Rivista Anarchica Online
L'armonia perduta
di Murray Bookchin
Murray Bookchin (New York, 1921), figlio di immigrati russi attivi nell'IWW, ha militato da
giovane in varie organizzazioni marxiste. Negli anni '60 è stato una delle voci più ascoltate della
controcultura americana ed uno dei pionieri del movimento ecologista, avvicinandosi
all'anarchismo. Attualmente è director emeritus dell'Istituto di Ecologia Sociale dell'Università del
Vermont. A nostro avviso, è uno dei pensatori anarchici contemporanei più stimolanti ed
interessanti. Il suo primo libro anarchico fu, nel '71, Post-scarcity anarchism (pubblicato in Italia
dieci anni dopo dalle Edizioni La Salamandra con il titolo originale inglese affiancato dal
sottotitolo esplicativo «l'anarchismo nella società del benessere»). Traducendone stralci sul n. 31
della rivista (datato agosto/settembre 1974), fummo i primi a presentare al pubblico italiano le sue
originali riflessioni sui possibili rapporti positivi tra sviluppo tecnologico e trasformazione sociale
libertaria. In questi dieci anni numerosi sono stati gli scritti di Bookchin da noi pubblicati su «A»
(altri sono apparsi su «Interrogations» e su «Volontà»). Ricordiamo, in particolare, la lunga
intervista fattagli tre anni fa («A» 93, giugno/luglio '81) in occasione del suo ultimo soggiorno
italiano. La sua relazione per il convegno di studi veneziano, che pubblichiamo in queste pagine,
riprende (forzatamente condensandole) alcune delle idee-forza del suo ultimo libro (The ecology of
freedom, Ceshire Books, Palo Alto, USA 1982), del quale esce proprio in queste settimane la prima
edizione in Europa per i tipi delle Edizioni Antistato.
L'ecologia sociale radicale cerca di squarciare l'ìopaca cortina dualistrica e metafisica che
separa l'umanità dalla natura: cerca di «radicalizzare» la natura, o meglio la nostra
concezione basilare del mondo naturale. Mette apertamente in dubbio la tradizione
naturalistica occidentale, della quale siamo i perturbati eredi. Per oltre due millenni, la società occidentale ha proposto quasi costantemente un'immagine
estremamente reazionaria della natura. Secondo quest'immagine, la natura sarebbe «cieca», «muta»,
«crudele» e «avara»; oppure - per usare l'infelice espressione di Marx - sarebbe il «regno della
necessità», che pone incessantemente ostacoli alla ricerca di autorealizzazione e di libertà da parte
dell'uomo. L'uomo si trova a lottare contro una natura «altra» e ostile, contro una forza oppressiva e
vincolante, alla quale deve opporsi con la forza del lavoro e con l'astuzia. La storia si tramuta in un
dramma prometeico, nel quale l'uomo sconfigge eroicamente un mondo naturale brutalmente ostile,
affermando caparbiamente se stesso. Da questa tradizione di aspro conflitto tra l'uomo e la natura è scaturita la definizione dell'economia
come studio delle «scarse risorse» a fronte di «necessità illimitate»; della psicologia come
disciplina finalizzata al controllo dell'indisciplinata «natura interiore» dell'uomo attraverso la
razionalità e gli obblighi della «civiltà»; infine, della teoria sociale come spiegazione dell'ascesa
dell'uomo dalla «animalità bruta» alla luce sfolgorante della cultura e della ragione. Per quasi due
secoli, tutte le teorie di classe sul progresso sociale sono state fondate sull'idea che il «dominio
dell'uomo da parte dell'uomo» fosse imposto dalla necessità della «dominazione della natura» come
presupposto per l'emancipazione dell'umanità nel suo complesso. Questa concezione della storia,
già evidente negli scritti politici di Aristotele, divenne «scienza socialista» nelle mani di Marx e
costituisce ancora oggi una pericolosa giustificazione della gerarchia e della dominazione in nome
dei principi di uguaglianza e di liberazione. In ultima analisi, nelle «sacre scritture» del sociaIismo,
il vero nemico non è il capitalismo, bensì la natura - «il fango della storia», secondo la succosa
definizione di Sartre - che si attacca all'umanità come una melma proveniente dalle sordide paludi
della «necessità naturale» non sorretta dalla ragione.
