Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 14 nr. 121
estate 1984


Rivista Anarchica Online

Il manganello e l'aspersorio
di Laura Maragnani

Processo a mamma Ebe e ai suoi dodici apostoli. Accuse che vanno dalla truffa al sequestro di persona, dall'abbandono di malati alla violenza privata all'associazione a delinquere. Tutto è chiaro e limpido: da un lato una santona dal passato equivoco, guaritrice con tanto di stimmate, fondatrice di uno pseudo-ordine religioso governato a forza di frustate e psicofarmaci. Una che predica la povertà, e possiede due yacht e ville e appartamenti, e trentadue pellicce, e gioielli per sette-ottocento milioni, e conti in banca, e automobili: valore quasi due miliardi. Una che ai suoi adepti impone la castità, e ha avuto due mariti, e chissà quanti amanti scelti tra la schiera dei suoi «seminaristi». E beve champagne «per digerire», e porta i tacchi a spillo «ché fanno bene alla schiena», e racconta di aver visto Gesù e la Madonna e sfoggia toilettes da fatalona da balera di provincia, convinta che a lei «succede come a Gesù Cristo, messo in croce dai farisei». La cattiva, insomma, è lei: Gigliola Ebe Giorgini, 51 anni, detta mamma Ebe. I buoni, eh, i buoni non si scappa, una volta tanto sono loro: carabinieri e giudici che hanno stroncato il più colossale traffico di vocazioni degli ultimi vent'anni, e hanno messo a nudo il meccanismo ben poco divino con cui la santona di San Baronto sfruttava a proprio esclusivo vantaggio gli slanci mistici di una sessantina di ragazzi.
Insomma: capita così di rado di aver tutto ben chiaro in testa. Cosa potevo volere di più, il giorno che sono arrivata a Vercelli? Nessun dubbio: «le sta bene a 'sta stronza» pensavo.
E invece, tre settimane dopo, eccomi qui: il processo è finito, a mamma Ebe han dato 10 anni e 2 mesi di carcere, più tre di libertà vigilata; e i suoi accoliti li hanno condannati quasi tutti, quarantaquattro anni di pene complessive. Eppure non va, non ho più le idee chiare, e il processo «esemplare» di Vercelli è riuscito solo a scatenarmi una serie di dubbi e di domande senza risposta. E quasi quasi (mi accorgo) ecco che io mamma Ebe comincio quasi a difenderla, e a difendere quelli che con lei hanno speculato su vocazioni e malattie, e a difendere quei cinquantacinque sciagurati che nonostante tutto hanno deciso di continuare l'opera della «mamma» e passano le loro giornate a sfornare giaculatorie e Miserere. Strano, eh? Ma è tutto quello che posso dirvi, i miei dubbi. Quelli almeno sono sinceri. Dunque è andata così.
Il processo. E' tanto esemplare quanto «costruito». Arrivo lì, colpevolista delle più feroci, e subito m'accorgo che qualcosa non va: troppo caricato, e finto come uno sceneggiato della Rai.
I testimoni d'accusa parlano, e parlano, e parlano. Piangono, strillano, fanno sceneggiate da rivoltar lo stomaco: padri che si son visti sparire i figli nel «bordello di San Baronto», madri che implorano «presidente me lo rimandi a casa, lo faccia rinsavire, mi aiuti lei». Padri alcoolizzati e padri che hanno sempre picchiato i figli, madri che pensano soprattutto ai soldi e agli stipendi dei loro «bambini» che mamma Ebe gli ha fregato. Bello spettacolo davvero, un'antologia delle situazioni disperate da cui i ragazzi di tutt'Italia hanno ottimi motivi per scappare a gambe levate. Il presidente, il pubblico ministero non si scompongono: fanno parlare, suscitano la lacrima, giocano sul facile pietismo del pubblico.
E i testimoni della difesa? Non gli lasciano aprire bocca. Umiliati dai giudici, presi in giro dagli avvocati di parte civile. E appena tentano di dire qualcosa che vada oltre il semplice «confermo la deposizione resa in istruttoria» eccoli zittiti, e cacciati fuori dall'aula.
