Rivista Anarchica Online
Potere, dissenso,
diritti civili
di Massimo La Torre
In questo scritto
tratterò nella prima parte della struttura politica dei paesi del
cosiddetto "socialismo reale", e nella seconda parte della
questione della legalità e della rivendicazione dei diritti politici
così come si pone in questi paesi. Una breve considerazione del
valore del dissenso e della rivendicazione dei diritti dell'uomo in
quel contesto concluderà questo studio. Per affrontare i problemi
che ho menzionato, utilizzerò le riflessioni in merito di Vàclav
Havel, un commediografo cecoslovacco animatore nel suo paese del
movimento detto "Charta 77". Havel è l'autore di un
pamphlet sulla situazione dei paesi "socialisti" (Il
potere dei senza potere) che è stato tradotto e pubblicato in
Italia qualche anno fa, e che ha destato purtroppo poco interesse e
nessun clamore, pur essendo, a mio avviso, uno dei testi più lucidi
sul presente stato di cose nelle società dell'Est europeo. A tale
scritto, nelle pagine che seguono, farò costante riferimento. Una precisazione,
prima di proseguire. Havel impiega, per definire il sistema politico
del "socialismo reale", il termine "post-totalitario".
Io lo adotterò, ma intendo chiarirne in via preliminare il
significato. Per fare ciò, mi richiamo a quanto sostiene
sull'argomento Cornelius Castoriadis. Questo pensatore
greco-francese, nel suo recente libro Devant la guerre
(Fayard, Paris 1982), ritiene che nei paesi dell'Est non siamo più
in presenza di un regime tipicamente totalitario, ma piuttosto
dinanzi all'emergenza di un diverso sistema (post-totalitario), che
egli chiama "stratocrazia", società dominata dall'esercito
(stratòs in greco). Castoriadis enuncia una serie di fatti
evidenziatisi nei paesi "socialisti" che supporterebbero la
tesi di una mutazione del regime totalitario: a) fine del terrore di
massa (le deportazioni, i processi e le esecuzioni di milioni di
persone); b) fine del delirio
staliniano e declino dell'ideologia (è la menzogna che domina), nel
senso che non si cerca più un controllo positivo totale sulla realtà
(il regime ha rinunciato a controllare l'anima e il pensiero della
gente); c) non esiste più
il Führerprinzip
(ciò che Solgenitsin chiama l'egocrate) (1). Il regime
post-staliniano ha rinunciato alla super-socializzazione forzata
della gente (non li si trascina più a forza alle riunioni). Il
regime spinge gli individui verso la privatizzazione, verso piccole
carriere personali, verso il piccolo giardino personale se ce l'hanno
e verso la vodka (2). Il progetto di una "maîtrise totale"
della società ha dovuto essere abbandonato. Lo scopo della
"maîtrise" viene ancora perseguito, ma come "maîtrise
extérieure". Questo regime,
allora, che non mira più all'omogeneità e all'unificazione assoluta
e che, come dice Castoriadis, è diventato "pavloviano-skinneriano",
può ancora dirsi totalitario nel senso in cui lo era lo stalinismo?
A me pare che sia sensato rispondere negativamente a tale
interrogativo, se riteniamo che terrore indiscriminato e delirio
dell'ideologia (ciò che Hannah Arendt chiama "logocrazia")
siano i caratteri distintivi del totalitarismo (3). Pertanto, onde
evitare confusioni sulla sostanza dei fenomeni sociali che appaiono
diversi, assumerò il termine "post-totalitario" per
definire l'attuale sistema dei paesi "socialisti".
"Post-totalitario" non significa però "non-totalitario";
il prefisso "post" indica l'evoluzione del sistema e non
già la rottura rispetto ad esso. Fra "totalitario" e
"post-totalitario" non vi è soluzione di continuità.
Partito unico,
stato, società
Di solito, nella
letteratura giornalistica che fiorisce negli Stati dell'Occidente, il
sistema di governo dei paesi dell'Est europeo in cui vige (per
dichiarazione delle sue autorità e della sua classe intellettuale)
il "socialismo reale", viene definito una dittatura,
la dittatura in questo caso di una burocrazia politica sopra una
società livellata. Questa forma di governo (dittatura) fonderebbe il
proprio potere su strumenti apertamente pesantemente repressivi e
risulterebbe riconoscibile dal fatto che la stragrande maggioranza
deve soltanto negativamente conformarsi al diktat del
ristretto gruppo di governanti e subire l'ideologia di questi. Di
conseguenza - se così fosse -, basandosi essenzialmente sulla
repressione e sull'inerzia forzata delle masse popolari, e avendo il
proprio centro in una cerchia determinata di uomini investiti di un
potere enorme, l'esistenza di questa forma di governo avrebbe un
elevato tasso di provvisorietà perché sarebbe legata alla vita
delle persone che l'hanno instaurata. In verità, il sistema dei
"paesi socialisti" ha ben poco di provvisorio e ben poco in
comune con un regime dittatoriale (quello che Reinhardt Künhl
chiama dittatura "reazionaria", Franz Neumann dittatura
"semplice" e Havel "classica"). Ciò non esclude
che nei momenti più acuti di crisi politica il regime totalitario si
riduca a nudo regime di oppressione, e quindi a dittatura, come è il
caso del regime del generale Jaruzelsky in Polonia. Innanzitutto il
sistema politico del "socialismo reale" non ha una
estensione limitata e agganciata ideologicamente ad uno specifico
spazio nazionale (così come accadeva ai fascismi, il cui "asse"
era costantemente insidiato dai rispettivi estremi motivi
nazionalistici) ma è comune a tutto l'immenso blocco di potere
dominato da una delle attuali superpotenze. Inoltre, se è vero che
elemento imprescindibile della dittatura reazionaria è la sua
storica instabilità, questo non può essere affermato a proposito
del sistema del "socialismo reale". Anche se ormai da tempo
esso si è allontanato da tutti i movimenti sociali originari dal cui
retroterra sociale e ideale era nato, tuttavia l'autenticità di quei
movimenti gli offre una innegabile stabilità storica. Il sistema del
"socialismo reale" dispone di un'ideologia assai più
concisa, logicamente strutturata, generalmente comprensibile e per
sua essenza molto elastica, la quale per la sua globalità e il suo
esclusivismo assume quasi la portata di una religione secolarizzata:
offre all'uomo una risposta pronta a qualsiasi domanda, e
l'abbracciarla incide profondamente sull'esistenza umana. "Bisogna
(...) star attenti a non definire la dittatura totalitaria
semplicemente come il regno della violenza. Senza di essa, è vero,
simili regimi non potrebbero sopravvivere, ma sarebbe parimenti
impossibile che durassero a lungo se non esistesse una notevole
identificazione da parte del popolo oppresso con i suoi governanti"
(4). Qui troviamo il dato che accomuna i regimi fascisti e quelli
"socialisti". Il parallelo tra essi si pone non nella loro
qualificazione come "dittatura" (come regimi politici
governati essenzialmente dal terrore esercitato da un pugno di uomini
sul resto della società), ma nel dato della confusione (a) del
partito unico con lo Stato e (b) dello Stato con la società.