Dal mondo della natura l'etica della libertà L'ecologia sociale radicale propone una concezione della natura e dell'evoluzione naturale
fondamentalmente diversa. Il mondo naturale non è «muto», «crudele» «avaro»; al contrario, lo si
considera - più apertamente - creativo, mutualistico, fecondo, sul quale è possibile fondare un'etica
della libertà. Sotto questa prospettiva, i rapporti biologici non sono caratterizzati dalla «rivalità» e
dalla «competitività» descritte dall'ortodossia darwiniana, ma piuttosto da quei caratteri mutualistici
che sono stati evidenziati da un numero sempre maggiore di ecologi contemporanei - una
immagine, questa, che fu anticipata già da Piotr Kropotkin, il quale ottiene raramente i
riconoscimenti che meriterebbe negli scritti che trattano di questa questione. L'ecologia sociale
radicale contesta addirittura il concetto basilare dell'«adattamento»,che ha un ruolo cruciale nel
dramma daewiniano della sopravvivenza evoluzionistìca. Come ha sottolineato William Trager nel
suo penetrante saggio sulla simbiosi: «Il conflitto in natura tra i diversi tipi di organismi è stato
definito comunemenete come «lotta per l'esistenza» e «sopravvivenza del più idoneo». Eppure
pochi si rendono conto che la cooperazione reciproca - la simbiosi - tra organismi differenti è
altrettanto importante, e che «il più idoneo» può essere l'organismo che aiuta l'altro a
sopravvivere» (1). Questa osservazione pregnante ed estremamente illuminante potrebbe avere una
portata anche maggiore di quella che lo stesso Trager sospetta. E' ovvia l'importanza che essa riveste ai fini della stessa definizione di ecosistema: le relazioni
reciproche tra specie diverse - tra piante e animali, tra simbionti palesemente complementari e
perfino tra prede e predatori - formano la geometria stessa della comunità ecologìca. Come
dimostrano gli studi sulle catene alimentari, la complessità di queste relazioni, la lor o diversità, la
loro natura intricata, sono elementi essenziali alla stabilità dell'ecosistema. Contrariamente a quanto
avviene nelle zone temperate, bioticamente complesse, gli ecosistemi relativamente semplici delle
fasce desertiche e artiche sono estremamente fragili, e bastano la scomparsa e il depauperamento di
poche specie per distruggerli. Nelle grandi ere dello sviluppo organico, la tendenza dell'evoluzione biotica è stata caratterizzata
da una diversificazione crescente delle specie e dalla instaurazione di relazioni estremamente
complesse e fondamentalmente mutualistiche, senza le quali la diffusione della vita su tutto il
pianeta forse non sarebbe stata possibile. L'unità nella diversità è determinante ai fini della stabilità
di una comunità ecologica, ma è anche motivo della sua fecondità e del suo potenziale evolutivo
ovvero della sua capacità di creare forme di vita e interrelazioni biotiche sempre più complesse
anche nelle zone più inospitali del pianeta. Il concetto di comunità (della comunità ecologica o
ecosistema) è alla base del concetto autentico di evoluzione organica in quanto tale. Tuttavia, se lo si considera sotto una certa luce, il concetto di comunità (intesa come ecosistema
mutualistico) muta radicalmente il concetto di evoluzione organica e fa apparire del tutto
insoddisfacenti le teorie convenzionali sull'evoluzione. Dall'epoca di Darwin ai giorni nostri, le
teorie evoluzionistiche sono state viziate dall'approccio atomistico che ha caratterizzato il pensiero
anglo-americano fin dagli albori dell'empirismo di John Locke. La teoria dell'esperienza di Locke,