Insomma: nessuno spazio per chi sostiene che la Pia Unione Gesù Misericordioso fondata da mamma Ebe era tutt'altro che un'associazione a delinquere; e tappeto rosso, invece, per le sceneggiate dei genitori e le testimonianze di pentiti e dissociati, cioè quelle suore che fino all'anno scorso erano superiore della congregazione (e quindi, logicamente, corresponsabili dei maltrattamenti che secondo il tribunale mamma Ebe ha inflitto a «preti» e «suore») e che oggi, invece di stare sul banco degli imputati, sono parte lesa e chiedono risarcimenti per trecento milioni.
Non va, non va, viene da dire.
Aggiungete a questo quadro una selva di giornalisti scatenati, alla ricerca del folklore e del piccante, della tortura e del sesso. Giornalisti che fin dal primo giorno si sono schierati tra i colpevolisti ad oltranza, e che nuotano nei documenti passati loro a piene mani dal pubblico ministero, sempre presentato (è una coincidenza?) come il John Wayne del vercellese, il buono, l'eroe, lo Sherlock Holmes della situazione.
Mai una parola compare sui quotidiani (e io li ho letti tutti, sapete!) sulle scene disgustose cui si assiste in questa farsa che chiamano processo. E quel giorno che durante l'udienza si sentono grida laceranti, e una «suora» viene trascinata via a forza dal tribunale, e caricata in macchina di peso dai suoi fratelli, e riportata a Napoli in famiglia, contro la sua volontà: e i carabinieri hanno assistito al rapimento senza far niente, complici addirittura: be', quanti inviati hanno poi urlato al sequestro di persona? Quanti hanno accusato il tribunale di non saper tutelare i testimoni chiamati a deporre?
Mamma Ebe. Via, l'ho intervistata. Era doveroso, direi. E tra le tante cose deliranti che m'ha detto ha affermato, e a ragione, che quando il processo s'è aperto «i giudici avevan già la condanna in tasca». E che a lei sembrava «di essere nel Medioevo, durante una vera e propria caccia alle streghe».
Han cominciato a venirmi i primi dubbi: sul processo, ve l'ho detto l'impressione che ho avuto: una messinscena da purghe staliniane. Su mamma Ebe: insomma, tutt'altro che il diavolo, com'è stata dipinta. Un'ignorante, si, con la quinta elementare in tasca, e che si vanta di essersi laureata a Berlino in medicina geriatria psicologia pranoterapia e chissà cos'altro. Va be', è questa la colpa? Faceva voto di castità eppure suo marito è venuto a dichiarare: «con lei rapporti sessuali ne avevo eccome»: ma da quando un tribunale dello stato inquisisce una persona per aver infranto un voto di castità? Siamo pazzi? E ancora: aveva fondato un ordine parareligioso, non riconosciuto dalla Chiesa e quindi era una truffatrice: e la libertà di culto e di associazione garantita dalla costituzione, dove la mettiamo? Si dice (ma non l'hanno provato: o almeno, io non ne sono convinta) che rimbecillisse i suoi adepti a furia di psicofarmaci e punizioni umilianti, tutto per spogliarli dei loro beni: ma dico, la Chiesa ufficiale cos'altro fa? Forse che tra i francescani o i benedettini o le carmelitane le punizioni o le penitenze mancano? Forse che non si sta giorni interi a pane e acqua, o si digiuna, o si mangia in ginocchio, o non si dorme? Visto che la gente dell'ordine di mamma Ebe ci entrava di propria volontà, come in qualsiasi altro ordine; visto che tali punizioni (ammesso che ci fossero, eh) erano accettate in partenza, allora dove sta lo scandalo? Nel fatto che se certe porcherie le fa la Chiesa va tutto bene, ma se le fa un privato, allora...
Cominciate a capire?
La Chiesa. Dio mio, che brutta figura ci ha mai fatto! Che schifo, quell'esibizione balbettante del vicario di Vercelli, venuto a dire che «si, sapevamo che la congregazione di mamma Ebe non era riconosciuta dalla Chiesa»: però «noi la tolleravamo». La tolleravano, certo che la tolleravano!
Con la crisi delle vocazioni che c'è, forse che non gli andavano bene queste suorine da duecentomila lire al mese di stipendio, che lavoravano venti ore al giorno, e mai una lamentela, mai una rivendicazione? Certo, il cardinal Poletti si scagliava contro mamma Ebe e i suoi adepti.
