società, là dove lo stesso meccanismo rappresentativo borghese è bloccato dalla presenza del partito unico, il collegamento deve instaurarsi attraverso un rituale ideologico denudato di qualunque riferimento giuridico. Non solo, ma il sistema, annullando la tradizionale distinzione tra società e Stato (e dunque promuovendo l'integrale politicizzazione della società) non può sopravvivere della mera attività negativa dei sudditi, e deve coinvolgerli totalmente nel movimento dei suoi meccanismi. "È insito nel sistema post-totalitario il coinvolgere ogni uomo nella struttura del potere, non perché vi realizzi la propria identità umana, ma perché rinunci ad essa a vantaggio dell'"identità del sistema", cioè perché diventi un consupporto di tutta l'"autocinesi", un servo della sua autofinalità, perché ne condivida la responsabilità e si trovi coinvolto e invischiato proprio come Faust con Mefistofele (...). In questo modo trascina tutti nella propria struttura di potere, di essi fa lo strumento del totalitarismo reciproco, dell'"auto-totalitarismo" sociale" (6).
L'ideologia qui non è né (a) "falsa coscienza" né (b) "dottrina politica operante nella pratica" (ovvero "un insieme di principi ideali e di assunti e interpretazioni di fatto, più o meno coerente, che si riferisce all'ordine politico e ha la funzione di guidare i comportamenti politici collettivi" (7)), bensì simbologia legittimante e occultante il potere: un corpo di principi che ha il compito di mobilitare le masse sugli obiettivi del potere ma che non è il vero corpo dei principi direttivi l'azione del potere, esso nello stesso tempo legittima il potere e lo nasconde nei suoi veri fini. Così definita, l'ideologia non è pero caratteristica esclusiva del sistema del "socialismo reale" ma di ogni sistema di potere. Il potere è comunque menzogna in quanto è comunque consenso, e per ottenere questo deve innalzare una cortina fumogena (l'ideologia) attorno alla sua vera natura (ai suoi fini) e mostrarsi lì dove esso non è e con modi che esso non ha: "Ma lo Stato mente in tutte le lingue del bene e del male; e qualunque cosa dica, mente - e tutto quanto possiede l'ha rubato. Tutto è falso nello Stato; esso addenta con denti che ha rubato, il morsicatore. False sono persino le sue viscere. Confusione delle lingue sul bene e sul male: questo segno io vi dò come segno dello Stato" (8).
Nei "paesi socialisti" l'ideologia è la materia energetica che rende possibile, coinvolgendo ed attivando i cittadini, il movimento dei meccanismi del sistema che si va facendo vieppiù totale: essa è al tempo stesso (a) alibi che fornisce legittimazione al sistema, e (b) principio di coesione dell'intero che sempre più acquista i connotati di vero e proprio quadro di riferimento formale. L'ideologia diviene un alibi-ponte tra sistema e individui che occulta in pari tempo la ferocia e il vuoto morale (e sociale) del primo e la miseria quotidiana dei secondi. All'uno consente di legittimarsi e di estorcere consenso, agli altri di sopravvivere subendo una parvenza di dignità umana. "L'ideologia - come l'"alibi-ponte" lanciato fra il sistema e l'uomo - copre l'abisso fra intenzioni del sistema e intenzioni della vita; dà ad intendere che le pretese del sistema derivano dai bisogni della vita: è una specie di mondo dell'"apparenza" che viene spacciato per realtà" (9).
Per spiegare il significato dell'ideologia nei "paesi socialisti", Havel si serve di un esempio: un negozio di fruttivendolo nel cuore di Praga. Qui, tra la frutta e la verdura, su una parete il fruttivendolo ha attaccato un cartello, bizzarro a vedersi in quell'ambiente; vi è scritto "Proletari di tutto il mondo unitevi!". Che senso ha, nella Cecoslovacchia di Husak, in una rivendita di frutta e verdura, attaccare un cartello con le ultime parole del "Manifesto" di Marx? Forse il fruttivendolo ha voluto ribadire la sua fedeltà al regime. È probabile; ma perché con quel cartello, con una frase che negli anni ottanta e in un regime imposto dai carri armati sovietici non ha certo un grosso riscontro nella realtà? E sapendo poi che la gente che entra a farvi degli acquisti di patate e di cavoli nemmeno vi posa sopra lo sguardo, o comunque lo degna di un'attenzione superficiale. La risposta è allora che, attraverso quel cartello, il fruttivendolo, piuttosto che crudamente scrivere "obbedisco" e ammettere la propria miseria e l'altrui violenza, così eleva il piano del rapporto che intercorre tra lui e il sistema, lo ideologizza col doppio effetto di non degradarsi e di illuminare di grandi idealità il volto privo di espressione del sistema. Ambedue, pertanto, individuo e sistema, suddito e sovrano, rimandano ad uno spazio superiore il senso del loro ruolo e del loro "status".