che rimase saldamente radicata nel mondo anglofono per tre secoli dopo la morte del filosofo,
struttura la sensazione intorno a «idee semplici», alle informazioni elementari del colore, della
densità, dell'odore, degli stimoli uditivi e di tutti gli altri stimoli che i nostri sensi percepiscono e
iscrivono sul «foglio bianco» o sulla tabula rasa della nostra mente. E' ben vero che la mente
mescola e trasforma questi atomi sensorii in idee complesse, che consentono l'astrazione, il
confronto, la contemplazione. Tuttavia, la realtà consiste di fatti basilari, di componenti irriducibili
e distinte, che il termine «dati» (in tutta la sua «rozza» fattualità) definisce come i fondamenti
epistemologici e i cosituenti basilari dell'esperienza. Questa atomizzazione della realtà (per molti versi un prodotto della sfrenatezza dell'ego, la cui
sovranità e indipendenza commerciale costituisce il fulcro della teoria politica anglo-americana)
permea anche la nostra concezione dell'evoluzione organica. Il fatto basilare della teoria
evoluzionistica è la specie, con tutta la specificità e l'isolamento che questo termine sottintende.
L'evoluzione studia le «origini», le mutazioni, le fortune e il destino di questa entità isolata,
teoretica e monadistica. Ad esempio, conosciamo tutti l'evoluzione dello Eohippus, il piccolo
mammifero artiodattilo dell'Eocene, nel cavallo moderno del tardo Pleistocene, o più precisamente
nell'Equus przewalskii, che attualmente vive soltanto in Asia. Tutti i testi sull'evoluzione, anche i
più elementari, illustrano questo esempio di sviluppo intraspecifico.
L'evoluzione come storia dell'ecosistema Ma una trattazione così lineare e concatenata, incentrata monadisticamente sulla «origine della
specie» e sulla loro evoluzione, illustra davero esaurientemente la realtà dell'evoluzione organica?
Questa trasmutazione delle «idee semplici» di Locke in singole catene di «specie semplici», unite
meccanicamente nel pugno del biologo, può forse darci la spiegazione più feconda dell'evoluzione,
cioè un'immagine non semplicemente meccanicistica, ma realmente organica dell'evoluzione, con
tutto il suo patrimonio di mutazioni, successioni ed elaborazioni contestuali? Io credo di no, perché
nell'evoluzione organica ciò che si «evolve» è qualcosa di più che una serie di catene
intraspecifiche, il cui sviluppo autonomo e solitario avvenga attraverso l'interaziorie selettiva di
«forze» abiotiche e «contrapposte» che derivano da una maggiore o minore «adattabilità». Ciò che manca alla «origine della specie» è una concezione contestuale dell'evoluzione animale e
vegetale che vada oltre l'idea ingenua di una «origine» intesa come subitanea comparsa di una
specie sulla faccia della Terra. In senso più profondo, l'evoluzione è la storia dello sviluppo
dell'ecositema, e non soltanto di una o più specie considerate come elementi singoli e isolati. Se si
ignorano la complessità della vita animale e vegetale e l'ecosistema che li riguardano, l'Eohippus e
il suo discendente moderno, il cavallo perissodattilo, diventano soltanto i protagonisti di una sorta
di romanzo evoluzionistico. La specie equina si è evoluta insieme ad una comunità ecologica,
ovvero in funzione dei rapporti ecologici che le davano significato e la definivano nell'ambito del
processo evolutivo come tale. In ogni fase della sua evoluzione, l'Eohippus è stato più che una
specie; è stato caratterizzato in modo assai complesso dall'appartenenza ad una comunità biotica