Eppure chissà perché i vescovi di Gorizia, di Udine, di Reggio Emilia, di Vercelli, di mezza Toscana, facevano finta di niente e chiamavano mamma Ebe e le sue suore a lavorare nei loro istituti, asili e case di riposo. Chissà perché non dicono come sono andate veramente le cose.
Io le ho sapute dai ragazzi di mamma Ebe, gli «psicofarmacizzati» (che se erano davvero tanto imbottiti di psicofarmaci, guarda caso, come facevano a lavorare venti ore al giorno per la gloria della Curia locale? E perché non gli hanno fatto una perizia psichiatrica per dimostrare la loro totale incapacità di intendere, di volere, di fare?). Loro raccontano: «Ogni volta che ci chiamavano in qualche asilo o in qualche casa di riposo, per mesi e mesi lavoravamo come pazzi. Erano quasi tutte strutture fatiscenti, che stavano in piedi a malapena. Dovevamo rafforzare i muri, imbiancare, rifare l'impianto elettrico e l'impianto idraulico, mettere persino la pompa dell'acqua ... C'era da ammazzarsi dalla fatica. Partivamo da san Baronto coi camion pieni di materiale, di mattoni, di mobili...». Forse che qualcuno dei beneficiari è venuto a dirlo, al processo? Forse che son venuti i parroci (un paio di nomi a caso) di Palaia o di Torre di Fucecchio a testimoniare, a dire che siccome gli asili erano in perdita, non riuscivano neanche a pagare gli stipendi alle suore; però queste non se ne andavano, e anzi era mamma Ebe con le sue «ricchezze» a coprire i deficit di gestione, e a regalare a piene mani i soldi per comprare la pasta o il latte per i bambini? Perché la Curia di Vercelli non viene a dire che nell'ospizio di Borgo d'Ale (rimesso a nuovo dai ragazzi di mamma Ebe) metà dei ricoverati erano malati di mente bisognosi di assistenza continua; e che le suore non bastavano, e continuavano a chiedere rinforzi; e che la Curia non ne voleva sapere per non spendere altre duecentomila lire al mese di stipendi, costringendo le suore a turni massacranti di venti ore al giorno? Facile dire adesso «noi mamma Ebe la tolleravamo».
E quando proprio non era più possibile tollerarla, perché i richiami da Roma erano troppo violenti? Ecco la mamma e i suoi ragazzi buttati fuori da un giorno all'altro, senza un perché, senza una spiegazione. Facile, troppo facile. Ma è successo così a Reggio Emilia (due asili, un nido, e un ospizio), a Borgo d'Ale (una casa di riposo), in sei asili toscani, in uno lombardo. Bello, eh?
Suore e seminaristi. Be', ormai rosa dal dubbio sono andata anche da loro. Un pomeriggio intero sono stata a Torino, nell'appartamento di corso Sebastopoli dove dormivano, durante il processo, gli imputati a piede libero. Un'intera giornata son stata a san Baronto, a Villa Gigliola, la sede storica della Pia Unione di mamma Ebe: una fuga di stanze imbiancate a calce e pavimenti di linoleum, quadri di santi e Madonne alle pareti, mobili scompagnati arrivati da chissà dove. Niente lusso, per carità. Ma tutto lustro e in ordine, e un'atmosfera da comune più che da convento. Vi fa impressione se dico che non ho trovato né perversioni mistiche né punizioni da Medioevo? Se alla fine della mia visita non ho potuto che essere solidale con loro, i «diversi» della situazione, quelli da perseguitare e da mettere al rogo perché irreducibili al sistema, alle gerarchie ecclesiastiche? (e nota bene: non è la Chiesa ora a punirli, ma lo Stato, che s'è assunto in toto il ruolo di paladino della Chiesa e difensore dei privilegi del Vaticano, a cui mamma Ebe sottraeva vocazioni e offerte).
Al di là del folklore, della macchietta, delle facili ironie sul personaggio di una improbabile Mamma Ebe stimmatizzata e visionaria, eccola la realtà di san Baronto. Una realtà che al processo non s'è vista, perché non l'hanno lasciata raccontare. Come non hanno lasciato raccontare ad Alessandra e Antonella Gallozzi di essere state picchiate dai carabinieri, spogliate a forza dal saio, rimandate a forza a casa dei genitori: «Zitte zitte, andate via o vi faccio arrestare» ha chiuso loro la bocca il presidente del tribunale.
E allora: vi sembro pazza come prima a «difendere» mamma Ebe?