La moltiplicazione delle gerarchie
Non è vero che il sistema post-totalitario (per mantenere la definizione di Havel), come la dittatura, si basi sull'esclusione delle masse dalla vita politica. La necessità dell'attivazione delle masse, che è l'effetto della totalità dello Stato, oltre a esaltare il ruolo dell'ideologia come materia energetica che alimenta i movimenti del sistema, comporta - è quasi una tautologia - la mobilitazione, la partecipazione delle masse. La gerarchia, che nei paesi capitalisti è essenzialmente di tipo economico (fissata nella quantità di ricchezza posseduta) ed è grosso modo di tipo dicotomico (proletariato-borghesia), qui si fa immediatamente politica e si frammenta ulteriormente. La distanza fra base e vertice verosimilmente non si allunga, la piramide non si modella di più verso l'alto. Se fosse possibile misurare quantitativamente la "distanza politica" tra i cittadini e i loro gruppi dirigenti, è probabile che la distanza fra un operaio di Mirafiori e Gianni Agnelli, o tra un contadino calabrese e un "manager" dell'industria privata o pubblica non risulterebbe superiore a quella che intercorre tra Andropov e un operaio di Togliattigrad o tra un contadino uzbeco e un burocrate del partito. La differenza, nei "paesi socialisti", è marcata dal moltiplicarsi dei livelli intermedi e dalla proliferazione dei gradi politici. Ed in tale proliferazione delle gerarchie sta il senso di ciò che definivo sopra la necessità e la realtà della partecipazione. La capillare organizzazione delle masse (10), la statalizzazione della società produce la moltiplicazione delle gerarchie, e d'altro lato ogni livello gerarchico si attribuisce un pezzo (sia una fetta o una briciola) di potere. "Per questo sistema organizzativo era necessario un gran numero di funzionari, che dovevano organizzare l'attività giù giù fino all'ultima cellula. Così centinaia di migliaia di persone sono state investite di funzioni specifiche e hanno ricevuto l'impressione di essere corresponsabili per la costruzione del grande Reich" (11) (a "Reich" si sostituisca "Stato socialista").
Non esiste nel sistema del "socialismo reale" un luogo dove si decida tutto (anche formalmente) e uno spazio della mera obbedienza. Vi sono invece molteplici livelli decisionali e molteplici competenze alle quali contribuisce l'attività delle masse. Ma queste competenze sono rigidamente inserite nel quadro delle compatibilità e della ritualità del sistema. Tali forme di partecipazione hanno fatto sostenere a qualcuno, a Rita Di Leo ad esempio e a Giuseppe Boffa, che vi sia contraddizione tra questa "autogestione della vita materiale" e lo Stato centralizzato e dispotico. Ma ciò che Boffa chiama l'"autogestione della vita materiale" è nient'altro che l'adesione dei sudditi alle decisioni poste ai diversi livelli gerarchici: la partecipazione cioè è circoscritta a quel particolare livello e non può oltrepassarlo. Si badi, non voglio sostenere che questo potere partecipativo diffuso sia solo apparente, al contrario esso per le competenze cui è rivolto è effettivo, né che si tratti soltanto di cinghie di trasmissione tra vertici e base. La partecipazione si arresta però ai confini delle competenze istituzionalmente fissate, essa non può mettere in discussione la struttura e le misure decisionali della scala gerarchica.
L'organizzazione post-totalitaria è assai complessa, e può essere compresa se ci si rende conto che qui è l'ideologia il quadro di riferimento della costituzione materiale. Da ciò discende che il potere è alla fine dei conti senza volto, anonimo, che questa o quella persona al vertice hanno una relativa importanza, e ciò che è fondamentale è invece il rituale e il quadro di compatibilità entro cui quelle persone si muovono. D'altro canto, il sistema si fa auto-cinetico, poiché l'ideologia fa sì che base e vertice si muovano automaticamente entro il ruolo che il rituale loro assegna. "Ma invischiati e schiavizzati sono davvero tutti: non solo il verduraio, ma anche i capi dei governi. La diversità di posizione nella gerarchia del potere determina soltanto una diversità di vincolo: il verduraio è invischiato poco, ma detiene anche uno scarso potere; il capo del governo, ovviamente, ha un potere maggiore, ma proprio per questo è legato molto di più. Insomma nessuno dei due è libero ma ognuno dei due in un modo un po' diverso. In questo legame, quindi, il partner più appropriato dell'uomo non è l'altro uomo, ma il sistema come struttura finalizzante a se stessa. La posizione nella gerarchia del potere differenzia gli individui per ciò che riguarda responsabilità e colpa: a nessuno però dà una responsabilità e una colpa incondizionata e d'altra parte non esonera pienamente nessuno dalla responsabilità e dalla colpa" (12).

