Rivista Anarchica Online
Bianca, Zelig e lo stato
di Alessandra Calanchi
E' comprensibile che Woody Allen abbia confessato che, dopo anni di preparazione, aveva finito
per affezionarsi al suo ultimo personaggio, Zelig, e che abbia dichiarato che ne sentirà ora
probabilmente la mancanza. Perché Zeling è parso, al regista come agli spettatori, segno di una
rinnovata speranza, quella della possibilità che l'uomo torni, in un modo o nell'altro, a cercare
di «comunicare». Che dire allora di Michele, protagonista del film Bianca (N. Moretti, 1984), e in un certo senso
tanto simile a Zelig, se non altro per il fatto di essere, come quest'ultimo, «doppio» del proprio
regista-creatore? Che significato ha questo personaggio - o questo film - nell'ambito della ricerca
dell'identità e della riscoperta dell'«altro»? Zelig è apparso come un personaggio altamente rivoluzionario, sintesi positiva di personaggi
e di miti precedenti (viene in mente Chancy di Oltre il giardino (P. Ashby, 1979) per la sua
innocenza di essere umano incontaminato, ma anche la lunga tradizione del mimo come
rappresentazione del nascosto, dell'invisibile; e viene in mente anche la paura/attrazione
americana del «diverso», ad esempio nelle scene in cui Zelig si trasforma in nero, in pellerossa,
in greco, in ebreo). Zelig fa la sua legge americana del doppio, si trasforma in doppio degli altri
per andare loro incontro, per assomigliare alla realtà che ha di fronte volta per volta, per farsi
accettare come pari. Non avendo una propria identità, non avendo una vera consapevolezza del
proprio io, egli tende ad assumere i connotati fisici e psicologici del suo prossimo nel tentativo
di rendere possibile la comunicazione (per questo si «improvvisa» ora medico, ora psicanalista,
ecc.). Sottoposto alle pazienti cure (o tentativi di recuperarlo alla «normalità», ossia a dargli una
«sua» identità) di una dottoressa che diventerà infine sua moglie, egli imparerà fin troppo bene
la «lezione» e sarà pronto, per un nonnulla, alla rivolta (vedi il dialogo coi medici sulla «bella
giornata»): la prima identità dell'uomo nuovo è rivoluzionaria. Ciò che non è affatto rivoluzionario è, invece, l'intero processo di «recupero» a cui Zelig viene
sottoposto. E' vero che avere un'identità, non fare parte del gregge, è rivoluzionario: ma questa
rivoluzionarietà è solo apparente e si risolve nel suo esatto contrario, poiché Zelig deve
diventare in realtà come gli altri. La sua identità deve, cioè, portarlo a diventare un membro
della comunità, ad abbandonare ogni «stranezza» al di fuori della norma, a superare le due
opposte esperienze della «caduta» (quando è ricercato per avere contratto più matrimoni) e del
«superomismo» (quando sorvola l'Atlantico). Michele può essere considerato una specie di Zelig italiano? La differenze sono certo troppe,
e troppo grosse. In primo luogo, forse non ha senso fare confronti fra cinema americano e
cinema italiano, due realtà diverse dagli scopi diversi. In secondo luogo, le realtà e gli scopi
specifici dei due film sono effettivamente molto dissimili. Eppure, in entrambi i casi, di film drammatici ed
umoristici insieme, basati su espedienti quali l'allegoria, il paradosso, il riferimento alla psicanalisi.
E, come Zelig, anche Michele è spinto innanzi tutto da un impellente e nevrotico desiderio di
comunicare. Egli, come Zelig, vive in funzione degli altri: lo schedario in cui raccoglie dati su
amici e vicini, il suo comportamento da spia rivelano la sua brama di creare un vincolo duraturo col
prossimo, un qualcosa che sia più forte dei rapporti superficiali e deludenti che lo circondano e che
lo privano di ogni certezza. Solo che entrambi lo fanno in modo «anomalo»: Zelig cercando di annullare se stesso per entrare
più profondamente a contatto dell'altro, Michele viceversa ergendosi a giudice ed esecutore di chi
lo delude. Ma mentre Zelig, una volta reintegrato nella normalità, troverà se stesso e saprà gestire il
suo rapporto con gli altri in modo «maturo», Michele invece si nega fin dall'inizio ogni possibilità
di «recupero». La sua rivolta è sempre indidivuale, il suo rapporto col prossimo è circospetto, il suo
giudizio è irrevocabile. Chi «tradisce» deve essere eliminato. Michele sembra farsi esecutore
materiale di quanti non obbediscono alle norme morali e civili imposte dalla società. La coppia e la
scuola assurgono a simboli delle istituzioni sociali minacciate da innovazioni distruttrici e dalla
crescente superficialità e standardizzazione dei rapporti interpersonali. La rivolta di Michele è
psicologicamente motivata e psicologicamente orientata, ma non si può trascendere completamente
da un discorso politico-sociale. La coppia «ortodossa» ha vissuto psicologicamente una crisi che
l'ha trasformata in coppia «demoniaca», ma è sul piano politico che questa crisi diventa di comune
