Rivista Anarchica Online
Nulla cade dal cielo
di Giuliano Falco
Sarebbe interessante ripercorrere il recente sviluppo del cinema tedesco fatto dalle donne alla luce delle
indicazioni e delle acquisizioni emerse all'interno del nuovo cinema tedesco (Kluge, Schlondorff,
Herzog, Fassbinder, Wenders, ecc.). Certamente non sarebbe difficile trovare coincidenze ed omologie,
punti di contatto come manifesti collettivi o prese di posizione relative a problemi sociali, ecc.. Ma
questa ricerca rischierebbe di appiattire il possibile spessore di un fenomeno originale,
sovrapponendolo e commisurandolo al già noto, al già catalogato. Rischierebbe, inoltre, di annullare
il suo potenziale di specificità, riconducendolo all'eterna legge dell'identico. Certamente molta strada è stata compiuta, sia dal cinema tedesco, che dalle donne che in esso operano,
dagli anni '60 ad oggi. Negli anni '60, le donne erano presenti dentro la macchina cinema solo nel ruolo
specializzato e subordinato di «montatrici», assenti però quasi totalmente in tutte le altre fasi della
catena produttiva (e, in particolare, in quella della regia). Il cammino delle donne verso un cinema
«diverso», meno sottoposto alle restrizioni e ai condizionamenti del cinema dominante, ha dovuto
essere, necessariamente e innanzitutto, un cammino verso il cinema. E ciò per unire la duplice identità
da costruire: quella di donna e quella di cineasta. I film realizzati in Germania negli ultimi anni '60/inizio anni '70 si inseriscono non solo in un processo
di trasformazione interno al cinema tedesco, bensì nel più ampio processo di trasformazione sociale
e politica, che ha visto nascere il Movimento delle donne. Film come I bambini non sono buoi di Helke
Sanders, Una gatta ha nove vite di Ula Stocke, Per donne - 1° capitolo di Christine Perincioli, La
storia di lui di Elsa Rassbach, Chi ha bisogno di chi? di Valeska Schottle, Quello che so di Maria di
Gisela Tuchtenhagen, testimoniano (sia per i temi affrontati che per l'intenzionalità nei confronti di un
preciso destinatario) di un rapporto stretto, inscindibile, tra pratica cinematografica e movimento delle
donne. Questo rapporto resterà saldo anche quando, da una fase legata più alla documentazione, alla
testimonianza e alla denunzia, il cinema delle donne passerà a nuove e più complesse articolazioni.
Contemporaneamente, si arriva a percepire il cinema come totalità molteplice e complessa di elementi;
a intravvederne le potenzialità differenziate ed illimitate, insieme ai condizionamenti che ne regolano
il dispositivo economico e tecnico. Nessuna illusione di ipotetica libertà del cinema, né di una sua
presunta immediateza e semplicità dei suoi procedimenti: per le registe tedesche, il cinema è si
apparato produttivo, strumento di comunicazione, ma anche e soprattutto, processo di produzione a
catena, luogo della «parola d'autore»; è tecnica, professionalità, espressività individuale, ma anche
documentazione diretta o ripensamento storico; battaglia politica, ma anche luogo dello spettacolo. Il problema della relazione donna e cinema viene posto, in Germania, con una certa ostinazione; il
dibattito sulla tecnica e sulla professionalità, ad esempio, viene visto come appartenente all'ordine del
discorso maschilista e patriarcale. La lotta delle donne si è rivolta ad avere più posti dentro alle scuole di cinema, per arricchire la loro
professionalità in tutte le fasi del processo di produzione. O, meglio ancora, a rivendicare una
marginalità operativa in cui operare autonomamente. Da qui, il tentativo di integrare con il sistema
produttivo e distributivo, sia attraverso organismi propri (la Cooperativa di cineaste, la Chaos Film,
gli incontri periodici, i seminari di lavoro e di organizzazione e tutte le altre iniziative che hanno
portato, nel 1979, alla costituzione dell'Associazione delle donne che lavorano nel cinema), sia
sfruttando il complesso sistema di sovvenzionamenti statali. Ciò che affiora, analizzando il cinema tedesco delle donne degli anni '70, è il costante tentativo di
coniugare pratica femminista e pratica cinematografica; di ritrovare e salvaguardare la specificità di
un punto di vista diverso senza rinunciare alle acquisizioni della tecnica; di «compromettersi» con il
sistema, senza rinunciare alla propria soggettività ed autonomia di ricerca. Da tutto questo parte una sfida al sapere, proprio sul terreno dal quale questo sapere sembra aver
tradizionalmente escluso quel punto di vista diverso, di cui sopra: la politica e la storia. Infatti questo
cinema non affronta semplicemente i temi che più sono legati alla quotidianità delle donne: alienazione
del lavoro e «casalinghità» (Anna e Edith di Christine Perincioli; Una donna responsabile di Ula
Stocke), il problema dell'identità (Una ragazza del tutto degenerata di Jutta Bruckner; Redpures di
Helke Sanders), la violenza (Il potere degli uomini è la pazienza delle donne di Christine Perincioli),
i rapporti tra le donne (Erikas Leidenschaften di Ula Stocke; Schwestern di Margarethe Von Trotta). Anche il '68, il terrorismo, il nazismo (luoghi diversi della storia) sono stati letti dalle donne: Sotto il
selciato di Helma Sanders; Anni di piombo e Il secondo risveglio di Crista Klagen di Margarethe Von
Trotta; Germania pallida madre di Helma Sanders e Anni di fame di Jutta Bruckner. Con questa lettura
ciò è diventato oggetto di analisi, memoria collettiva dentro cui e attraverso cui ritrovare i percorsi del
proprio processo di identità. Caratteristica del cinema delle donne tedesche è che è riuscito a sfuggire alle tentazioni intimistiche,
alle scritture private, segrete e diaristiche che, solitamente, contraddistinguono la donna produttrice di
linguaggi. L'assoluto padroneggiamento del linguaggio cinematografico (graffiato e scombinato dal
soggetto femminile) colloca questo cinema su un margine sottile, nel rifiuto dello sperimentalismo e
del cinema d'avanguardia. Lo status del cinema tedesco delle donne è, dunque, ambiguo, volutamente: dentro l'apparato, ma senza
arrendersi ad esso; verso il privato, ma senza escludere il sociale, l'esterno; attraverso il cinema senza
perdere la propria identità. Forse è una posizione rischiosa; ma, come afferma il manifesto della succitata Associazione delle
donne che lavorano nel cinema, per le donne, nel cinema, ma non soltanto nel cinema, «nulla cade dal
cielo».
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