Il potere è ubiquo
Nel suo studio della struttura elementare del potere, Giulio Chiodi rende graficamente tale struttura con la formula D/S dove D sta per lo spazio del dominio e S per quello del suddito e la linea di frazione rappresenta la soglia del dominio. Là dove lo spazio del dominio viene formalizzato attraverso procedure giuridico-amministrative esso viene indicato come d, parimenti là dove sia lo spazio del suddito a subire un processo di formalizzazione questo sarà indicato con s. Così, la formula ideologica del regime liberale sarà d/S, dove lo spazio del dominio è formalizzato attraverso la costituzionalizzazione dei processi decisionali e la forma di legge. Ma, poiché secondo tale autore "dove il detentore è formalizzato, è sempre il detentore apparente: il vero detentore è occulto" (13), la formula reale del regime liberale non sarà d/S bensì d/S (D) dove (D) sta ad indicare il detentore occulto del potere, che, in regime liberale, si troverà appunto nello spazio del suddito, della società civile, settori della quale riescono a condizionare lo spazio formalizzato del dominio (lo Stato di diritto). Per converso, mentre la formula ideologica del regime collettivista è d/DS "in cui d indica sempre un detentore formalizzato e DS indica l'identificazione - si potrebbe parlare addirittura di identificazione interiorizzata nell'individuo - di detentore e suddito" (14), la sua formula reale è d(D)/S dove il detentore occulto (effettivo) del potere si situa nello spazio del dominio, cioè entro la struttura politico-burocratica.
Chiodi, poi, sostiene che la formula d/s (D) è la formula tendenziale generale dei principali sistemi politici odierni, considerata la promiscuità Stato-società che è presente sia nei regimi tardo-capitalistici che più accentuatamente nei regimi del "socialismo reale", "dove con s minuscola, analogamente a d, si vuole indicare che lo spazio S subisce la formalizzazione impostagli dal processo di burocratizzazione generalizzato, per il quale i soggetti di S vengono costruiti come figure soltanto astratte, sussunte nelle modalità e nelle dinamiche proprie dell'organizzazione" (15). E qui giungiamo al punto che ci riguarda: il processo di burocratizzazione fa sì che lo spazio del dominio e quello del suddito si facciano sempre più rarefatti, che astraggano dalle qualità e dalle particolarità dei soggetti che li occupano, e che sia il sistema complessivo a determinare la figura sociale e il movimento. Così il potere diviene anonimo e autocinetico, dove lo spazio effettivo, il detentore reale del potere è nella struttura complessiva, e, di conseguenza, nell'elemento unificante di questa: l'ideologia. Il potere effettivo (D) si è svincolato dalle figure formalizzate d e s e risiede al di fuori della linea di frazione.
Si può affermare che il sistema post-totalitario è al servizio dell'uomo solo nella misura in cui ciò è indispensabile perché l'uomo sia al servizio del sistema. In questo contesto il sistema post-totalitario, con le sue pretese, tocca l'uomo quasi ad ogni passo (il potere è ubiquo), e lo tocca con i guanti dell'ideologia. Pertanto in esso, in maniera superiore rispetto a quanto avviene in ogni altra società con le sue convenzioni, la vita è percorsa da una rete fittissima di ipocrisia e di menzogna: il potere della burocrazia si chiama potere del popolo, la classe operaia viene resa schiava in nome della classe operaia, le truppe di invasione marciano al canto dell'Internazionale, il primo maggio vede sfilare sulla Piazza Rossa missili a testata nucleare, gli avversari sono sempre e comunque "controrivoluzionari" o "elementi antisociali", i dissidenti criminali o malati di mente; e Breznev riceve il premio Lenin per la letteratura per le sue memorie, mentre Bulgakov al quale non è concessa la razione di carta deve scrivere sui muri della sua camera. Accade come in Oceania Fascia Aerea n. 1 dove i tre slogan del Partito sono: La guerra è pace, La libertà è schiavitù, L'ignoranza è forza.
In questo Super-Stato vi sono solo quattro ministeri in cui è divisa l'intera organizzazione governativa: "Il Ministero della Verità che si occupava della stampa, dei divertimenti, delle scuole e delle arti. Il Ministero della Pace, che si occupava della guerra. Il Ministero dell'Amore che manteneva l'ordine e faceva rispettare la legge. E il Ministero dell'Abbondanza che era responsabile dei problemi economici" (16). Qui pace sta per guerra, verità per menzogna, amore per repressione e tortura, abbondanza per miseria e razionamento.
L'uomo è costretto a vivere nella menzogna resa eloquente nel cartello attaccato dal fruttivendolo alla parete della sua rivendita. L'ideologia come l'interpretazione della realtà fornita dal potere è sempre subordinata all'interesse di questo, essa ne costituisce un fattore e un sostegno sempre più importante. L'ideologia acquista una propria forza reale, diventa essa stessa realtà, anche se una realtà sui generis, che a certi livelli ha un peso maggiore della realtà in quanto tale. Il potere anonimo, cosi, si riferisce più all'ideologia che alla realtà: trae la propria forza dalle sue tesi, dalle sue tesi dipende il suo sviluppo. Ne consegue che alla fine tesi e ideologia cessano di essere al servizio del potere, e quest'ultimo comincia ad essere al loro servizio. Se l'ideologia è la principale garanzia della consistenza interna del potere, essa diventa anche la garanzia sempre più decisa della sua continuità.