Nazionalsocialismo tedesco, fascismo italiano, socialismo sovietico,
in maniera pressoché identica seppur con una ideologia di
riferimento differente, costituiscono "il tentativo di avvolgere
tutta la società in una rete capillare di organizzazioni di massa,
che dovrebbe permettere di raggiungere organizzativamente, di
plasmare ideologicamente e di controllare politicamente il più
possibile ogni gruppo sociale" (5).
Quel fruttivendolo nel cuore di Praga
In mancanza di ogni
effettivo meccanismo istituzionale di collegamento tra potere
politico e società, là dove lo stesso meccanismo rappresentativo
borghese è bloccato dalla presenza del partito unico, il
collegamento deve instaurarsi attraverso un rituale ideologico
denudato di qualunque riferimento giuridico. Non solo, ma il sistema,
annullando la tradizionale distinzione tra società e Stato (e dunque
promuovendo l'integrale politicizzazione della società) non può
sopravvivere della mera attività negativa dei sudditi, e deve
coinvolgerli totalmente nel movimento dei suoi meccanismi. "È
insito nel sistema post-totalitario il coinvolgere ogni uomo nella
struttura del potere, non perché vi realizzi la propria identità
umana, ma perché rinunci ad essa a vantaggio dell'"identità
del sistema", cioè perché diventi un consupporto di tutta
l'"autocinesi", un servo della sua autofinalità, perché
ne condivida la responsabilità e si trovi coinvolto e invischiato
proprio come Faust con Mefistofele (...). In questo modo trascina
tutti nella propria struttura di potere, di essi fa lo strumento del
totalitarismo reciproco, dell'"auto-totalitarismo" sociale"
(6). L'ideologia qui non
è né (a) "falsa coscienza" né (b) "dottrina
politica operante nella pratica" (ovvero "un insieme di
principi ideali e di assunti e interpretazioni di fatto, più o meno
coerente, che si riferisce all'ordine politico e ha la funzione di
guidare i comportamenti politici collettivi" (7)), bensì
simbologia legittimante e occultante il potere: un corpo di principi
che ha il compito di mobilitare le masse sugli obiettivi del potere
ma che non è il vero corpo dei principi direttivi l'azione del
potere, esso nello stesso tempo legittima il potere e lo nasconde nei
suoi veri fini. Così definita, l'ideologia non è pero
caratteristica esclusiva del sistema del "socialismo reale"
ma di ogni sistema di potere. Il potere è comunque menzogna in
quanto è comunque consenso, e per ottenere questo deve innalzare una
cortina fumogena (l'ideologia) attorno alla sua vera natura (ai suoi
fini) e mostrarsi lì dove esso non è e con modi che esso non ha:
"Ma lo Stato mente in tutte le lingue del bene e del male; e
qualunque cosa dica, mente - e tutto quanto possiede l'ha rubato.
Tutto è falso nello Stato; esso addenta con denti che ha rubato, il
morsicatore. False sono persino le sue viscere. Confusione delle
lingue sul bene e sul male: questo segno io vi dò come segno dello
Stato" (8). Nei "paesi
socialisti" l'ideologia è la materia energetica che rende
possibile, coinvolgendo ed attivando i cittadini, il movimento dei
meccanismi del sistema che si va facendo vieppiù totale: essa è al
tempo stesso (a) alibi che fornisce legittimazione al sistema, e (b)
principio di coesione dell'intero che sempre più acquista i
connotati di vero e proprio quadro di riferimento formale.
L'ideologia diviene un alibi-ponte tra sistema e individui che
occulta in pari tempo la ferocia e il vuoto morale (e sociale) del
primo e la miseria quotidiana dei secondi. All'uno consente di
legittimarsi e di estorcere consenso, agli altri di sopravvivere
subendo una parvenza di dignità umana. "L'ideologia - come
l'"alibi-ponte" lanciato fra il sistema e l'uomo - copre
l'abisso fra intenzioni del sistema e intenzioni della vita; dà ad
intendere che le pretese del sistema derivano dai bisogni della vita:
è una specie di mondo dell'"apparenza" che viene spacciato
per realtà" (9). Per spiegare il
significato dell'ideologia nei "paesi socialisti", Havel si
serve di un esempio: un negozio di fruttivendolo nel cuore di Praga.
Qui, tra la frutta e la verdura, su una parete il fruttivendolo ha
attaccato un cartello, bizzarro a vedersi in quell'ambiente; vi è
scritto "Proletari di tutto il mondo unitevi!". Che senso
ha, nella Cecoslovacchia di Husak, in una rivendita di frutta e
verdura, attaccare un cartello con le ultime parole del "Manifesto"
di Marx? Forse il fruttivendolo ha voluto ribadire la sua fedeltà al
regime. È probabile; ma perché con quel cartello, con una frase che
negli anni ottanta e in un regime imposto dai carri armati sovietici
non ha certo un grosso riscontro nella realtà? E sapendo poi che la
gente che entra a farvi degli acquisti di patate e di cavoli nemmeno
vi posa sopra lo sguardo, o comunque lo degna di un'attenzione
superficiale. La risposta è allora che, attraverso quel cartello, il
fruttivendolo, piuttosto che crudamente scrivere "obbedisco"
e ammettere la propria miseria e l'altrui violenza, così eleva
il piano del rapporto che intercorre tra lui e il sistema, lo
ideologizza col doppio effetto di non degradarsi e di illuminare di
grandi idealità il volto privo di espressione del sistema. Ambedue,
pertanto, individuo e sistema, suddito e sovrano, rimandano ad uno
spazio superiore il senso del loro ruolo e del loro "status".