che si stava svilupparido complessivamente, globalmente. Se non fosse mutato insieme alla sua
comunità e non ne avesse condiviso il destino evolutivo, l'Eohippus si sarebbe estinto, come è
accaduto a tante altre specie che si sono perdute lungo il cammino. Il concetto di co-evoluzione, cioè dell'evoluzione congiunta e interattiva di specie simbioticamente
correlate (compresa quella umana), rappresenta un notevole passo avanti verso il riconoscimento
della inclusione intraspecifica in una comunità comune in evoluzione. Ma ci si potrebbe spingere
ancora oltre in questa direzione fruttuosa e stimolante. Non solo le specie si evolvono
congiuntamente e simbioticamente le une insieme alle altre: lo stesso ecosistema, inteso nella sua
globalità, si evolve in mutuo sincronismo con le specie che lo costituiscono, e assolve la funzione
dell'intero in rapporto alle sue parti. Per essere più precisi, non è soltanto l'evoluzione congiunta
della specie a darci l'immagine autentica della mutazione evolutiva; una visione contestuale del
problema non deve trascurare neppure la struttura, la trama e la complessità dei rapporti tra le
specie. Se vogliamo comprendere veramente il processo di sviluppo delle specie, dobbiamo evidenziare la
«geometria» degli ecosistemi che si evolvono verso forme sempre più complesse. Il processo
evolutivo, in effetti, è un processo strutturale e non riguarda soltanto l'evoluzione delle specie e di
tutto ciò che si evolve con loro. Se il concetto tradizionale dell'evoluzione biotica considera la
«origine della specie» come la comparsa e lo sviluppo di forme di vita, ad esempio dai mammiferi
artiodattili ai loro discendenti perissodattili, il concetto di co-evoluzione (per coniare un termine del
quale si sentiva ormai da lungo tempo la necessità) amplia notevolmente l'immagine convenzionale
e le conferisce un significato provocante.
La libertà funzione della diversità Il significato deriva dalla tendenza evolutiva degli ecosistemi verso una diversità e una complessità
sempre maggiori - ma non soltanto in funzione della stabilità. In senso quasi metafisico, questa
maggiore diversità e questa maggiore complessità trovano un'analogia sociale nella nostra idea
moderna di libertà. Nella sua forma primordiale, la libertà è già presente nella capacità di
autodirigersi che possiede la vita in quanto tale, e più specificatamente nello sforzo attivo cho ogni
organismo compie per essere se stesso e per resistere alle forze esterne che minacciano di
compromettere la sua identità. In questo processo autoguidato di motilità e di sensibilità hanno
luogo le forme germinali della percezione sensoriale, l'evoluzione del sistema nervoso e di una
soggettività rudimentale, infine lo sviluppo delle qualità intellettive che rendono possibile il
pensiero, la consapevolezza, la volontà auto-riflessiva. Il genere umano non rappresenta l'apice e il termine della evoluzione della volontà. Questo concetto
antropomorfico nega l'autonomia misteriosa della cellula,che negli organismi pluricellulari esplode
in forme cancerose; nega la «sapienza del corpo» (per usare l'espressione di Walter Cannon),
rivelatrice del nostro «benessere» e «malessere»; infine nega il tacito linguaggio del sentimento,
che ci rammenta l'appartenenza all'intera comunità vitale. Che sia di natura psichico~chimica,
neurologica o cerebrale, negli esseri viventi organici esiste sempre una scelta, non foss'altro che il
risultato di un'attività metabolica di autoconservazione (che è un elemento fondamentale della vita).