Rifiuto del politico e legalità
Possiamo compendiare i caratteri del dissenso (e il contenuto della rivendicazione dei "minimi") nei paesi del "socialismo reale" come segue. Primo carattere dei movimenti del dissenso è il rifiuto della politica (intesa questa come lotta per il potere politico). Il rifiuto della politica significa: da un lato il rifiuto della dimensione istituzionale (il governo) e perciò dell'intervento a questo livello; dall'altro il rifiuto della dimensione totale dell'azione sociale (del "sistema"), là dove la concreta considerazione della qualità della vita di ciascun individuo è subordinata alla astratta analisi del quadro sociale complessivo e il miglioramento di quella qualità è subordinato alla trasformazione totale del sistema.
Il rifiuto della politica espresso nella rivendicazione dei diritti dell'uomo ha le sue radici nello "scetticismo verso il modo di pensare fondato sull'idea che si possano ottenere cambiamenti sociali reali solo a condizione di un cambiamento (in qualunque modo) di sistema oppure di governo e che tale cambiamento - in quanto fondamentale - giustifichi anche il sacrificio di quanto è "meno fondamentale", cioè la vita umana" (17). Qui, nel rifiuto della politica come dimensione totalizzante dell'azione sociale, il rispetto per la vita reale dell'uomo prevale sulla considerazione per il proprio progetto teorico; nell'inversione di quest'ordine di prevalenza "sta il potenziale pericolo di un nuovo asservimento dell'uomo" (18). A partire da questa posizione di rifiuto del livello istituzionale come terreno privilegiato dell'azione sociale e della dimensione "totale" dell'azione politica risultano inadeguate a definire quest'attitudine le categorie di "riformista" e "rivoluzionario".
Secondo carattere del dissenso è la rivendicazione della legalità del sistema politico (ciò che Havel chiama "sicurezza giuridica" e che noi diremmo "certezza del diritto"). Ma - lo stesso Havel non sfugge a questa domanda - che senso ha appellarsi alla legge in una situazione in cui la legge non è nient'altro che una facciata dietro la quale si cela il pugno di ferro e l'arbitrio del potere? "Ha senso appellarsi alle leggi quando queste - e in particolare quelle universali che concernono i diritti umani - sono solamente una facciata, la parte integrante del mondo dell'"apparenza", puro gioco, dietro cui si cela solo una manipolazione totalizzante" (19)? Questo richiamarsi alla lettera della legge non sarà forse una forma di esercizio di quello "ius murmurandi" ammesso anche nei regimi più oppressivi, "un borbottare alla Svejk, insomma un altro modo di accettare il gioco proposto e un'altra forma di assoggettamento" (20)? E come si concilia questo richiamarsi alla legge, strumento dell'ideologia dominante, col principio della "vita nella verità" che sovrintende, secondo Havel, alla lotta per i diritti dell'uomo?
A questo punto bisogna interrogarsi sulla natura e sulle funzioni del diritto nel sistema post-totalitario. Nelle dittature classiche il potere si realizza immediatamente, per due ragioni essenziali:
(a) perché il potere non pretende di sottomettere o di finalizzare a se stesso l'intera società e di assorbirla nel suo apparato, ma solo di intervenire su di essa (sia pure brutalmente) per correggerne quelle dinamiche che gli risultano scomode, dimodoché la società continua a vivere una sua autonomia (sia pure sempre sotto la spada di Damocle della repressione),
(b) perché il potere non ha pretese ideologiche nuove, non pretende di creare l'uomo nuovo, ma si basa anzi sull'antico sistema di valori tradizionali esasperandone il lato autoritario (Dio Patria Famiglia).
A differenza, quindi, delle dittature in cui la legge non assolve né alla funzione di riorganizzazione della società (che è lasciata abbastanza in balia di se stessa) né a quella di copertura e legittimazione ideologica, "il sistema post-totalitario invece è ossessionato dal bisogno di legare ogni cosa con un regolamento" (21).
Vediamo di volgere al positivo queste determinazioni negative del diritto nel sistema post-totalitario, di ricavare cioè ciò che esso è da ciò che esso non è. L'ordinamento giuridico del "socialismo reale" è innanzitutto una delle forme in cui si manifesta il dominio della menzogna, il dominio dell'ideologia che è come il cemento che tiene insieme la costruzione politica: il sistema del potere anonimo proprio in quanto basato sul "diktat del rituale" esalta del diritto la funzione idelogico-rituale e la sua astrattezza. Mentre ancora nello Stato liberal-democratico la legge è agganciata a un riferimento fisico, umano, il legislatore, nel sistema post-totalitario la legge è la pura forma dei suoi movimenti e nello stesso tempo l'inserzione dell'ideologia nella macchina politica. La legge cioè è un rituale e allo stesso tempo vale come circolare amministrativa: il suo lato esterno è meramente ideologico e il suo uso concreto, la sua funzione normativa è interna (interna all'apparato amministrativo, ed è perciò che la legge diviene una circolare). Nello Stato liberale la funzione della legge è di proteggere la sfera privata dei cittadini e quindi di regolamentare alcuni (non tutti) rapporti tra i cittadini e tra i cittadini e i pubblici poteri, nello Stato post-totalitario (e sempre più anche nello Stato democratico) la funzione della legge è di regolamentare le attività degli organi statali, posto che la tradizionale distinzione tra società politica e società civile è venuta meno.
D'altra parte, mentre nello Stato liberale la legge è neutra, svincolata dalla moralità, nel sistema post-totalitario questi due piani vengono nuovamente sovrapposti, la legge è un'espressione dell'ideologia comunista (che assume in sé i caratteri della "scienza" e dell'etica). Questa tendenza all'ideologizzazione della legge è presente, più sfumata, anche nei regimi tardo-democratici, là dove per la determinazione dei contenuti normativi si rimanda ai principi politici che reggono il sistema. A questo proposito Franz Neumann intravvedeva tale tendenza già nella Repubblica di Weimar con l'aggancio delle norme di legge ai "legal standards of conduct" e la vittoria di questi su quelle. "Gli standard giuridici di comportamento cambiarono l'intero sistema giuridico. Riferendosi a valori extra-giuridici essi distrussero la razionalità formale del diritto. Essi fornirono al giudice poteri discrezionali stupefacentemente ampi e distrussero il legame fra potere giudiziario e potere amministrativo, così che le decisioni politico-amministrative presero la forma di normali decisioni giudiziali" (22).
La legge è, dunque, in questo nuovo contesto, ideologia, alibi: "l'infimo" esercizio del potere si avvolge nel manto della propria "lettera"; crea l'affascinante illusione della "giustizia", della "tutela della società" e il regolamento oggettivo dell'esercizio del potere per poter nascondere l'essenza reale della prassi giuridica: la manipolazione post-totalitaria della società" (23). In realtà, anche nello Stato liberale la legge assolve una funzione ideologica, dietro la neutralità della norma si cela il dominio di una classe sul resto della società: la neutralità della norma (ovvero la sua generalità) serve a mantenere il gioco della concorrenza tra liberi imprenditori e a liberare un nuovo soggetto sociale dai vincoli feudali (la forza lavoro come libero contraente, ma dal punto vista formale). L'uguaglianza formale dinanzi alla legge, se da un lato serve al funzionamento del sistema capitalista assicurando il gioco del mercato, d'altro lato vela la realtà della diseguaglianza sostanziale: la neutralità, sia pure indirettamente, è essa stessa ideologia. Tuttavia, nel sistema post-totalitario, la funzione ideologica viene assunta direttamente dalla norma, che non si dichiara più neutrale ma diretta alla realizzazione dell'uguaglianza sostanziale. Così, nello Stato liberale la norma non mentiva, essa semplicemente taceva su una parte della realtà sociale; nel "socialismo reale" essa in prima persona è menzogna.
La norma liberale dice la verità, poiché non si pronuncia sulla realtà sociale. Essa dice l'uguaglianza dinanzi alla legge, e dice una verità, ma tace su ciò che sottende il piano formale, sulla stratificazione di classe. La norma post-totalitaria, invece, mente sempre. Essa si pronuncia sulla realtà sociale, poiché assume di essere l'arma di una parte sociale per la sua emancipazione o lo strumento regolativo di una società senza classi: il riferimento al contenuto della vita sociale è esplicito ma falso. Essa non tace, ma mente .
Nello Stato liberale, contrassegnato dalla presenza parallela di una vivace società civile, la legge ha come caratteristica specifica la generalità: essa è, cioè, un provvedimento diretto alla generalità dei cittadini al fine di stabilire le condizioni, il quadro normativo entro il quale deve esplicarsi la loro autonomia. La generalità della legge rimanda all'autonomia contrattuale, la legge prende così corpo nella vita sociale attraverso la libera iniziativa e l'incontro delle volontà dei soggetti privati. La differenza fondamentale delle due sfere della legislazione e dell'amministrazione sta proprio qui: nell'una vige il principio della generalità del provvedimento, nell'altra il principio della specificità. Il provvedimento amministrativo non rimanda all'autonomia delle parti, ma l'annulla. Ma la generalità della legge per potersi dispiegare ed avere efficacia (essere cioè veramente generale) presuppone da un lato l'uguaglianza dei soggetti cui si riferisce, e quindi all'interno del sistema capitalistico una situazione in cui gli imprenditori siano tra loro grosso modo di eguale forza economica, e d'altro lato una rigida delimitazione dei poteri dello Stato (ovvero una situazione in cui le competenze di quest'ultimo siano ridotte il più possibile) onde consentire il dispiegarsi dell'autonomia contrattuale, ovverosia dell'azione che fa da tramite tra norma generale e condotta umana e rende possibile la prima specificandola, cioè le consente pur rimanendo generale di aver efficacia nei diversi (specifici) campi e momenti della vita sociale.

