Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 14 nr. 121
estate 1984


Rivista Anarchica Online

Bianca, Zelig e lo stato
di Alessandra Calanchi

E' comprensibile che Woody Allen abbia confessato che, dopo anni di preparazione, aveva finito per affezionarsi al suo ultimo personaggio, Zelig, e che abbia dichiarato che ne sentirà ora probabilmente la mancanza. Perché Zeling è parso, al regista come agli spettatori, segno di una rinnovata speranza, quella della possibilità che l'uomo torni, in un modo o nell'altro, a cercare di «comunicare».
Che dire allora di Michele, protagonista del film Bianca (N. Moretti, 1984), e in un certo senso tanto simile a Zelig, se non altro per il fatto di essere, come quest'ultimo, «doppio» del proprio regista-creatore? Che significato ha questo personaggio - o questo film - nell'ambito della ricerca dell'identità e della riscoperta dell'«altro»?
Zelig è apparso come un personaggio altamente rivoluzionario, sintesi positiva di personaggi e di miti precedenti (viene in mente Chancy di Oltre il giardino (P. Ashby, 1979) per la sua innocenza di essere umano incontaminato, ma anche la lunga tradizione del mimo come rappresentazione del nascosto, dell'invisibile; e viene in mente anche la paura/attrazione americana del «diverso», ad esempio nelle scene in cui Zelig si trasforma in nero, in pellerossa, in greco, in ebreo). Zelig fa la sua legge americana del doppio, si trasforma in doppio degli altri per andare loro incontro, per assomigliare alla realtà che ha di fronte volta per volta, per farsi accettare come pari. Non avendo una propria identità, non avendo una vera consapevolezza del proprio io, egli tende ad assumere i connotati fisici e psicologici del suo prossimo nel tentativo di rendere possibile la comunicazione (per questo si «improvvisa» ora medico, ora psicanalista, ecc.). Sottoposto alle pazienti cure (o tentativi di recuperarlo alla «normalità», ossia a dargli una «sua» identità) di una dottoressa che diventerà infine sua moglie, egli imparerà fin troppo bene la «lezione» e sarà pronto, per un nonnulla, alla rivolta (vedi il dialogo coi medici sulla «bella giornata»): la prima identità dell'uomo nuovo è rivoluzionaria.
Ciò che non è affatto rivoluzionario è, invece, l'intero processo di «recupero» a cui Zelig viene sottoposto. E' vero che avere un'identità, non fare parte del gregge, è rivoluzionario: ma questa rivoluzionarietà è solo apparente e si risolve nel suo esatto contrario, poiché Zelig deve diventare in realtà come gli altri. La sua identità deve, cioè, portarlo a diventare un membro della comunità, ad abbandonare ogni «stranezza» al di fuori della norma, a superare le due opposte esperienze della «caduta» (quando è ricercato per avere contratto più matrimoni) e del «superomismo» (quando sorvola l'Atlantico).
Michele può essere considerato una specie di Zelig italiano? La differenze sono certo troppe, e troppo grosse. In primo luogo, forse non ha senso fare confronti fra cinema americano e cinema italiano, due realtà diverse dagli scopi diversi. In secondo luogo, le realtà e gli scopi specifici dei due film sono effettivamente molto dissimili. Eppure, in entrambi i casi, di film drammatici ed umoristici insieme, basati su espedienti quali l'allegoria, il paradosso, il riferimento alla psicanalisi. E, come Zelig, anche Michele è spinto innanzi tutto da un impellente e nevrotico desiderio di comunicare. Egli, come Zelig, vive in funzione degli altri: lo schedario in cui raccoglie dati su amici e vicini, il suo comportamento da spia rivelano la sua brama di creare un vincolo duraturo col prossimo, un qualcosa che sia più forte dei rapporti superficiali e deludenti che lo circondano e che lo privano di ogni certezza.
Solo che entrambi lo fanno in modo «anomalo»: Zelig cercando di annullare se stesso per entrare più profondamente a contatto dell'altro, Michele viceversa ergendosi a giudice ed esecutore di chi lo delude. Ma mentre Zelig, una volta reintegrato nella normalità, troverà se stesso e saprà gestire il suo rapporto con gli altri in modo «maturo», Michele invece si nega fin dall'inizio ogni possibilità di «recupero». La sua rivolta è sempre indidivuale, il suo rapporto col prossimo è circospetto, il suo giudizio è irrevocabile. Chi «tradisce» deve essere eliminato. Michele sembra farsi esecutore materiale di quanti non obbediscono alle norme morali e civili imposte dalla società. La coppia e la scuola assurgono a simboli delle istituzioni sociali minacciate da innovazioni distruttrici e dalla crescente superficialità e standardizzazione dei rapporti interpersonali. La rivolta di Michele è psicologicamente motivata e psicologicamente orientata, ma non si può trascendere completamente da un discorso politico-sociale. La coppia «ortodossa» ha vissuto psicologicamente una crisi che l'ha trasformata in coppia «demoniaca», ma è sul piano politico che questa crisi diventa di comune interesse sociale. Lo stesso vale per la scuola, per la psicanalisi, per la polizia. E Michele è inconsapevolmente tutore delle istituzioni e difensore di quello stesso ordine tradizionale (basato, come si sa, sul nucleo della coppia o della famiglia) che paradossalmente decreterà la sua colpa.
