Rivista Anarchica Online
Carcere e salute / Ma la vera malattia è la galera
La deprivazione affettiva e la riduzione delle possibilità di comunicazione sociale sono i primi fattori
di malattia del carcere. La mancanza o la drastica limitazione delle possibilità d'esplicitare, manifestare le proprie possibilità
relazionali, affettive, sessuali, agisce nelle situazioni coatte come un potente fattore di limitazione delle
capacità di difesa dell'organismo d'ogni essere umano. Si potrebbe parlare, azzardando i termini, di
«demotivazione delle energie psichiche» che s'esprime all'interno del corpo a partire da una perdita
d'entusiasmo, di carica vitale, con una generale riduzione del tono muscolare e nervoso o nel rapporto
tra il corpo e l'ambiente con la perdita d'attenzione e di capacità di organizzazione nei confronti dei più
normali processi di interazione quali tener pulito il posto in cui si vive, farsi da mangiare, dormire, etc. Queste considerazioni in genere vengono poste in secondo piano ed assume maggior evidenza un
discorso riferito semplicemente alla patologia misurabile nella materialità del corpo quando essa si
manifesta come degenerazione funzionale d'alcune sue parti, palesemente evidenti. Ciò perché sembra
che una evidente degenerazione funzionale possa essere catalogabile scientificamente, misurabile,
rapportabile ad un modello ipotetico di normalità, modificabile e, al limite, asportabile. Fare questo, cioè considerare la materialità del corpo come unica realtà evidente, misurabile, normabile
(nel senso operativo di riconducibile a norma), significa non considerare, astraendo, la dimensione
umana nella sua specificità d'essere razionale e comunicante. Se questa «banalità», su cui da tempo si accentra la polemica intorno alla funzione ed al ruolo sociale
della medicina, può avere effetti, ma quanto non si sa (nel senso che non si sono viste sperimentazioni
concrete informate da questo criterio se non in momenti estremamente parziali), scarsamente rilevanti
nella gestione delle malattie in un territorio (riferita ad un criterio in cui un comportamento
maggioritario è ritenuto per questo normale) in cui gli esseri umani sono per cosi dire sufficientemente
liberi di esprimersi, in carcere questa premessa è fondamentale. Non si può considerare, soprattutto in questo ambiente, la malattia come un fatto puramente «fisico»
ma essa va colta, considerata all'interno d'una concezione integrata e totale dell'essere umano. Si
potrebbe parlare di processi di «somatizzazione negativa» e processi di «somatizzazione positiva»,
d'una dialettica tra vita e morte, riferiti alla dimensione della vita psichica, relazionale, affettiva d'ogni
essere umano e a maggior ragione di quelli prigionieri. C'è evidentemente, per ognuno, una specificità.
Una specificità nella maniera di considerarsi nel presente, d'interpretare la propria storia passata, di
proiettarsi nel futuro costruendo le proprie aspettative. Per la cura delle malattie di galera andrebbe innanzi tutto praticata la ricerca di tutti quei momenti che
si potrebbero chiamare di «somatizzazione positiva»; innanzi tutto il parlare e l'ascoltare; il giocare (sì,
il giocare, andrebbe fatto un manifesto di lotta sul diritto al gioco), il toccarsi, la possibilità d'esprimere
la propria sessualità, la propria affettività tra amanti, tra madri, padri, figli, la possibilità d'esplicare
l'attività creativa, di dare forma ai propri desideri e progetti, qualunque forma, di concretizzare le idee
(le navi fatte con i fiammiferi dai prigionieri hanno un valore «terapeutico»), ma nessuno saprà mai
la quantità di pensieri, sogni, desideri che si concretizzano e prendono forma, con mille processi
d'astrazione, traslazione analogica e metaforica, in ogni fiammifero, in ogni truciolo, in ogni goccia
di colla. I «comuni» fanno le navi, i «politici» a volte «documenti» arabeschi. Gioco, amore, creazione, elementi semplici, stimoli vitali che stanno alla base dello svilupparsi degli