Più burocrazia più norme
Ma già con lo sviluppo del sistema capitalistico e il formarsi dei monopoli la prima condizione che rende possibile la generalità della legge viene a cadere: non siamo più dinanzi a soggetti di eguale forza economica, ma all'interno stesso della classe capitalistica (della forza lavoro qui non si fa questione) si sono formate delle rilevanti ineguaglianze. "In un sistema organizzato monopolisticamente (...) la legge generale non può avere la preminenza assoluta. Se lo stato si trova di fronte un monopolio non ha senso regolarlo per mezzo di una legge generale. In un caso del genere il provvedimento individuale è l'unica espressione appropriata del potere sovrano" (24). In una tale situazione alla coppia legge-contratto si sostituisce il provvedimento unilaterale dell'amministrazione che può, o no, a seconda della sua importanza, rivestirsi della forma della legge, che è ormai solo mascheramento ideologico.
Il passaggio dalla legge al provvedimento amministrativo si fa più accentuato quando viene a cadere la seconda condizione che rende possibile la generalità della legge: la limitazione delle competenze dello Stato e il dualismo in qualche modo conflittuale tra Stato e società. In una situazione di monopolio, infatti, tale dualismo continua a sussistere, seppure fortemente modificato, per il lato della società civile, e con la società civile sopravvive mutato nella propria sostanza la figura del contratto (si pensi, ad esempio, alla proliferazione dei contratti per adesione e per formulari). Ma, quando il dualismo si attenua e scompare, come nel caso delle società del "socialismo reale", la trasformazione della legge è completa. Qui mancano entrambe le condizioni per la sussistenza della legge generale: l'autonomia contrattuale non è più possibile perché è venuto a cadere il suo presupposto strutturale, uno spazio sociale distinto da quello statale. D'altro canto in un'organizzazione sociale che si identifica grosso modo con quella statale non vi è alcuna uguaglianza di soggetti, ma il loro disporsi secondo la scala gerarchica tipica della struttura statale.
Così, la legge, nel contesto del "socialismo reale", è, oltre che (1) ideologia (o alibi), (2) strumento di comunicazione interna del potere e svolge nell'immenso arcipelago burocratico dello Stato-società una funzione analoga a quella svolta dal contratto nell'ambito dell'arcipelago proprietario della società borghese ("Il contratto pone termine all'isolamento dei singoli proprietari e costituisce un mezzo di comunicazione tra di loro" (25)). Nel sistema del "socialismo reale", la legge è uno strumento tecnico che permette allo Stato di organizzarsi aderendo ad ogni piega della società: lo Stato-società ha bisogno di una immensa burocrazia, e questa va regolata, gestita, coordinata, e la legge svolge questa funzione di coordinamento. Essa è ora una circolare amministrativa, provvedimento diretto non più ai cittadini ma ai funzionari dello Stato. D'altra parte, l'estendersi della razionalità organizzatrice all'intera società significa proprio una proliferazione di norme che tendono a ricoprire ogni spazio della vita sociale. Il cane si morde la coda: l'estensione della razionalità statale significa più norme, più norme comportano più burocrazia, più burocrazia necessita più norme.
Il parallelo tra regime democratico e regime totalitario, già più volte enucleato (26), può servire a chiarirci ulteriormente le idee sulla natura del sistema politico post-totalitario. Scriveva Guido De Ruggiero: "La figura tradizionale della tirannide, così com'è stata ritratta dagli scrittori del passato, e come del resto s'è manifestata nella storia fino a tempi recenti, è quella di una forma sopraffattrice ma esterna ed effimera, che esige una conformità esteriore di atti e di parole, ma si disinteressa dell'interiorità spirituale, che non potrebbe neppure raggiungere coi propri mezzi, e che lascia in balia di se stessa, quasi a titolo di compenso o di sfogo alla tensione prodotta dal rigore delle leggi. La tirannide democratica mira invece diritto allo spirito. Essa esige il consenso, senza del quale la sua azione sarebbe inefficace (...). Che la società sia tutto e che debba quindi riassumere in sé ogni cosa è un principio che non si può attuare solo dall'alto, per mezzo del governo, ma che richiede una generale collaborazione del pubblico, quindi una reciprocità di odi, invidie, di delazioni. La tirannide democratica trova in ogni cittadino un poliziotto e pertanto non ha limite alla sua estensione (...).Essa non si esercita solo solo sugli atti, ma anche, in special modo, sulle opinioni, appunto perché di opinioni è intessuto ii prestigio della democrazia, ed ogni divergenza, ogni singolarità appare facilmente come un tentativo di sovvertire lo Stato" (27).