interesse sociale. Lo stesso vale per la scuola, per la psicanalisi, per la polizia. E Michele è
inconsapevolmente tutore delle istituzioni e difensore di quello stesso ordine tradizionale (basato,
come si sa, sul nucleo della coppia o della famiglia) che paradossalmente decreterà la sua colpa. Che senso ha, allora, la «protesta» di Michele? E' vero che possiamo leggerla semplicemente in
senso psicologico: Michele è un trentenne «disadattato», vittima di una società in «evoluzione»
che, oltre a dimenticare l'importanza della comunicazione in generale, sta isolando l'individuo dal
suo prossimo più vicino: il collega, il partner, il vicino di casa, l'amico. La reazione di questo
giovane sarà dunque una crisi maniaco-depressiva che lo porterà a «cancellare» simbolicamente
dalla società coloro che si comportano in maniera «deludente». In questo quadro, l'umorismo che
permea il racconto ha due funzioni: da un lato provoca una continua caduta di tensione drammatica,
in modo da preparare gradualmente lo spettatore a un finale altamente drammatico, dall'altro serve
a rendere più simpatico e accettabile il personaggio stesso. Una lettura più politica, però, ci
illumina su nuovi elementi. Michele è il diretto erede di quella serie di giovani un po' «persi» che
popolavano i film precedenti di Moretti (vedi Io sono un autarchico, Ecce Bombo). Ma ora è
passata la rivolta, è passato il periodo del sogno collettivo, è passato anche il momento
«costruttivo» che aveva visto come protagonista non l'individuo, ma il gruppo. Vale la pena di
ricordare una delle scene più significative e più «teatrali» del film: Michele interroga i suoi amici di
un tempo sul loro presente, ricordando i giorni in cui essi parlavano di una grande casa in cui
vivere tutti assieme. E termina chiedendo a loro e a se stesso, con un misto di stupore genuino e di
intensità drammatica: «Eravate pazzi, allora?». Michele è cioè l'individuo che ha sperimentato, psicologicamente e politicamente, il fallimento del
gruppo e, con questo, di una certa speranza collettiva che aveva caratterizzato tutta una
generazione. Se Zelig è l'uomo allo stato puro, incontaminato, che manca d'identità perché manca
di esperienza - secondo la ben nota filosofia americana - Michele è invece l'uomo precocemente
invecchiato, percocemente esperto, precocemente deluso. La solitudine di Zelig fa compiere a
questo personaggio una serie di «trasgressioni» psichiche e fisiche (le sue «trasformazioni») e
legali (i suoi numerosi matrimoni), ma egli resta fondamentalmente inconsapevole della portata
rivoluzionaria che tali trasgressioni dalla norma potrebbero avere. La solitudine di Michele, invece,
gli fa sì compiere una serie di trasgressioni, anch'esse psicofisiche (lo schedario, trasgressione
dell'intimità altrui) e legali (gli omicidi); ma - a parte il fatto che si potrebbe obiettare che gli
omicidi hanno un valore chiaramente simbolico - a differenza di Zelig, Michele è perfettamente
consapevole di ciò che sta facendo e del motivo che lo spinge a farlo. La società lo ha deluso, gli
altri lo hanno deluso non perché non vivono nella norma ma perché al contrario sono ricaduti nella
norma più bieca, che è quella dell'adulterio tipicamente borghese, della mancanza di rispetto della
parola data, dell'ipocrisia. Essi non sanno più superare in maniera autonoma e matura le ambiguità
di un rapporto in crisi, o le assurdità della scuola: per questo si sono adagiati in nuovi standard di
comportamento, hanno trasformato le vecchie istanze di rinnovamento in comodi stereotipi sociali.
In questo mondo falsamente progredito e falsamente rivoluzionario Michele fa la figura del
reazionario; ma, in realtà, mentre Zelig - lui sì reazionario, suo malgrado - si muove nel corso del
film dall'anormalità alla normalità, Michele si muove coerentemente nella propria a-normalità
dall'inizio alla fine del racconto. E mentre Zelig viene aiutato e manovrato, Michele non accetta
l'aiuto di nessuno, neppure della donna che ama. Michele è rimasto un «autarchico» segretamente innamorato del gruppo ma impossibilitato a creare
legami. Non si è sposato, non ha la ragazza; è ancora un adolescente geloso e perverso che
tormenta se stesso e le persone che ama perché non è riuscito a superare la «fase orale» (vedi il
gigantesco barattolo di Nutella che troneggia sul tavolo) per colpa dell'aridità dei rapporti che lo
circondano. E dunque la sua protesta è più che psicologica: è politica, è umana. Stiamo in guardia
da chi dà un valore sinistramente reazionario alla protesta di Michele: non dimentichiamo
l'affettuosa auto-ironia che ha sempre guidato Moretti nei suoi films, e soprattutto non
dimentichiamoci, anche in un momento in cui parlare di pacifismo suona spesso così
«rivoluzionario», anche parlare di valori umani e politici potrebbe suonare ambiguo e provocare
scandalo...
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