In questo senso, ogni organismo è «dotato di volontà», così come è «selettivo» nella soddisfazione
dei suoi bisogni e «dotato di determinazione» nel mantenimento del proprio stato di benessere. In
maniera più o meno accentuata, ogni essere organico trasforma le capacità essenziali di
autoconservazione che lo qualificano come essere vivente, in capacità di scegliere tra le alternative
più favorevoli alla sua sopravvivenza - e non semplicemente di reagire agli stimoli come un sistema
fisico-chimico. Questa libertà embrionale cresce con l'aumentare della complessità ecologica della vita che si
evolve in sincronia con gli ecosistemi. Lo sviluppo di nuove possibilità che consegue allo sviluppo
della diversità e alla moltiplicazione delle alternative nel processo evolutivo delle specie, apre vie
nuove e più stimolanti allo sviluppo organico. La vita non resta passiva dinanzi a queste possibilità
evolutive; le persegue attivamente in un processo comune di stimolazione reciproca, così come crea
e colonizza attivamente gli spazi che ospitano una molteplice varietà di forme di vita nell'ambiente
complesso ed elaborato della nostra biosfera. Non c'è bisogno di scomodare lo «spirito» hegeliano e il lògos eracliteo per spiegare questa
concezione di una vita attiva, letteralmente tesa a uno scopo. L'attività, il perseguire uno scopo
sono i presupposti su cui si basa la stessa definizione di metabolismo, giacché l'attività metabolica
ha la medesima estensione del concetto di attività in quanto tale e conferisce ad ogni organismo una
identità, una sorta di «io» rudimentale. La diversità e la complessità aggiungono la dimensione di
nuove vie e svariate alternative al fatto semplice della scelta - e, insieme alla scelta, al fatto
rudimentale della libertà. Infatti, la libertà ha un senso soltanto nella misura in cui esiste la
possibilità di effettuare lucidamente delle scelte e non esistono restrizioni al crearle e al perseguirle. Così concepita, la libertà nella sua forma più embrionale è anche una funzione della diversità e
della complessità, di un «regno della necessità» che viene respinto e diminuito da una crescente
molteplicità di alternative alla tirannia della parola «dovere». Al calore crescente delle nuove
opportunità e delle possibilità sempre maggiori che la diversità porta con sé, la costrizione viene
meno. La libertà, infatti, è nulla, se non offre alla vita una pluralità di orizzonti, se non offre allo
sviluppo una pluralità di direzioni. Da un certo punto di vista, ogni specie è direttamente
responsabile della sua evoluzione - o della sua estinzione. A parte la catastrofica inevitabilità dei
fatti accidentali o dell'intervento di agenti esterni (come suggeriscono le teorie delle estinzioni
provocate dalla caduta di asteroidi nel Mesozoico), resta il fatto che una specie può contribuire al
proprio sviluppo o alla propria estinzione a secondo del modo in cui «sceglie» di evolversi; e
intendo «scelta» nel significato più ampio che ho attribuito a questo termine, ovvero l'esistenza di
diverse vie che il contesto ecologico offre alla specie e il grado di partecipazione della specie stessa
alla scelta dell'una piuttosto che dell'altra. L'evoluzione non è «cieca» né «muta» e il suo passato è
sempre parte del suo presente, come attestano l'esistenza e l'importanza fondamentale di forme di
vita primitive quali le alghe verdi-azzurre. A mano a mano che aumentano la diversità e la
complessità, le forme di vita acquistano un grado sempre maggiore di «volontà», nel senso che non
solo ci sono più scelte da fare e si sceglie di più, ma la parola «dovere» come termine di costrizione