Nel regno della menzogna
Se la democrazia deve esercitare il proprio potere/controllo non solo sugli atti ma anche sulle opinioni, poiché di opinioni è intessuto il suo essere, e di collaborazione/partecipazione necessita il suo tentativo e la sua tendenza a fare che "la società sia tutto", tanto più ciò è presente nei sistemi del "socialismo reale" là dove l'ideologia (ovvero l'opinione ufficiale e legittima della società) è il cemento e il lubrificante della macchina statale. Se nella democrazia ogni singolarità di opinione può apparire come un tentativo di sovvertire lo Stato, nel sistema del potere anonimo ogni opinione che diverga dall'ideologia ufficiale, e ogni opinione puramente individuale, costituisce già di per sé un conato "controrivoluzionario". "La "vita della menzogna" può funzionare come pilastro del sistema solo se è caratterizzata dalla universalità; deve abbracciare tutto, infiltrarsi in tutto; non è possibile alcuna coesistenza con la "vita nella verità"; ogni evasione da essa la nega come principio e la minaccia nella sua totalità" (28). Qui, dunque, affondano le radici dell'affermazione che Havel fa della verità come primo diritto da rivendicare, e come fatto scardinante il regime. Nel sistema post-totalitario per opposizione può intendersi quell'insieme di persone o di gruppi che, all'interno della struttura del potere, sviluppano segretamente un conflitto di potere con i livelli superiori. Tuttavia, propriamente, opposizione è ogni tentativo di vita nella verità. In ciò opposizione e dissidenza vengono a coincidere (29).
In un regime che abbia il monopolio delle coscienze nulla può la mera violenza e la rivolta armata, a prescindere dalla considerazione dell'apparato repressivo quasi onnipotente di uno Stato che non trova più resistenze istituzionali nel tessuto sociale ed ha quindi la capacità di far leva sull'intera forza sociale. In tale situazione ciò che è possibile, ed insieme è necessario fare è di riabilitare, di disseppellire valori quali la fiducia, la sincerità, la responsabilità, l'amore, la solidarietà tra i membri del corpo sociale i cui canali di comunicazione sono immersi nel collante ideologico di Stato. Non è un caso che gli operai di Danzica all'indomani dell'"agosto polacco", quando devono dare un nome al loro giornale, scelgano quello di "Solidarnosc". L'importante è creare strutture di affermazione e di comunicazione della verità che mettano in crisi i circuiti dell'ideologia ufficiale, e quindi puntare a socializzare l'individuale asserzione della verità (il fondo dell'opposizione, dunque, è morale) e giungere a strutture che siano orientate non all'aspetto tecnico del potere, ma al significato che deve assumere il suo esercizio, strutture che si basino sulla percezione comune di adempimento dei significati individuati ed accettati come giusti e razionali, comunità prese dal senso del loro stesso esistere piuttosto che da ambizioni espansionistiche verso il "fuori".
L'occidentale che legge il "samizdat", i documenti del dissenso sovietico o degli altri paesi dell'Est comunista, spesso rimane disorientato dalla portata minima delle rivendicazioni dei dissidenti (30); egli è abituato a ragionare in termini di riforma, di rivoluzione e comunque di globalità, o di totalità del progetto politico. Non si raccapezza più quando legge, ad esempio, le richieste contenute nella Charta '77 (31), che non vogliono nient'altro che l'applicazione da parte del governo cecoslovacco dei principi contenuti nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948), nel "Patto internazionale sui diritti civili e politici" e nel "Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali" (entrambi approvati dalla medesima assemblea nel 1966). Così, l'occidentale è portato a concludere che il dissenso nell'Est "si limiti" a rivendicare un ritorno sic et simpliciter alle democrazie parlamentari, alle libertà cosiddette borghesi, e dunque ad una pratica legalitaria più coerente. Tuttavia, queste rivendicazioni inserite in quella realtà politico-sociale sono in grado di darci nuovi e migliori schiarimenti su ciò che viene chiamato da più parti "libertà borghese", e sulla effettiva portata dei diritti dell'uomo, cioè di una serie di facoltà più o meno pretese da e assicurate all'individuo come tale, rispetto all'azione dello Stato.

Quando la riforma è rivoluzione
Questi diritti trovano il loro primo fondamento nella rivalutazione dell'individuo, nel suo svincolarsi dal "sistema della menzogna", e nel suo sforzo di vivere momenti di verità. Per riprendere l'esempio del fruttivendolo fatto sopra, questi rivendica con efficacia un diritto e fa sì che questo si traduca in effettiva autonomia rispetto al potere, non quando ottiene che quei diritti siano sanciti nella Gazzetta Ufficiale, ma quando egli stesso avrà fornito loro un appiglio per farsi realtà. Potrà validamente esercitare/rivendicare quei diritti cominciando a togliere quel cartello "Proletari di tutti i paesi unitevi!" che per inerzia, per l'automatismo che dal potere si trasmette agli individui e viceversa, egli aveva messo in bella mostra sulle pareti della sua bottega. Così, la rivendicazione dei diritti dell'uomo diviene non solo una pratica politica, ma immediatamente una pratica morale ed esistenziale, agganciata saldamente all'essere etico di ciascun individuo ed alla quotidianità del "qui ed ora". "Nel sistema post-totalitario il campo reale della politica potenziale è qualcosa d'altro: la tensione continua e lacerante fra le pretese totalitarie del sistema e le intenzioni della vita, cioè il bisogno elementare che l'uomo ha di vivere almeno in una certa misura in sintonia con se stesso, di vivere così semplicemente, senza essere umiliato da superiori e da uffici, senza essere continuamente controllato dalla polizia; potersi esprimere più liberamente, poter realizzare la propria creatività naturale, avere una sicurezza giuridica e così via (...). Gli uomini che vivono in un sistema post-totalitario sanno fin troppo bene che ciò che conta non è se al potere c'è un partito o più partiti e il nome che essi hanno, ma se si può o non si può vivere umanamente" (32). La rivendicazione della legalità del sistema politico (uno dei caratteri sopra individuati del dissenso) significa, nel contesto dei "paesi socialisti", rivendicazione dei diritti dell'uomo, di limiti all'invadenza del potere (33).
In un sistema chiuso al pluralismo dei gruppi sociali e delle idee , la tradizionale differenza tra riforma e rivoluzione viene a cadere. La riforma, posto che essa parta dal basso della società e non sia mero processo di adattamento/razionalizzazione del sistema (vedi, ad esempio, il modello di Kadar in Ungheria), è per il sistema totalitario tanto sovversiva quanto un tentativo apertamente rivoluzionario (34). Cambiare un pezzetto del sistema, intaccarlo in un punto, significa distruggere la sua totalità, cioè il suo stesso essere. Distaccarsene, prendere le distanze da esso, anche solo moralmente, significa metterne in discussione i fondamenti di legittimazione. Così, anche se le opposizioni popolari in quei paesi rarissimamente si propongono di rivoluzionare completamente il sistema (è il caso anche di "Solidarnosc"), esse sono "oggettivamente" rivoluzionarie nel momento stesso in cui si affermano come opposizione, e cioè
(a) sollevano il velo ideologico del sistema,
(b) interrompono l'autocinesi del sistema ovvero ne intaccano la totalità (35).
Ecco perché, immancabilmente, prima o dopo, presto o tardi, su quelle opposizioni si abbatte il pugno di ferro della repressione.
D'altro canto, tale situazione ci illustra assai bene il valore di quei diritti, di quelle piccole parziali rivolte, che troppo spesso sono state disprezzate e derise, il valore stesso della forma giuridica, perché "si vede (...) alla prova dei fatti, che fra libertà cosiddetta "astratta" e libertà cosiddetta "concreta", o c'è un gioco di parole, oppure non c'è differenza alcuna" (36). Come dinanzi al re assoluto, così dinanzi al potere anonimo, all'Organizzazione (37), la libertà di parola, di stampa, di associazione, il diritto a una propria sfera privata assumono tutta la loro carica sovversiva ed antiautoritaria (38). Carica, che è sempre dentro di essi, anche nelle democrazie più moderate, che hanno fatto di quei diritti delle "concessioni": essa costituisce la loro interna contraddizione politica. Questo è uno degli insegnamenti - forse il maggiore - che ci viene dall'esperienza di sofferenza e di lotta d'oltrecortina.