La
moltiplicazione delle gerarchie
Non è vero che il
sistema post-totalitario (per mantenere la definizione di Havel),
come la dittatura, si basi sull'esclusione delle masse dalla vita
politica. La necessità dell'attivazione delle masse, che è
l'effetto della totalità dello Stato, oltre a esaltare il ruolo
dell'ideologia come materia energetica che alimenta i movimenti del
sistema, comporta - è quasi una tautologia - la mobilitazione, la
partecipazione delle masse. La gerarchia, che nei paesi capitalisti è
essenzialmente di tipo economico (fissata nella quantità di
ricchezza posseduta) ed è grosso modo di tipo dicotomico
(proletariato-borghesia), qui si fa immediatamente politica e si
frammenta ulteriormente. La distanza fra base e vertice
verosimilmente non si allunga, la piramide non si modella di più
verso l'alto. Se fosse possibile misurare quantitativamente la
"distanza politica" tra i cittadini e i loro gruppi
dirigenti, è probabile che la distanza fra un operaio di Mirafiori e
Gianni Agnelli, o tra un contadino calabrese e un "manager"
dell'industria privata o pubblica non risulterebbe superiore a quella
che intercorre tra Andropov e un operaio di Togliattigrad o tra un
contadino uzbeco e un burocrate del partito. La differenza, nei
"paesi socialisti", è marcata dal moltiplicarsi dei
livelli intermedi e dalla proliferazione dei gradi politici. Ed in
tale proliferazione delle gerarchie sta il senso di ciò che definivo
sopra la necessità e la realtà della partecipazione. La capillare
organizzazione delle masse (10), la statalizzazione della società
produce la moltiplicazione delle gerarchie, e d'altro lato ogni
livello gerarchico si attribuisce un pezzo (sia una fetta o una
briciola) di potere. "Per questo sistema organizzativo era
necessario un gran numero di funzionari, che dovevano organizzare
l'attività giù giù fino all'ultima cellula. Così centinaia di
migliaia di persone sono state investite di funzioni specifiche e
hanno ricevuto l'impressione di essere corresponsabili per la
costruzione del grande Reich" (11) (a "Reich" si
sostituisca "Stato socialista"). Non esiste nel
sistema del "socialismo reale" un luogo dove si decida
tutto (anche formalmente) e uno spazio della mera obbedienza. Vi sono
invece molteplici livelli decisionali e molteplici competenze alle
quali contribuisce l'attività delle masse. Ma queste competenze sono
rigidamente inserite nel quadro delle compatibilità e della
ritualità del sistema. Tali forme di partecipazione hanno fatto
sostenere a qualcuno, a Rita Di Leo ad esempio e a Giuseppe Boffa,
che vi sia contraddizione tra questa "autogestione della vita
materiale" e lo Stato centralizzato e dispotico. Ma ciò che
Boffa chiama l'"autogestione della vita materiale" è
nient'altro che l'adesione dei sudditi alle decisioni poste ai
diversi livelli gerarchici: la partecipazione cioè è circoscritta a
quel particolare livello e non può oltrepassarlo. Si badi, non
voglio sostenere che questo potere partecipativo diffuso sia solo
apparente, al contrario esso per le competenze cui è rivolto è
effettivo, né che si tratti soltanto di cinghie di trasmissione tra
vertici e base. La partecipazione si arresta però ai confini delle
competenze istituzionalmente fissate, essa non può mettere in
discussione la struttura e le misure decisionali della scala
gerarchica. L'organizzazione
post-totalitaria è assai complessa, e può essere compresa se ci si
rende conto che qui è l'ideologia il quadro di riferimento della
costituzione materiale. Da ciò discende che il potere è alla fine
dei conti senza volto, anonimo, che questa o quella persona al
vertice hanno una relativa importanza, e ciò che è fondamentale è
invece il rituale e il quadro di compatibilità entro cui quelle
persone si muovono. D'altro canto, il sistema si fa auto-cinetico,
poiché l'ideologia fa sì che base e vertice si muovano
automaticamente entro il ruolo che il rituale loro assegna. "Ma
invischiati e schiavizzati sono davvero tutti: non solo il verduraio,
ma anche i capi dei governi. La diversità di posizione nella
gerarchia del potere determina soltanto una diversità di vincolo: il
verduraio è invischiato poco, ma detiene anche uno scarso potere; il
capo del governo, ovviamente, ha un potere maggiore, ma proprio per
questo è legato molto di più. Insomma nessuno dei due è libero ma
ognuno dei due in un modo un po' diverso. In questo legame, quindi,
il partner più appropriato dell'uomo non è l'altro uomo, ma il
sistema come struttura finalizzante a se stessa. La posizione nella
gerarchia del potere differenzia gli individui per ciò che riguarda
responsabilità e colpa: a nessuno però dà una responsabilità e
una colpa incondizionata e d'altra parte non esonera pienamente
nessuno dalla responsabilità e dalla colpa" (12).
Il potere è
ubiquo
Nel suo studio
della struttura elementare del potere, Giulio Chiodi rende
graficamente tale struttura con la formula D/S dove D sta per lo
spazio del dominio e S per quello del suddito e la linea di frazione
rappresenta la soglia del dominio. Là dove lo spazio del dominio
viene formalizzato attraverso procedure giuridico-amministrative esso
viene indicato come d, parimenti là dove sia lo spazio del suddito a
subire un processo di formalizzazione questo sarà indicato con s.
Così, la formula ideologica del regime liberale sarà d/S, dove lo
spazio del dominio è formalizzato attraverso la
costituzionalizzazione dei processi decisionali e la forma di legge.
Ma, poiché secondo tale autore "dove il detentore è
formalizzato, è sempre il detentore apparente: il vero detentore è
occulto" (13), la formula reale del regime liberale non sarà
d/S bensì d/S (D) dove (D) sta ad indicare il detentore occulto del
potere, che, in regime liberale, si troverà appunto nello spazio del
suddito, della società civile, settori della quale riescono a
condizionare lo spazio formalizzato del dominio (lo Stato di
diritto). Per converso, mentre la formula ideologica del regime
collettivista è d/DS "in cui d indica sempre un detentore
formalizzato e DS indica l'identificazione - si potrebbe parlare
addirittura di identificazione interiorizzata nell'individuo - di
detentore e suddito" (14), la sua formula reale è d(D)/S dove
il detentore occulto (effettivo) del potere si situa nello spazio del
dominio, cioè entro la struttura politico-burocratica. Chiodi, poi,
sostiene che la formula d/s (D) è la formula tendenziale generale
dei principali sistemi politici odierni, considerata la promiscuità
Stato-società che è presente sia nei regimi tardo-capitalistici che
più accentuatamente nei regimi del "socialismo reale",
"dove con s minuscola, analogamente a d, si vuole indicare che
lo spazio S subisce la formalizzazione impostagli dal processo di
burocratizzazione generalizzato, per il quale i soggetti di S vengono
costruiti come figure soltanto astratte, sussunte nelle modalità e
nelle dinamiche proprie dell'organizzazione" (15). E qui
giungiamo al punto che ci riguarda: il processo di burocratizzazione
fa sì che lo spazio del dominio e quello del suddito si facciano
sempre più rarefatti, che astraggano dalle qualità e dalle
particolarità dei soggetti che li occupano, e che sia il sistema
complessivo a determinare la figura sociale e il movimento. Così il
potere diviene anonimo e autocinetico, dove lo spazio effettivo, il
detentore reale del potere è nella struttura complessiva, e, di
conseguenza, nell'elemento unificante di questa: l'ideologia. Il
potere effettivo (D) si è svincolato dalle figure formalizzate d e s
e risiede al di fuori della linea di frazione. Si può affermare
che il sistema post-totalitario è al servizio dell'uomo solo nella
misura in cui ciò è indispensabile perché l'uomo sia al servizio
del sistema. In questo contesto il sistema post-totalitario, con le
sue pretese, tocca l'uomo quasi ad ogni passo (il potere è ubiquo),
e lo tocca con i guanti dell'ideologia. Pertanto in esso, in maniera
superiore rispetto a quanto avviene in ogni altra società con le sue
convenzioni, la vita è percorsa da una rete fittissima di ipocrisia
e di menzogna: il potere della burocrazia si chiama potere del
popolo, la classe operaia viene resa schiava in nome della classe
operaia, le truppe di invasione marciano al canto
dell'Internazionale, il primo maggio vede sfilare sulla Piazza Rossa
missili a testata nucleare, gli avversari sono sempre e comunque
"controrivoluzionari" o "elementi antisociali", i
dissidenti criminali o malati di mente; e Breznev riceve il premio
Lenin per la letteratura per le sue memorie, mentre Bulgakov al quale
non è concessa la razione di carta deve scrivere sui muri della sua
camera. Accade come in Oceania Fascia Aerea n. 1 dove i tre slogan
del Partito sono: La guerra è pace, La libertà è schiavitù,
L'ignoranza è forza. In questo
Super-Stato vi sono solo quattro ministeri in cui è divisa l'intera
organizzazione governativa: "Il Ministero della Verità che si
occupava della stampa, dei divertimenti, delle scuole e delle arti.