Che senso ha, allora, la «protesta» di Michele? E' vero che possiamo leggerla semplicemente in senso psicologico: Michele è un trentenne «disadattato», vittima di una società in «evoluzione» che, oltre a dimenticare l'importanza della comunicazione in generale, sta isolando l'individuo dal suo prossimo più vicino: il collega, il partner, il vicino di casa, l'amico. La reazione di questo giovane sarà dunque una crisi maniaco-depressiva che lo porterà a «cancellare» simbolicamente dalla società coloro che si comportano in maniera «deludente». In questo quadro, l'umorismo che permea il racconto ha due funzioni: da un lato provoca una continua caduta di tensione drammatica, in modo da preparare gradualmente lo spettatore a un finale altamente drammatico, dall'altro serve a rendere più simpatico e accettabile il personaggio stesso. Una lettura più politica, però, ci illumina su nuovi elementi. Michele è il diretto erede di quella serie di giovani un po' «persi» che popolavano i film precedenti di Moretti (vedi Io sono un autarchico, Ecce Bombo). Ma ora è passata la rivolta, è passato il periodo del sogno collettivo, è passato anche il momento «costruttivo» che aveva visto come protagonista non l'individuo, ma il gruppo. Vale la pena di ricordare una delle scene più significative e più «teatrali» del film: Michele interroga i suoi amici di un tempo sul loro presente, ricordando i giorni in cui essi parlavano di una grande casa in cui vivere tutti assieme. E termina chiedendo a loro e a se stesso, con un misto di stupore genuino e di intensità drammatica: «Eravate pazzi, allora?».
Michele è cioè l'individuo che ha sperimentato, psicologicamente e politicamente, il fallimento del gruppo e, con questo, di una certa speranza collettiva che aveva caratterizzato tutta una generazione. Se Zelig è l'uomo allo stato puro, incontaminato, che manca d'identità perché manca di esperienza - secondo la ben nota filosofia americana - Michele è invece l'uomo precocemente invecchiato, percocemente esperto, precocemente deluso. La solitudine di Zelig fa compiere a questo personaggio una serie di «trasgressioni» psichiche e fisiche (le sue «trasformazioni») e legali (i suoi numerosi matrimoni), ma egli resta fondamentalmente inconsapevole della portata rivoluzionaria che tali trasgressioni dalla norma potrebbero avere. La solitudine di Michele, invece, gli fa sì compiere una serie di trasgressioni, anch'esse psicofisiche (lo schedario, trasgressione dell'intimità altrui) e legali (gli omicidi); ma - a parte il fatto che si potrebbe obiettare che gli omicidi hanno un valore chiaramente simbolico - a differenza di Zelig, Michele è perfettamente consapevole di ciò che sta facendo e del motivo che lo spinge a farlo. La società lo ha deluso, gli altri lo hanno deluso non perché non vivono nella norma ma perché al contrario sono ricaduti nella norma più bieca, che è quella dell'adulterio tipicamente borghese, della mancanza di rispetto della parola data, dell'ipocrisia. Essi non sanno più superare in maniera autonoma e matura le ambiguità di un rapporto in crisi, o le assurdità della scuola: per questo si sono adagiati in nuovi standard di comportamento, hanno trasformato le vecchie istanze di rinnovamento in comodi stereotipi sociali. In questo mondo falsamente progredito e falsamente rivoluzionario Michele fa la figura del reazionario; ma, in realtà, mentre Zelig - lui sì reazionario, suo malgrado - si muove nel corso del film dall'anormalità alla normalità, Michele si muove coerentemente nella propria a-normalità dall'inizio alla fine del racconto. E mentre Zelig viene aiutato e manovrato, Michele non accetta l'aiuto di nessuno, neppure della donna che ama.
Michele è rimasto un «autarchico» segretamente innamorato del gruppo ma impossibilitato a creare legami. Non si è sposato, non ha la ragazza; è ancora un adolescente geloso e perverso che tormenta se stesso e le persone che ama perché non è riuscito a superare la «fase orale» (vedi il gigantesco barattolo di Nutella che troneggia sul tavolo) per colpa dell'aridità dei rapporti che lo circondano. E dunque la sua protesta è più che psicologica: è politica, è umana. Stiamo in guardia da chi dà un valore sinistramente reazionario alla protesta di Michele: non dimentichiamo l'affettuosa auto-ironia che ha sempre guidato Moretti nei suoi films, e soprattutto non dimentichiamoci, anche in un momento in cui parlare di pacifismo suona spesso così «rivoluzionario», anche parlare di valori umani e politici potrebbe suonare ambiguo e provocare scandalo...