(1) Sull'"egocrate", cfr. C. Lefort, L'uomo al bando, Vallecchi, Firenze 1980, in particolare pp. 51-53.

(2) Utilizzo qui alcuni miei appunti della conferenza "Sorti del totalitarismo e imperialismo sovietico" tenuta da Castoriadis a palazzo Dugnani, Milano, il 27 marzo 1982.

(3) Questa è la tesi di Hannah Arendt, sviluppata nel suo celebre libro Le origini del totalitarismo, Comunità, Milano 1967. Anche la Arendt ritiene che dopo Stalin il sistema sovietico non sia più "totalitario" in senso proprio Cfr. H. Arendt, Thoughts on Politics and Revolution. A commentary, in id., Crises of the Republic, Penguin, Harmondsworth 1973, p. 181.

(4) F. Neumann, Note sulla teoria della dittatura, in F. Neumann, Lo stato democratico e lo stato autoritario, Il Mulino, Bologna 1973, p. 345.

(5) R. Kühnl, Due forme di dominio borghese: liberalismo e fascismo, Feltrinelli, Milano 1973, p. 229. Questo studioso di scienza politica così pone la differenza tra i regimi fascisti e le dittature classiche: "L'analisi che abbiamo svolto finora ha mostrato che la dittatura fascista si differenzia notevolmente da altre forme di oppressione reazionaria. Le differenze non riguardano la funzione sociale, che consiste in ogni caso nella salvaguardia dell'ordinamento sociale esistente e dei privilegi delle classi sociali superiori che sono connessi a quell'ordinamento. Ma nella struttura del regime e nei metodi impiegati per conservarlo il fascismo si distacca nettamente dalle forme tradizionali di dittatura reazionaria. Così, mentre, per esempio, le dittature dell'America latina, che sono espresse soprattutto dalla classe superiore feudale, basano il loro potere esclusivamente sull'apparato esecutivo, e cioè sulle forze armate, sulla polizia e sulla burocrazia, il fascismo dispone di un sistema di organizzazioni che gli assicurano una base nelle masse" (op. cit., p. 232). Sulla differenza tra tirannia e totalitarismo, cfr. anche Lefort, op. cit., p. 46.

(6) V. Havel, Il potere dei senza potere, CSEO, Bologna 1979, p. 24.

(7) Così Mario Stoppino nella sua relazione Ideologia e politica alle giornate di studio su "Ideologia e crisi delle istituzioni" (Messina, 10-12 marzo 1980), organizzate dalla Facoltà di Scienze politiche dell' Università di Messina.

(8) F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1976, p. 54.

(9) Havel, op. cit., p. 15.

(10) Il sistema totalitario ha creato "tutta una serie di organizzazioni speciali che dovevano permettergli di rivolgersi, per così dire, individualmente ai diversi gruppi sociali e di fare in modo che ciascuno di essi avesse l'impressione di essere proprio al centro del suo interesse. Le organizzazioni speciali per i medici e per i giuristi, per gli impiegati e gli operai, per le donne e gli adolescenti, costituivano l'ossatura di una struttura organizzativa che, dopo la conquista del potere politico, ha mostrato la tendenza ad abbracciare completamente tutti i gruppi della popolazione" (Kühnl, op. cit., p. 229). Kühnl scrive questo a proposito del regime nazionalsocialista, ma le medesime osservazioni valgono per descrivere la metastasi organizzativa del "socialismo reale".

(11) Kühnl, op. cit., pp. 229-230. "Uomini che fino a quel momento erano rimasti per lo più al di fuori degli avvenimenti politici e che erano stati sempre oggetto della volontà altrui si sono visti affidare responsabilità di comando, e sia pure in un settore ristrettissimo, come responsabili di isolato o incaricati della difesa passiva contro gli attacchi aerei. Così lo stato fascista ha suscitato sentimenti di idealismo e di abnegazione, ha mobilitato le energie di grandi masse, ha dato loro la sensazione di essere soggetti attivi e di essere chiamate a partecipare alle grandi decisioni" (ivi, p. 230).

(12) Havel, op. cit., pp. 24-25. Che il regime burocratico sia la società della "servitù di tutti" è lucidamente presentito da John Stuart Mill: "Ma dove ogni cosa è compiuta per mezzo della burocrazia, nulla può farsi che non piaccia affatto alla burocrazia. La costituzione di tali paesi è l'organizzazione dell'esperienza e dell'abilità pratica della nazione in un corpo disciplinato che ha come scopo il governo del resto del paese; e quanto più tale organizzazione è perfetta in sé, tanto maggiore è il successo che essa riscuote nell'attirare a sé e nell'educare per se stessa le persone delle più grandi capacità provenienti da tutti i ranghi della comunità, tanto più completa è la servitù di tutti, compresi i membri della burocrazia. Poiché i governanti sono tanto schiavi della loro organizzazione e disciplina, quanto i governati lo sono dei governanti. Un mandarino cinese è strumento e creatura del dispotismo altrettanto quanto il più umile contadino. Un singolo gesuita è schiavo del suo ordine fino all'estremo limite dell'umiliazione, sebbene l'ordine stesso esista per il potere collettivo e l'importanza dei suoi membri" (J. Stuart Mill, On Liberty, ed. Penguin Books, p. 184). Più sotto Stuart Mill intuisce l'aspetto autocinetico del regime burocratico quando lo definisce "un grande sistema, il quale, come tutti i sistemi, procede dietro norme fisse ed invariabili" (ibidem).