Il Ministero della Pace, che si occupava della guerra. Il Ministero
dell'Amore che manteneva l'ordine e faceva rispettare la legge. E il
Ministero dell'Abbondanza che era responsabile dei problemi
economici" (16). Qui pace sta per guerra, verità per menzogna,
amore per repressione e tortura, abbondanza per miseria e
razionamento. L'uomo è costretto
a vivere nella menzogna resa eloquente nel cartello attaccato dal
fruttivendolo alla parete della sua rivendita. L'ideologia come
l'interpretazione della realtà fornita dal potere è sempre
subordinata all'interesse di questo, essa ne costituisce un fattore e
un sostegno sempre più importante. L'ideologia acquista una propria
forza reale, diventa essa stessa realtà, anche se una realtà sui
generis, che a certi livelli ha un peso maggiore della realtà in
quanto tale. Il potere anonimo, cosi, si riferisce più all'ideologia
che alla realtà: trae la propria forza dalle sue tesi, dalle sue
tesi dipende il suo sviluppo. Ne consegue che alla fine tesi e
ideologia cessano di essere al servizio del potere, e quest'ultimo
comincia ad essere al loro servizio. Se l'ideologia è la principale
garanzia della consistenza interna del potere, essa diventa anche la
garanzia sempre più decisa della sua continuità.
Rifiuto del
politico e legalità
Possiamo
compendiare i caratteri del dissenso (e il contenuto della
rivendicazione dei "minimi") nei paesi del "socialismo
reale" come segue. Primo carattere dei movimenti del dissenso è
il rifiuto della politica (intesa questa come lotta per il
potere politico). Il rifiuto della politica significa: da un lato il
rifiuto della dimensione istituzionale (il governo) e perciò
dell'intervento a questo livello; dall'altro il rifiuto della
dimensione totale dell'azione sociale (del "sistema"), là
dove la concreta considerazione della qualità della vita di ciascun
individuo è subordinata alla astratta analisi del quadro sociale
complessivo e il miglioramento di quella qualità è subordinato alla
trasformazione totale del sistema. Il rifiuto della
politica espresso nella rivendicazione dei diritti dell'uomo ha le
sue radici nello "scetticismo verso il modo di pensare fondato
sull'idea che si possano ottenere cambiamenti sociali reali solo a
condizione di un cambiamento (in qualunque modo) di sistema oppure di
governo e che tale cambiamento - in quanto fondamentale - giustifichi
anche il sacrificio di quanto è "meno fondamentale", cioè la
vita umana" (17). Qui, nel rifiuto della politica come
dimensione totalizzante dell'azione sociale, il rispetto per la vita
reale dell'uomo prevale sulla considerazione per il proprio progetto
teorico; nell'inversione di quest'ordine di prevalenza "sta il
potenziale pericolo di un nuovo asservimento dell'uomo" (18). A
partire da questa posizione di rifiuto del livello istituzionale come
terreno privilegiato dell'azione sociale e della dimensione "totale"
dell'azione politica risultano inadeguate a definire quest'attitudine
le categorie di "riformista" e "rivoluzionario". Secondo carattere
del dissenso è la rivendicazione della legalità del sistema
politico (ciò che Havel chiama "sicurezza giuridica" e che
noi diremmo "certezza del diritto"). Ma - lo stesso Havel
non sfugge a questa domanda - che senso ha appellarsi alla legge in
una situazione in cui la legge non è nient'altro che una facciata
dietro la quale si cela il pugno di ferro e l'arbitrio del potere?
"Ha senso appellarsi alle leggi quando queste - e in particolare
quelle universali che concernono i diritti umani - sono solamente una
facciata, la parte integrante del mondo dell'"apparenza", puro
gioco, dietro cui si cela solo una manipolazione totalizzante"
(19)? Questo richiamarsi alla lettera della legge non sarà forse una
forma di esercizio di quello "ius murmurandi" ammesso anche
nei regimi più oppressivi, "un borbottare alla Svejk, insomma
un altro modo di accettare il gioco proposto e un'altra forma di
assoggettamento" (20)? E come si concilia questo richiamarsi
alla legge, strumento dell'ideologia dominante, col principio della
"vita nella verità" che sovrintende, secondo Havel, alla
lotta per i diritti dell'uomo? A questo punto
bisogna interrogarsi sulla natura e sulle funzioni del diritto nel
sistema post-totalitario. Nelle dittature classiche il potere si
realizza immediatamente, per due ragioni essenziali: (a) perché il
potere non pretende di sottomettere o di finalizzare a se stesso
l'intera società e di assorbirla nel suo apparato, ma solo di
intervenire su di essa (sia pure brutalmente) per correggerne quelle
dinamiche che gli risultano scomode, dimodoché la società continua
a vivere una sua autonomia (sia pure sempre sotto la spada di Damocle
della repressione), (b) perché il
potere non ha pretese ideologiche nuove, non pretende di creare
l'uomo nuovo, ma si basa anzi sull'antico sistema di valori
tradizionali esasperandone il lato autoritario (Dio Patria Famiglia). A differenza,
quindi, delle dittature in cui la legge non assolve né alla funzione
di riorganizzazione della società (che è lasciata abbastanza in
balia di se stessa) né a quella di copertura e legittimazione
ideologica, "il sistema post-totalitario invece è ossessionato dal
bisogno di legare ogni cosa con un regolamento" (21). Vediamo di volgere
al positivo queste determinazioni negative del diritto nel sistema
post-totalitario, di ricavare cioè ciò che esso è da ciò che esso
non è. L'ordinamento giuridico del "socialismo reale" è
innanzitutto una delle forme in cui si manifesta il dominio della
menzogna, il dominio dell'ideologia che è come il cemento che tiene
insieme la costruzione politica: il sistema del potere anonimo
proprio in quanto basato sul "diktat del rituale" esalta
del diritto la funzione idelogico-rituale e la sua astrattezza.