diviene meno vincolante e di conseguenza si accentuano l'attività e la «volontarietà» della vita - il
suo nisus, per usare un termine latino filosoficamente rispettabile. Per quanto concerne il nostro discorso, l'«antropocentricità» non consiste nel leggere parole come
«volontà», «scelta» e «libertà» in un mondo naturale apparentemente oltre la portata di questa
terminologia, bensì nel proiettare il significato specificamente umano di questi stessi termini nel
mondo delle forme vitali apparentemente «ottuse» che ci circonda. Stiamo perdendo rapidamente la capacità dilavorare con passaggi graduali del pensiero o con un linguaggio condizionato dalla dialettica della
continuità. La vita quotidiana e il sistema di numerazione binario della cibernetica ci inducono ad
abbreviare i significati, ad attenuare le sfumature e le sottogliezze che caratterizzano il flusso della
realtà. Così parliamo sempre più di «mutamento» invece che di «sviluppo», come se il movimento
e l'energia meccanica fossero validi sostituti dell'evoluzione organica (nostra e del mondo
circostante). Le cattive abitudini ci impediscono di cogliere la realtà e ci sviano da una percezione
acuta, profonda, attenta alle sfumature. Questa barbarizzazione dell'«io» umano, con la sua
negazione extraumana dell'individualità e della soggettività, sminuisce la nostra capacità di distinguere e al tempo stesso unire in un «continuum» coerente le
gradazioni di uno sviluppo. Abbiamo acquisito un'abitudine alla riduzione e alla semplificazione,
una mentalità categorica, segregativa che è il riflesso della frammentazione selvaggia tipica del
mondo moderno. La «volontà», la «scelta» e la «libertà» rudimentali non sono certo quelle umane. Tra le une e le
altre vi è la capacità che ha l'uomo di tradurre in simboli, di verbalizzare, di instaurare rapporti
nell'ambito di quella che chiamiamo «società» per distinguerla dalle forme spontanee di comunità
biotica. Inoltre, l'uomo ha la capacità di lavoro e di attività cerebrale che nella maggior parte delle
specie animali esistono soltanto in forme ridotte. Tuttavia, proprio come ogni embrione umano in
gestazione ci ricorda che la nostra specie non nasce adulta e che dietro ad ogni inizio e ad ogni fine
c'è la storia, così anche l'«io», il prezioso diadema di cui il borghese ama far sfoggio sui
boulevards, ha il «fango» della storia naturale appiccicato alla suola delle scarpe. Ciò non significa
che i concetti sociali siano riducibili a categorie naturali: semplicemente, significa che ssi sono
risultati di una evoluzione e che le loro origini embrionali sono radicate tanto nel mondo naturale,
quanto in quello umano. I «fatti della vita» sono in realtà processi e non sono privi di organicità
più di quanto l'uomo sia privo di cellule.
Che cos'è l'ecofilosofia Anche i valori non sono privi di organicità più di quanto lo siano i «fatti della vita». Tuttavia il
«fango», che fece fremere di orrore Sartre al pensiero dell'origine naturale della società, è materia
di un diadema affatto particolare. Per Sartre, che seguiva la tradizione occidentale di una natura
governata da una legge inesorabile, l'organicità era sinonimo di necessità: la natura «avara», la
«costrizione» del corpo, l'inevitabilità «insensata» della morte, la libertà «schiava» dalla
«necessità». Altrove ho scritto che la realtà è un'altra: una natura feconda sta morendo a cusa delle
costrizioni imposte da una socieyà selvaggiamente antiecologica (2). Il cartesianismo, con il suo
rigido dualismo mentale-corporale, non è un male soltanto francese, ma affligge i francesi più degli
altri. I valori concepiti unicamente come prodotti cerebrali non hanno bisogno di radici oggettive.