(13) G. Chiodi, La menzogna del potere, Giuffré, Milano 1979, p. 134.

(14) Ivi, p. 138.

(15) Ivi, p. 143.

(16) G. Orwell, Millenovecentoottantaquattro, Mondadori, Milano 1973, p. 28.

(17) Havel, op. cit., p. 66. II rifiuto della politica come rifiuto dell'attività che mira alla conquista del potere politico è comune a tutto il dissenso dell'Est europeo. Cfr G. Konrad, Antipolitik. Mitteleuropàische Meditationen. Suhrkamp, Frankfurt/M. 1985, p. 201 ss.

(18) Havel, op. cit., p.66.

(19) Ivi, p.67.

(20) Ibidem.

(21) Ivi, p.68.

(22) F. Neumann, Behemoth. The structure and practice of National Socialism (1933-1944), Cass, London 1967, p. 446.

(23) Havel, Op. cit., p. 69.

(24) F. Neumann, Mutamenti della funzione della legge, in F. Neumann, Lo stato democratico e lo stato autoritario, cit., p. 279.

(25) Ivi, pp.255-256.

(26) II regime democratico, come regime di massa, conterrebbe in sé i germi di una società illiberale (Tocqueville) e totalitaria (Silone, Arendt). Di Ignazio Silone si legga in proposito La scuola dei dittatori. Considerazioni simili a quella di Silone e della Arendt svolgeva Nicola Chiaromonte (cfr. il suo La morte si chiama fascismo (1935), ora in N. Chiaramonte, Scritti politici e civili,. Bompiani, Milano 1976, in particolare p.65).

(27) G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 361-362.

(28) Havel, op. cit., p. 28.

(29) Per una distinzione tra "opposizione", "contestazione" e "dissidenza" nei paesi socialisti, cfr. I. Yannakakis, Differenze e analogie tra i movimenti del dissenso, in AA.VV., Libertà e socialismo. Momenti storici del dissenso (Atti del convegno sul tema "Libertà e socialismo", Venezia, 15-18 novembre 1977, Sugarco, Milano 1978, p. 145 ss.

(30) Di rivendicazioni "minime" e di programma "minimo" parla, ad esempio, Jacek Kuron, nel suo scritto La situazione attuale e il programma dell'opposizione (1979), ora in AA.VV., Capire Danzica, a cura di P. Bernocchi e F. Bottaccioli, ed. quotidiano dei lavoratori, Roma 1980, pp. 129-133.

(31) Charta '77, CSEO, Bologna 1978.

(32) Havel, op. cit., pp. 42-43.

(33) Su ciò, cfr. N. Chiaromonte, La tirannia moderna (1968), ora in Chiaromonte, Scritti politici e civili, cit., p. 316.

(34) "Nel sistema sovietico le riforme radicali sono più o meno impossibili, perché attuare riforme effettive equivarrebbe a stravolgere la natura del sistema. Anche le riforme parziali, le sole possibili, vengono inevitabilmente vanificate dalla natura del sistema, in quanto non appena esso percepisce di essere minacciato dalle riforme le respinge" (cosi dice Vladimir Maksimov, scrittore sovietico emigrato in Occidente, in un'intervista a cura di G. Stewart, in "La Repubblica" del 18 maggio 1983). Su questo punto, cfr. anche L. Kolakowski, Il socialismo burocratico è riformabile?, in Kolakowski, Marxismo. Utopia e antiutopia, Feltrinelli, Milano 1981, p. 114 ss.

(35) "Il fondamento del totalitarismo è la concezione hegeliana di fronte alla quale lo Stato è la somma di tutte le individualità che non sono singole, che assorbe la totalità degli elementi di un insieme, il regime in cui il potere confisca la totalità delle attività della società che esso domina. Hegel diceva: "Fuori dello Stato il popolo non sa cosa vuole". Il dissenso invece concepisce lo stato come un puro accidente della storia, un elemento contingente e non una necessità. L'individuo trascende la contingenza, è superiore allo stato" (J. Daniel, Il diritto di dire no, in AA.VV, Libertà e socialismo. Momenti storici del dissenso, cit., p. 16).

(36) N.. Chiaromonte, op. cit., p. 316.

(37) Il sistema del potere anonimo trova la sua manifestazione più pura ed agghiacciante nell'esperienza della Cambogia all'indomani della caduta di Phnom Penh (1975) e della presa del potere da parte dei Kmer rossi. Nella struttura comunista creata dai Kmer rossi, ogni forma di mediazione sociale formale era stata abolita e la società era concepita e trattata come un tutto omogeneo (e perciò uniforme). Il partito comunista dei Kmer rossi, che dominava spietatamente sul paese, si era spogliato del suo nome tradizionale per chiamarsi semplicemente Angkar (Organizzazione), rendendosi così astratto e anonimo. "Una società soggetta a un controllo totale e indiscusso era stata creata come conseguenza logica dell'eguaglianza assoluta, e al suo vertice era l'anonima organizzazione" (F. Feher, Cambogia: l'utopia omicida, in "Mondoperaio", marzo 1983, p. 97, corsivo nel testo).

(38) "Non vale affermare i diritti se non per questo antagonismo, la dichiarazione dei diritti umani dev'essere letta come una dichiarazione di guerra. Non si tratta di produrre una società più o meno ideale e un buon governo a partire da un grado zero della vita sociale. Si tratta invece di affrontare la minaccia, la "presenza" o il "ricordo recente" del dispotismo" (A. Glucksmann, Una strategia del dissenso: i diritti umani, in AA.VV., Libertà e socialismo. Momenti storici del dissenso, cit., p. 143, corsivo nel testo).