Mentre ancora nello Stato liberal-democratico la legge è agganciata
a un riferimento fisico, umano, il legislatore, nel sistema
post-totalitario la legge è la pura forma dei suoi movimenti e nello
stesso tempo l'inserzione dell'ideologia nella macchina politica. La
legge cioè è un rituale e allo stesso tempo vale come circolare
amministrativa: il suo lato esterno è meramente
ideologico e il suo uso concreto, la sua funzione normativa è
interna (interna all'apparato amministrativo, ed è perciò che la
legge diviene una circolare). Nello Stato liberale la funzione della
legge è di proteggere la sfera privata dei cittadini e quindi di
regolamentare alcuni (non tutti) rapporti tra i cittadini e tra i
cittadini e i pubblici poteri, nello Stato post-totalitario (e sempre
più anche nello Stato democratico) la funzione della legge è di
regolamentare le attività degli organi statali, posto che la
tradizionale distinzione tra società politica e società civile è
venuta meno. D'altra parte,
mentre nello Stato liberale la legge è neutra, svincolata dalla
moralità, nel sistema post-totalitario questi due piani vengono
nuovamente sovrapposti, la legge è un'espressione dell'ideologia
comunista (che assume in sé i caratteri della "scienza" e
dell'etica). Questa tendenza all'ideologizzazione della legge è
presente, più sfumata, anche nei regimi tardo-democratici, là dove
per la determinazione dei contenuti normativi si rimanda ai principi
politici che reggono il sistema. A questo proposito Franz Neumann
intravvedeva tale tendenza già nella Repubblica di Weimar con
l'aggancio delle norme di legge ai "legal standards of conduct"
e la vittoria di questi su quelle. "Gli standard giuridici di
comportamento cambiarono l'intero sistema giuridico. Riferendosi a
valori extra-giuridici essi distrussero la razionalità formale del
diritto. Essi fornirono al giudice poteri discrezionali
stupefacentemente ampi e distrussero il legame fra potere giudiziario
e potere amministrativo, così che le decisioni
politico-amministrative presero la forma di normali decisioni
giudiziali" (22). La legge è,
dunque, in questo nuovo contesto, ideologia, alibi: "l'infimo"
esercizio del potere si avvolge nel manto della propria "lettera";
crea l'affascinante illusione della "giustizia", della
"tutela della società" e il regolamento oggettivo
dell'esercizio del potere per poter nascondere l'essenza reale della
prassi giuridica: la manipolazione post-totalitaria della società"
(23). In realtà, anche nello Stato liberale la legge assolve una
funzione ideologica, dietro la neutralità della norma si cela il
dominio di una classe sul resto della società: la neutralità della
norma (ovvero la sua generalità) serve a mantenere il gioco della
concorrenza tra liberi imprenditori e a liberare un nuovo soggetto
sociale dai vincoli feudali (la forza lavoro come libero contraente,
ma dal punto vista formale). L'uguaglianza formale dinanzi alla
legge, se da un lato serve al funzionamento del sistema capitalista
assicurando il gioco del mercato, d'altro lato vela la realtà della
diseguaglianza sostanziale: la neutralità, sia pure indirettamente,
è essa stessa ideologia. Tuttavia, nel sistema post-totalitario, la
funzione ideologica viene assunta direttamente dalla norma, che non
si dichiara più neutrale ma diretta alla realizzazione
dell'uguaglianza sostanziale. Così, nello Stato liberale la norma
non mentiva, essa semplicemente taceva su una parte della realtà
sociale; nel "socialismo reale" essa in prima persona è
menzogna. La norma liberale
dice la verità, poiché non si pronuncia sulla realtà sociale. Essa
dice l'uguaglianza dinanzi alla legge, e dice una verità, ma tace su
ciò che sottende il piano formale, sulla stratificazione di classe.
La norma post-totalitaria, invece, mente sempre. Essa si pronuncia
sulla realtà sociale, poiché assume di essere l'arma di una parte
sociale per la sua emancipazione o lo strumento regolativo di una
società senza classi: il riferimento al contenuto della vita sociale
è esplicito ma falso. Essa non tace, ma mente . Nello Stato
liberale, contrassegnato dalla presenza parallela di una vivace
società civile, la legge ha come caratteristica specifica la
generalità: essa è, cioè, un provvedimento diretto alla
generalità dei cittadini al fine di stabilire le condizioni, il
quadro normativo entro il quale deve esplicarsi la loro autonomia. La
generalità della legge rimanda all'autonomia contrattuale, la legge
prende così corpo nella vita sociale attraverso la libera iniziativa
e l'incontro delle volontà dei soggetti privati. La differenza
fondamentale delle due sfere della legislazione e
dell'amministrazione sta proprio qui: nell'una vige il principio
della generalità del provvedimento, nell'altra il principio
della specificità. Il provvedimento amministrativo non
rimanda all'autonomia delle parti, ma l'annulla. Ma la generalità
della legge per potersi dispiegare ed avere efficacia (essere cioè
veramente generale) presuppone da un lato l'uguaglianza dei soggetti
cui si riferisce, e quindi all'interno del sistema capitalistico una
situazione in cui gli imprenditori siano tra loro grosso modo di
eguale forza economica, e d'altro lato una rigida delimitazione dei
poteri dello Stato (ovvero una situazione in cui le competenze di
quest'ultimo siano ridotte il più possibile) onde consentire il
dispiegarsi dell'autonomia contrattuale, ovverosia dell'azione che fa
da tramite tra norma generale e condotta umana e rende possibile la
prima specificandola, cioè le consente pur rimanendo generale di
aver efficacia nei diversi (specifici) campi e momenti della vita
sociale.
Più burocrazia
più norme
Ma già con lo
sviluppo del sistema capitalistico e il formarsi dei monopoli la
prima condizione che rende possibile la generalità della legge viene
a cadere: non siamo più dinanzi a soggetti di eguale forza
economica, ma all'interno stesso della classe capitalistica (della
forza lavoro qui non si fa questione) si sono formate delle rilevanti
ineguaglianze. "In un sistema organizzato monopolisticamente
(...) la legge generale non può avere la preminenza assoluta. Se lo
stato si trova di fronte un monopolio non ha senso regolarlo per
mezzo di una legge generale. In un caso del genere il provvedimento
individuale è l'unica espressione appropriata del potere sovrano"
(24). In una tale situazione alla coppia legge-contratto si
sostituisce il provvedimento unilaterale dell'amministrazione che
può, o no, a seconda della sua importanza, rivestirsi della forma
della legge, che è ormai solo mascheramento ideologico. Il passaggio dalla
legge al provvedimento amministrativo si fa più accentuato quando
viene a cadere la seconda condizione che rende possibile la
generalità della legge: la limitazione delle competenze dello Stato
e il dualismo in qualche modo conflittuale tra Stato e società. In
una situazione di monopolio, infatti, tale dualismo continua a
sussistere, seppure fortemente modificato, per il lato della società
civile, e con la società civile sopravvive mutato nella propria
sostanza la figura del contratto (si pensi, ad esempio, alla
proliferazione dei contratti per adesione e per formulari). Ma,
quando il dualismo si attenua e scompare, come nel caso delle società
del "socialismo reale", la trasformazione della legge è
completa. Qui mancano entrambe le condizioni per la sussistenza della
legge generale: l'autonomia contrattuale non è più possibile perché
è venuto a cadere il suo presupposto strutturale, uno spazio sociale
distinto da quello statale. D'altro canto in un'organizzazione
sociale che si identifica grosso modo con quella statale non vi è
alcuna uguaglianza di soggetti, ma il loro disporsi secondo la scala
gerarchica tipica della struttura statale. Così, la legge,
nel contesto del "socialismo reale", è, oltre che (1)
ideologia (o alibi), (2) strumento di comunicazione interna
del potere e svolge nell'immenso arcipelago burocratico dello
Stato-società una funzione analoga a quella svolta dal contratto
nell'ambito dell'arcipelago proprietario della società borghese ("Il
contratto pone termine all'isolamento dei singoli proprietari e
costituisce un mezzo di comunicazione tra di loro" (25)). Nel
sistema del "socialismo reale", la legge è uno strumento
tecnico che permette allo Stato di organizzarsi aderendo ad ogni
piega della società: lo Stato-società ha bisogno di una immensa
burocrazia, e questa va regolata, gestita, coordinata, e la legge
svolge questa funzione di coordinamento. Essa è ora una circolare
amministrativa, provvedimento diretto non più ai cittadini ma ai
funzionari dello Stato. D'altra parte, l'estendersi della razionalità
organizzatrice all'intera società significa proprio una
proliferazione di norme che tendono a ricoprire ogni spazio della
vita sociale. Il cane si morde la coda: l'estensione della
razionalità statale significa più norme, più norme comportano più
burocrazia, più burocrazia necessita più norme. Il parallelo tra
regime democratico e regime totalitario, già più volte enucleato
(26), può servire a chiarirci ulteriormente le idee sulla natura del
sistema politico post-totalitario. Scriveva Guido De Ruggiero: "La
figura tradizionale della tirannide, così com'è stata ritratta
dagli scrittori del passato, e come del resto s'è manifestata nella
storia fino a tempi recenti, è quella di una forma sopraffattrice ma
esterna ed effimera, che esige una conformità esteriore di atti e di
parole, ma si disinteressa dell'interiorità spirituale, che non
potrebbe neppure raggiungere coi propri mezzi, e che lascia in balia
di se stessa, quasi a titolo di compenso o di sfogo alla tensione
prodotta dal rigore delle leggi. La tirannide democratica mira invece
diritto allo spirito. Essa esige il consenso, senza del quale la sua
azione sarebbe inefficace (...). Che la società sia tutto e che
debba quindi riassumere in sé ogni cosa è un principio che non si
può attuare solo dall'alto, per mezzo del governo, ma che richiede
una generale collaborazione del pubblico, quindi una reciprocità di
odi, invidie, di delazioni. La tirannide democratica trova in ogni
cittadino un poliziotto e pertanto non ha limite alla sua estensione
(...).Essa non si esercita solo solo sugli atti, ma anche, in special
modo, sulle opinioni, appunto perché di opinioni è intessuto ii
prestigio della democrazia, ed ogni divergenza, ogni singolarità
appare facilmente come un tentativo di sovvertire lo Stato"
(27).