esseri umani e delle loro relazioni. La possibilità di questo innanzittutto ci serve. Se si fa un lavoro di
denuncia delle condizioni di esistenza in carcere, se riveliamo i segni che il carcere produce sul nostro
corpo, che si producono nel rapporto con la struttura dello spazio-tempo coatto, lo facciamo come
ricerca di momenti di comunicazione, socializzazione dei nostri desideri di vita, come esseri umani,
con tutti coloro che allo sviluppo ed alla ricerca di maggiori spazi di libertà sono interessati perché li
percepiscono come condizione fondamentale per lo sviluppo di nuove e ricche qualità umane. Affrontare un discorso sulla salute in carcere (ma in generale in ogni territorio metropolitano) significa
affrontare un discorso sulla trasformazione dei rapporti sociali che lo fanno esistere come tale. Anche
qui l'azione non si produce immediatamente come segno/contro-segno nella materialità, ma come
costituzione, sviluppo, ricerca di nessi vitali, relazioni partecipate, improntate e costituite dalla tensione
verso lo sviluppo di valori positivi: gioco, amore, creazione. Nella lontana estate '81 l'estinzione del carcere aveva iniziato a vivere attraverso la produzione di mille
e diversi momenti di trasgressione parziale, come produzione da subito di una sequenza di gesti
immediati, prolungata più a lungo possibile attraverso mille forme di mediazione, che valevano in
quanto tali e basta (i gesti). Il senso di ogni gesto non stava nel riferimento a metadiscorsi interni a
sistemi di metalinguaggi, come si è soliti fare nella «normalità» delle reaizioni umane, dove vale più
il non-detto, il segnale implicito e vince chi possiede più maschere, no, il gesto del gesto era
semplicemente il gesto stesso. Il motivo delle fermate all'aria era la necessità d'avere più ore d'aria a disposizione. La rinuncia alla
produzione d'un senso «oggettivo», rinuncia costante più o meno vissuta coscientemente ma praticata
da tutti, la rinuncia alla produzione d'un metasenso al di là del senso immediato lasciava lo spazio alla
produzione di mille sensi reali e particolari (sensi-significati), alla potenzialità della loro specificità. In fin dei conti per estinguere il carcere basta non crederci, non prenderlo sul serio. Questo atto mentale di indipendenza, che è rifiuto di tutti i processi di introiezione che il carcere stesso
(all'interno ed all'esterno di esso) induce in ogni personalità (come realtà afflittiva o minaccia latente),
è l'inizio del suo processo d'estinzione nel momento in cui l'idea della sua estinzione necessaria,
derivata dal suo non-senso, che si realizza nelle nostre menti, si configura come potenzialità di uno
spazio sociale nuovo, potenzialità di nuove relazioni umane perché quando i desideri di libertà
s'incontrano si sorride e c'è vita. Le lotte per l'affettività, il salto del bancone ai colloqui, le «tendine
rosa» sono state tutto questo e magari anche altro. (...) Ma l'irruzione di gesti di vita non è stata sufficiente e quel poco di realtà nuova che s'era prodotta s'è
spezzata sotto il peso dei metadiscorsi mortificanti. Un manifesto per il diritto al gioco, all'amore, alla creazione fa e faceva scandalo, eppure ogni vita vale
per quello che è: la storia come ambito unificante del senso delle esperienze particolari non è un caso
che sia narrata come sequenza di guerre, di morti, di tradimenti ed essa è, rappresenta per ognuna
d'esse, per ogni esperienza, la sua morte anzi essa vive perché esse muoiano. Esistiamo per ciò che
siamo, per ciò che vogliamo fare, per come vogliamo esistere. Parlare della salute in carcere, parlare dei corpi in galera, è parlare del non-senso immediato, per ogni
essere umano, rispetto alla sua naturalità, delle condizioni di prigionia. Ricominciamo da qui.
Alessandro Bruni (Carcere S. Vittore - Milano)
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