Rivista Anarchica Online
Rivolta individuale come necessità
di Pino Bertelli
«Lucida follia» (Heller Wahn, 1983) di Margharete von Trotta è un film che tratta l'amicizia profonda
fra due donne. Una storia dell'ambiguità sospesa tra l'omosessualità e il giudizio estremo, negativo,
della figura maschile. La von Trotta è qui acuta, colta, conoscitrice profonda dei rapporti di coppia e dell'ambiente
intellettuale che descrive. Le cadute filmiche sono quelle di sapore letterario/teatrale e l'impalcatura
d'insieme risente non poco dei dialoghi compressi in un certo intimismo poetico piuttosto ricercato.
Gli uomini che circolano in «Lucida follia» sono tutti dei pagliacci infagottati nel proprio estetismo
di classe (o nel proprio ebetismo servile); intellettuali, artisti o agricoltori fa lo stesso; non sono che
tappezzeria al servizio dei capricci e degli amori/umori delle loro donne. Le figure femminili
interpretano invece la sollevazione, il risentimento, l'indipendenza di un ruolo troppo a lungo
sopportato. E comunque, fuori dalla propria immagine centrica di moglie/madre, incappano in altre
barriere, altre angosce, altre innumerevoli solitudini. Eccezionale ci pare l'individuazione caratteriale delle due donne. Hanna Schygulla esprime sicurezza,
voglia di vivere, di conoscere; la propria esistenza si ritaglia in un pensiero e una gestualità portati alla
trascendenza, alla curiosità, al godimento ludico di qualcosa che è oltre il confine del senso comune.
Angela Winkler congela in sé la timidezza, la disperazione/bambina, la passionalità degli indifesi;
disegna la diversità e indica lo smarrimento e la paura degli offesi di fronte alla certezza della morale
comune. Di minore efficacia si legge l'uso del rovesciamento degli stereotipi. Qui la bionda non è la fatua
mangiatrice di uomini ma rappresenta la cerniera del rapporto, mentre la scura (la bruna) subisce
l'influenza e, in sostanza, è l'oggetto d'amore che si denuda nella fragilità scatenante della malattia, cioè
della dipendenza. I vestiti della Schygulla sono sempre chiari, moderni, «casual», quelli della Winkler neri, passati di
moda, brutti. Soltanto quando l'apogeo della loro amicizia giunge alla trasparenza, in una festa di
capodanno, la Winkler indosserà un abito rosso e con un venato erotismo conquisterà anche il
linguaggio del quotidiano. Gli arredamenti delle loro case confermano due diversi percorsi esistenziali. L'abitazione della
Schygulla è aperta alla luce, immersa nei libri, nel bianco, nell'essenzialità ricercata, parla allo stesso
tempo una comodità e un vissuto borghese; la casa della Winkler è tratteggiata in un'atmosfera buia,
asettica, impersonale, troneggia il salotto dove c'è il televisore e nell'insieme si odora la mancanza di
vita. La citazione del rapporto d'amore tra due donne del «romanticismo tedesco», Karoline von Gunderode
(che morì suicida) e Bettina von Arnim è un rimando letterario (o una analogia) che nulla aggiunge alla
chiara, lucida follia liberatoria che abbraccia Ruth (A. Winkler) e Olga (A. Schygulla). Quando Ruth
uccide il marito si libera della sua ombra e della dipendenza da Olga. Trova il coraggio di affrontare la realtà. Rotti gli ostacoli che opprimevano la sua identità inizia il viaggio
dentro di sé e fuori della vita, da un reale insopportabile. Ora Ruth è davvero libera perché ha
imparato a conoscere la armi della liberazione con le quali affrontare la propria solitudine. E'
piuttosto fuori strada Lietta Tornabuoni quando vede la storia di Ruth e Olga come «una riflessione
sul legame tra salvatore e salvato, sulla superbia narcisista dell'altruismo e sulla voracità
vampiresca della nevrosi, sulla specularità del razionale e dell'irrazionale, sull'inversione della
pulsione autodistruttiva in pulsuione distruttiva» (1). Più semplicemente ciò che accade a Ruth e a Olga è un affetto «nuovo», diverso, che si catapulta
nel loro differente dolore per la vita, nei loro uomini, figli, famiglie, abitudini, lavoro, ecc.,
un'energia senza ventagli che le sospinge verso territori dove è ancora possibile amarsi, sentirsi
vivi. La «follia lucida» che attraversa il film della von Trotta è forse un chiamarsi fuori da tutto ciò che è
ormai codificato, amministrato, vinto. Muoversi incontro alle cose, schiudersi al godimento
dell'immediato e sfigurare l'immagine del mondo definito, sclerotizzato, burocratizzato anche nella
trasgressione. Abbastanza superflue sono le fughe nell'esotico (i viaggi in Italia, Francia, Turchia) e fortemente
banale la parte del marito di Olga, il regista teatrale di successo, insicuro e fragile, legato alla ex-moglie in modo infantile. Torna da Olga per sviscerare i capricci del proprio lavoro, per succhiare
con i suoi consigli anche un po' di ambigua amicizia. In fondo «Lucida follia» è il ritratto di una generazione borghese sconfitta. Tutto il film scivola,
allude, descrive la fine della politica nelle teste della cultura. I temi dell'ecologia, del disarmo
universale, dei «compagni di strada» che hanno sbagliato e che continuano a sbagliare meglio si
addicono ai «nuovi mandarini» del sapere prezzolato; quello che ci resta negli occhi sono i loro
vestiti, le loro case, le loro auto, i loro amici e la disinvoltura con la quale passano da un dibattito
televisivo sulla fame nel mondo a un bicchiere di Martini ghiacciato in bella compagnia di
burocrati al servizio dell'ideologia dominante. Certo, anche gli ospizi tedeschi sono tragici come tutti gli ospizi del mondo. E non basta cantare
una struggente canzone americana per cancellare la noia di una festa tra amici che non hanno più
nulla da dirsi. La von Trotta schizza qua e là elementi di un vissuto, di una memoria ferita a morte.
Gli anni della speranza sono passati e i grandi temi del «rovesciamento di prospettiva» sono andati,
i «cattivi ragazzi di strada» sono passati dalle barricate alle tavole rotonde in televisione a parlare di
«nuovi soggetti sociali» e del post/modemo. Malgrado l'uso di alcuni dialoghi/cliché, l'abuso di certi simbolismi in bianco e nero, la fotografia
davvero brutta di Michael Balhaus, la portanza metastorica di «Lucida follia» resta intatta. La
bellezza del film della von Trotta è più nel tentativo di dire lo straordinario individuale della donna
che affermare i germi sociologici del riflusso politico del post/femminismo. Ci affianchiamo alla von Trotta quando scrive: «il mio film vuole anche essere ... un qualcosa che
serva alla costruzione di un'utopia dalla quale le donne sono escluse, e alla quale hanno diritto.
Anche perché, se si vuole costruire una nuova realtà non si può non cominciare dall'utopia» (2). La lucida follia è dunque un «incominciamento» di rottura delle apparenze, conquista della propria
soggettività sull'orlo del reale. L'eresia di «Lucida follia» è avere rappresentato la rivolta
individuale come necessità di uscita da una storia senza uscita. Ma è nella forza della trascendenza che precipita la storia.
(1) Lietta Tornabuoni: in «Lucida Follia» di Margarethe von Trotta, pag. 11, Ubulibri 1983. (2) Margarethe von Trotta: «La Repubblica» del 6/4/1984.
|