Nel regno della
menzogna
Se la democrazia
deve esercitare il proprio potere/controllo non solo sugli atti ma
anche sulle opinioni, poiché di opinioni è intessuto il suo essere,
e di collaborazione/partecipazione necessita il suo tentativo e la
sua tendenza a fare che "la società sia tutto", tanto più
ciò è presente nei sistemi del "socialismo reale" là
dove l'ideologia (ovvero l'opinione ufficiale e legittima della
società) è il cemento e il lubrificante della macchina statale. Se
nella democrazia ogni singolarità di opinione può apparire come un
tentativo di sovvertire lo Stato, nel sistema del potere anonimo ogni
opinione che diverga dall'ideologia ufficiale, e ogni opinione
puramente individuale, costituisce già di per sé un conato
"controrivoluzionario". "La "vita della menzogna"
può funzionare come pilastro del sistema solo se è caratterizzata
dalla universalità; deve abbracciare tutto, infiltrarsi in tutto;
non è possibile alcuna coesistenza con la "vita nella verità";
ogni evasione da essa la nega come principio e la minaccia nella sua
totalità" (28). Qui, dunque, affondano le radici dell'affermazione
che Havel fa della verità come primo diritto da rivendicare, e come
fatto scardinante il regime. Nel sistema post-totalitario per
opposizione può intendersi quell'insieme di persone o di gruppi che,
all'interno della struttura del potere, sviluppano segretamente un
conflitto di potere con i livelli superiori. Tuttavia, propriamente,
opposizione è ogni tentativo di vita nella verità. In ciò
opposizione e dissidenza vengono a coincidere (29). In un regime che
abbia il monopolio delle coscienze nulla può la mera violenza e la
rivolta armata, a prescindere dalla considerazione dell'apparato
repressivo quasi onnipotente di uno Stato che non trova più
resistenze istituzionali nel tessuto sociale ed ha quindi la capacità
di far leva sull'intera forza sociale. In tale situazione ciò che è
possibile, ed insieme è necessario fare è di riabilitare, di
disseppellire valori quali la fiducia, la sincerità, la
responsabilità, l'amore, la solidarietà tra i membri del corpo
sociale i cui canali di comunicazione sono immersi nel collante
ideologico di Stato. Non è un caso che gli operai di Danzica
all'indomani dell'"agosto polacco", quando devono dare un
nome al loro giornale, scelgano quello di "Solidarnosc".
L'importante è creare strutture di affermazione e di comunicazione
della verità che mettano in crisi i circuiti dell'ideologia
ufficiale, e quindi puntare a socializzare l'individuale asserzione
della verità (il fondo dell'opposizione, dunque, è morale) e
giungere a strutture che siano orientate non all'aspetto tecnico del
potere, ma al significato che deve assumere il suo esercizio,
strutture che si basino sulla percezione comune di adempimento dei
significati individuati ed accettati come giusti e razionali,
comunità prese dal senso del loro stesso esistere piuttosto che da
ambizioni espansionistiche verso il "fuori". L'occidentale che
legge il "samizdat", i documenti del dissenso sovietico o
degli altri paesi dell'Est comunista, spesso rimane disorientato dalla
portata minima delle rivendicazioni dei dissidenti (30); egli è
abituato a ragionare in termini di riforma, di rivoluzione e comunque
di globalità, o di totalità del progetto politico. Non si
raccapezza più quando legge, ad esempio, le richieste contenute
nella Charta '77 (31), che non vogliono nient'altro che
l'applicazione da parte del governo cecoslovacco dei principi
contenuti nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo
(approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre
1948), nel "Patto internazionale sui diritti civili e politici"
e nel "Patto internazionale sui diritti economici, sociali e
culturali" (entrambi approvati dalla medesima assemblea nel
1966). Così, l'occidentale è portato a concludere che il dissenso
nell'Est "si limiti" a rivendicare un ritorno sic et
simpliciter alle democrazie parlamentari, alle libertà
cosiddette borghesi, e dunque ad una pratica legalitaria più
coerente. Tuttavia, queste rivendicazioni inserite in quella realtà
politico-sociale sono in grado di darci nuovi e migliori schiarimenti
su ciò che viene chiamato da più parti "libertà borghese",
e sulla effettiva portata dei diritti dell'uomo, cioè di una serie
di facoltà più o meno pretese da e assicurate all'individuo come
tale, rispetto all'azione dello Stato.
Quando la riforma
è rivoluzione
Questi diritti
trovano il loro primo fondamento nella rivalutazione dell'individuo,
nel suo svincolarsi dal "sistema della menzogna", e nel suo
sforzo di vivere momenti di verità. Per riprendere l'esempio del
fruttivendolo fatto sopra, questi rivendica con efficacia un diritto
e fa sì che questo si traduca in effettiva autonomia rispetto al
potere, non quando ottiene che quei diritti siano sanciti nella
Gazzetta Ufficiale, ma quando egli stesso avrà fornito loro un
appiglio per farsi realtà. Potrà validamente esercitare/rivendicare
quei diritti cominciando a togliere quel cartello "Proletari di
tutti i paesi unitevi!" che per inerzia, per l'automatismo che
dal potere si trasmette agli individui e viceversa, egli aveva messo
in bella mostra sulle pareti della sua bottega. Così, la
rivendicazione dei diritti dell'uomo diviene non solo una pratica
politica, ma immediatamente una pratica morale ed esistenziale,
agganciata saldamente all'essere etico di ciascun individuo ed alla
quotidianità del "qui ed ora". "Nel sistema
post-totalitario il campo reale della politica potenziale è qualcosa
d'altro: la tensione continua e lacerante fra le pretese totalitarie
del sistema e le intenzioni della vita, cioè il bisogno elementare
che l'uomo ha di vivere almeno in una certa misura in sintonia con se
stesso, di vivere così semplicemente, senza essere umiliato da
superiori e da uffici, senza essere continuamente controllato dalla
polizia; potersi esprimere più liberamente, poter realizzare la
propria creatività naturale, avere una sicurezza giuridica e così
via (...). Gli uomini che vivono in un sistema post-totalitario sanno
fin troppo bene che ciò che conta non è se al potere c'è un
partito o più partiti e il nome che essi hanno, ma se si può o non
si può vivere umanamente" (32). La rivendicazione della
legalità del sistema politico (uno dei caratteri sopra individuati
del dissenso) significa, nel contesto dei "paesi socialisti",
rivendicazione dei diritti dell'uomo, di limiti all'invadenza del
potere (33). In un sistema
chiuso al pluralismo dei gruppi sociali e delle idee , la
tradizionale differenza tra riforma e rivoluzione viene a cadere. La
riforma, posto che essa parta dal basso della società e non sia mero
processo di adattamento/razionalizzazione del sistema (vedi, ad
esempio, il modello di Kadar in Ungheria), è per il sistema
totalitario tanto sovversiva quanto un tentativo apertamente
rivoluzionario (34). Cambiare un pezzetto del sistema, intaccarlo in
un punto, significa distruggere la sua totalità, cioè il suo stesso
essere. Distaccarsene, prendere le distanze da esso, anche solo
moralmente, significa metterne in discussione i fondamenti di
legittimazione. Così, anche se le opposizioni popolari in quei paesi
rarissimamente si propongono di rivoluzionare completamente il
sistema (è il caso anche di "Solidarnosc"), esse sono
"oggettivamente" rivoluzionarie nel momento stesso in cui
si affermano come opposizione, e cioè (a) sollevano il
velo ideologico del sistema, (b) interrompono
l'autocinesi del sistema ovvero ne intaccano la totalità (35). Ecco
perché, immancabilmente, prima o dopo, presto o tardi, su quelle
opposizioni si abbatte il pugno di ferro della repressione. D'altro canto, tale
situazione ci illustra assai bene il valore di quei diritti, di
quelle piccole parziali rivolte, che troppo spesso sono state
disprezzate e derise, il valore stesso della forma giuridica, perché
"si vede (...) alla prova dei fatti, che fra libertà cosiddetta
"astratta" e libertà cosiddetta "concreta", o c'è
un gioco di parole, oppure non c'è differenza alcuna" (36).
Come dinanzi al re assoluto, così dinanzi al potere anonimo,
all'Organizzazione (37), la libertà di parola, di stampa, di
associazione, il diritto a una propria sfera privata assumono tutta
la loro carica sovversiva ed antiautoritaria (38). Carica, che è
sempre dentro di essi, anche nelle democrazie più moderate, che
hanno fatto di quei diritti delle "concessioni": essa
costituisce la loro interna contraddizione politica. Questo è uno
degli insegnamenti - forse il maggiore - che ci viene dall'esperienza
di sofferenza e di lotta d'oltrecortina.
(1)
Sull'"egocrate", cfr. C. Lefort, L'uomo al bando,
Vallecchi, Firenze 1980, in particolare pp. 51-53.
(2)
Utilizzo qui alcuni miei appunti della conferenza "Sorti del
totalitarismo e imperialismo sovietico" tenuta da
Castoriadis a palazzo Dugnani, Milano, il 27 marzo 1982.
(3)
Questa è la tesi di Hannah Arendt, sviluppata nel suo celebre libro
Le origini del totalitarismo, Comunità, Milano 1967. Anche la
Arendt ritiene che dopo Stalin il sistema sovietico non sia più
"totalitario" in senso proprio Cfr. H. Arendt, Thoughts
on Politics and Revolution. A commentary, in id., Crises of
the Republic, Penguin, Harmondsworth 1973, p. 181.
(4)
F. Neumann, Note sulla teoria della dittatura, in F. Neumann,
Lo stato democratico e lo stato autoritario, Il Mulino,
Bologna 1973, p. 345.
(5)
R. Kühnl, Due forme
di dominio borghese: liberalismo e fascismo, Feltrinelli, Milano
1973, p. 229. Questo studioso di scienza politica così pone la
differenza tra i regimi fascisti e le dittature classiche: "L'analisi
che abbiamo svolto finora ha mostrato che la dittatura fascista si
differenzia notevolmente da altre forme di oppressione reazionaria.
Le differenze non riguardano la funzione sociale, che consiste in
ogni caso nella salvaguardia dell'ordinamento sociale esistente e dei
privilegi delle classi sociali superiori che sono connessi a
quell'ordinamento. Ma nella struttura del regime e nei metodi
impiegati per conservarlo il fascismo si distacca nettamente dalle
forme tradizionali di dittatura reazionaria. Così, mentre, per
esempio, le dittature dell'America latina, che sono espresse
soprattutto dalla classe superiore feudale, basano il loro potere
esclusivamente sull'apparato esecutivo, e cioè sulle forze armate,
sulla polizia e sulla burocrazia, il fascismo dispone di un sistema
di organizzazioni che gli assicurano una base nelle masse" (op.
cit., p. 232). Sulla differenza tra tirannia e totalitarismo, cfr.
anche Lefort, op. cit., p. 46.
(6)
V. Havel, Il potere dei senza potere, CSEO, Bologna
1979, p. 24.
(7)
Così Mario Stoppino nella sua relazione Ideologia e politica alle
giornate di studio su "Ideologia e crisi delle istituzioni"
(Messina, 10-12 marzo 1980), organizzate dalla Facoltà di Scienze
politiche dell' Università di Messina.
(8)
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1976,
p. 54.
(9)
Havel, op. cit., p. 15.
(10)
Il sistema totalitario ha creato "tutta una serie di organizzazioni
speciali che dovevano permettergli di rivolgersi, per così dire,
individualmente ai diversi gruppi sociali e di fare in modo che
ciascuno di essi avesse l'impressione di essere proprio al centro del
suo interesse. Le organizzazioni speciali per i medici e per i
giuristi, per gli impiegati e gli operai, per le donne e gli
adolescenti, costituivano l'ossatura di una struttura organizzativa
che, dopo la conquista del potere politico, ha mostrato la tendenza
ad abbracciare completamente tutti i gruppi della popolazione"
(Kühnl, op. cit., p.
229). Kühnl scrive
questo a proposito del regime nazionalsocialista, ma le medesime
osservazioni valgono per descrivere la metastasi organizzativa del
"socialismo reale".
(11)
Kühnl, op. cit.,
pp. 229-230. "Uomini che fino a quel momento erano rimasti per
lo più al di fuori degli avvenimenti politici e che erano stati
sempre oggetto della volontà altrui si sono visti affidare
responsabilità di comando, e sia pure in un settore ristrettissimo,
come responsabili di isolato o incaricati della difesa passiva contro
gli attacchi aerei. Così lo stato fascista ha suscitato sentimenti
di idealismo e di abnegazione, ha mobilitato le energie di grandi
masse, ha dato loro la sensazione di essere soggetti attivi e di
essere chiamate a partecipare alle grandi decisioni" (ivi, p.
230).
(12)
Havel, op. cit., pp. 24-25. Che il regime burocratico sia la
società della "servitù di tutti" è lucidamente presentito
da John Stuart Mill: "Ma dove ogni cosa è compiuta per mezzo
della burocrazia, nulla può farsi che non piaccia affatto alla
burocrazia. La costituzione di tali paesi è l'organizzazione
dell'esperienza e dell'abilità pratica della nazione in un corpo
disciplinato che ha come scopo il governo del resto del paese; e
quanto più tale organizzazione è perfetta in sé, tanto maggiore è
il successo che essa riscuote nell'attirare a sé e nell'educare per
se stessa le persone delle più grandi capacità provenienti da tutti
i ranghi della comunità, tanto più completa è la servitù di
tutti, compresi i membri della burocrazia. Poiché i governanti sono
tanto schiavi della loro organizzazione e disciplina, quanto i
governati lo sono dei governanti. Un mandarino cinese è strumento e
creatura del dispotismo altrettanto quanto il più umile contadino.
Un singolo gesuita è schiavo del suo ordine fino all'estremo limite
dell'umiliazione, sebbene l'ordine stesso esista per il potere
collettivo e l'importanza dei suoi membri" (J. Stuart Mill, On
Liberty, ed. Penguin Books, p. 184). Più sotto Stuart Mill
intuisce l'aspetto autocinetico del regime burocratico quando lo
definisce "un grande sistema, il quale, come tutti i sistemi,
procede dietro norme fisse ed invariabili" (ibidem).
(13)
G. Chiodi, La menzogna del potere, Giuffré, Milano 1979, p.
134.
(14)
Ivi, p. 138.
(15)
Ivi, p. 143.
(16)
G. Orwell, Millenovecentoottantaquattro, Mondadori, Milano
1973, p. 28.
(17)
Havel, op. cit., p. 66. II rifiuto della politica come rifiuto
dell'attività che mira alla conquista del potere politico è comune
a tutto il dissenso dell'Est europeo. Cfr G. Konrad, Antipolitik.
Mitteleuropàische Meditationen. Suhrkamp, Frankfurt/M. 1985, p.
201 ss.
(18)
Havel, op. cit., p.66.
(19)
Ivi, p.67.
(20)
Ibidem.
(21)
Ivi, p.68.
(22)
F. Neumann, Behemoth. The structure and practice of National
Socialism (1933-1944), Cass, London 1967, p. 446.
(23)
Havel, Op. cit., p. 69.
(24)
F. Neumann, Mutamenti della funzione della legge, in F.
Neumann, Lo stato democratico e lo stato autoritario,
cit., p. 279.
(25)
Ivi, pp.255-256.
(26)
II regime democratico, come regime di massa, conterrebbe in sé i
germi di una società illiberale (Tocqueville) e totalitaria (Silone,
Arendt). Di Ignazio Silone si legga in proposito La scuola dei
dittatori. Considerazioni simili a quella di Silone e della
Arendt svolgeva Nicola Chiaromonte (cfr. il suo La morte si chiama
fascismo (1935), ora in N. Chiaramonte, Scritti politici e
civili,. Bompiani, Milano 1976, in particolare p.65).
(27)
G. De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Feltrinelli,
Milano 1962, pp. 361-362.
(28)
Havel, op. cit., p. 28.
(29)
Per una distinzione tra "opposizione", "contestazione"
e "dissidenza" nei paesi socialisti, cfr. I. Yannakakis,
Differenze e analogie tra i movimenti del dissenso,
in AA.VV., Libertà e socialismo. Momenti storici del dissenso
(Atti del convegno sul tema "Libertà e socialismo", Venezia,
15-18 novembre 1977, Sugarco, Milano 1978, p. 145 ss.
(30)
Di rivendicazioni "minime" e di programma "minimo"
parla, ad esempio, Jacek Kuron, nel suo scritto La situazione
attuale e il programma dell'opposizione
(1979), ora in AA.VV., Capire Danzica, a cura di P. Bernocchi
e F. Bottaccioli, ed. quotidiano dei lavoratori, Roma 1980, pp.
129-133.
(31)
Charta '77, CSEO, Bologna 1978.
(32)
Havel, op. cit., pp. 42-43.
(33)
Su ciò, cfr. N. Chiaromonte, La tirannia moderna (1968), ora
in Chiaromonte, Scritti politici e civili, cit., p. 316.
(34)
"Nel sistema sovietico le riforme radicali sono più o meno
impossibili, perché attuare riforme effettive equivarrebbe a
stravolgere la natura del sistema. Anche le riforme parziali, le sole
possibili, vengono inevitabilmente vanificate dalla natura del
sistema, in quanto non appena esso percepisce di essere minacciato
dalle riforme le respinge" (cosi dice Vladimir Maksimov,
scrittore sovietico emigrato in Occidente, in un'intervista a cura di
G. Stewart, in "La Repubblica" del 18 maggio 1983). Su questo
punto, cfr. anche L. Kolakowski, Il socialismo burocratico è
riformabile?, in Kolakowski, Marxismo. Utopia e antiutopia,
Feltrinelli, Milano 1981, p. 114 ss.
(35)
"Il fondamento del totalitarismo è la concezione hegeliana di
fronte alla quale lo Stato è la somma di tutte le individualità che
non sono singole, che assorbe la totalità degli elementi di un
insieme, il regime in cui il potere confisca la totalità delle
attività della società che esso domina. Hegel diceva: "Fuori
dello Stato il popolo non sa cosa vuole". Il dissenso invece
concepisce lo stato come un puro accidente della storia, un elemento
contingente e non una necessità. L'individuo trascende la
contingenza, è superiore allo stato" (J. Daniel, Il diritto
di dire no, in AA.VV, Libertà e socialismo. Momenti storici
del dissenso, cit., p. 16).
(36)
N.. Chiaromonte, op. cit., p. 316.
(37)
Il sistema del potere anonimo trova la sua manifestazione più pura
ed agghiacciante nell'esperienza della Cambogia all'indomani della
caduta di Phnom Penh (1975) e della presa del potere da parte dei
Kmer rossi. Nella struttura comunista creata dai Kmer rossi, ogni
forma di mediazione sociale formale era stata abolita e la società
era concepita e trattata come un tutto omogeneo (e perciò uniforme).
Il partito comunista dei Kmer rossi, che dominava spietatamente sul
paese, si era spogliato del suo nome tradizionale per chiamarsi
semplicemente Angkar (Organizzazione), rendendosi così
astratto e anonimo. "Una società soggetta a un controllo totale
e indiscusso era stata creata come conseguenza logica
dell'eguaglianza assoluta, e al suo vertice era l'anonima
organizzazione" (F. Feher, Cambogia: l'utopia omicida, in
"Mondoperaio", marzo 1983, p. 97, corsivo nel testo).
(38)
"Non vale affermare i diritti se non per questo antagonismo, la
dichiarazione dei diritti umani dev'essere letta come una
dichiarazione di guerra. Non si tratta di produrre una società più
o meno ideale e un buon governo a partire da un grado zero della vita
sociale. Si tratta invece di affrontare la minaccia, la "presenza"
o il "ricordo recente" del dispotismo" (A. Glucksmann,
Una strategia del dissenso: i diritti umani, in AA.VV.,
Libertà e socialismo. Momenti storici del dissenso, cit., p.
143, corsivo nel testo).
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