Ciò significa che devono essere convalidati da una realtà tangibile, e non semplicemente da un
«consenso» imprevedibile e volubile, che assume la sua forma più nefasta nel «sondaggio
dell'opinione pubblica» - una forma rozza di politica morale, fondata sulla manipolazione dei
media, che è la negazione stessa di un pubblico indipendente e di un corpo politico critico. La
diffusione di pratiche aberranti quali la pena capitale dimostra che l'assassinio gestito dallo Stato,
promosso da una democrazia basata sul consenso guidato, non è realtà sulla quale possa fondarsi
un'etica con un minimo rispetto di sé. Che la natura umana possa far sembrare la natura «cieca», «muta», «crudele» e «avara» è
dimostrato dal destino che il mondo naturale ha avuto sotto la direzione della mente umana. Il
«materialismo dialettico» marxista con la sua cieca concezione della «legalità» organica, la quale,
estrapolata nel contesto sociale, consentì a Stalin e ai suoi simili di commettere crimini atroci
nell'«interesse superiore» della storia; oppure l'etica hitleriana del sangue e della terra, che costò
milioni di vite annientate in guerra e nei campi di concentramento - tutto ciò basterebbe a consigliare prudenza e cautela, indurrebbe a prendere le distanze da un'etica strettamente
naturalistica. E così fu nella prima metà di questo secolo, quando i nostri più brillanti pensatori
evitarono qualsiasi forma di filosofia della natura, così come il relativismo etico del positivismo
(3). Tuttavia la filosofia della natura in senso stretto è caratterizzata spesso dall'arcaismo mitico ad un
estremo, dallo scientismo meccanicistico all'altro estremo, e perciò non deve essere confusa con
l'ecofilosofia. La filosofia della natura tende ad attribuire importanza alla costrizione morale, a una
«unicità» con il mondo naturale, rafforzata da una rigida adesione al concetto di «legge naturale» -
l'implacabile ananche dei Greci, che insieme a dike soppesa e spartisce i destini predeterminati
della vita, sia come telos dialettico, sia come «penalità» etica per le «ingiustizie» dell'Essere. La filosofia della natura tradizionale è stata quasi sempre imperialistica: il suo vangelo totalitario
pone la società e la natura sotto il comune dominio dell'«Uno» o sotto il termine di un «Assoluto»
verso il quale convergono più o meno tutti i fili della storia. L'ecofilosofia non ha un fine chiuso, e tanto meno predeterminato: la sua è una dialettica della
gradualità, che collega le fasi della storia senza mai rarefarle in uno Spirito, in una divinità, in un
logos universale e in tutte le «cause efficienti» che hanno determinato il dualismo filosofico. Il suo
approccio processuale non trascura mai le distinzioni che, all'interno della storia naturale,
immettono gradualmente l'inorganico nell'organico,il biotico nel sociale, il comunitario
nell'individuale - in breve, non trascura la gradualità che dà origine a un continuum riccamente
articolato, piuttosto che ad una continuità grigia e incolore.
Mutualismo naturale ed etica umana Ed è proprio partendo da questa concezione di una natura processuale, con le sue idee unificanti di
creatività, di mutualismo, e con una libertà generata dalla capacità della vita di autodirigersi, che è
possibile formulare le basi su cui fondare un'etica oggettiva. Con ciò non voglio dire che la natura è
«etica» in senso umano, cioè in grado di riflettere consapevolmente su se stessa e in grado di
valutarsi. La natura non è «crudele» né «benigna», non è «virtuosa» né «malvagia», non è «dolce»
né «aspra». D'altra parte, non è neppure «gerarchica» né «egualitaria», non è «dominatrice» né
«democratica», non è «sfruttatrice» né «caritatevole». Queste interpretazioni antropomorfiche
dell'ethos naturale sono, nel migliore dei casi, soltanto romantiche; nel peggiore dei casi pongono
una concezione mitica della natura al servizio delle ideologie politiche totalitarie. Siamo già fin
troppo oberati dal mito secondo il quale la natura ha una «economia» che giustifica tutto, dal
laissez-fair alla pianificazione socialista, con le rispettive iadeologie del darwinismo sociale e del
materialismo dialettico. A rigore, la società sarebbe da intendersi come un fenomeno umano, non naturale. La vita sociale
umana è costituita da una pletora di istituzioni chiaramente definibili che non hanno un parallelo in
natura - monarchie, repubbliche, democrazie, organi legislativi, tribunali, forze poliziesche e
militari, e così via, che differiscono dalle comunità naturali non soltanto per la loro apparente
complessità, ma anche per la loro accentuata intenzionalità. Queste istituzioni sono il prodotto della
volontà e della intenzionalità umane, e sono anche il prodotto di obiettivi ben precisi, i cui risultati
si aggiungono a forme quasi biologiche, come la famiglia umana e i ruoli legati al sesso. Se l'abilità
fisica o anche l'acume mentale determinassero qualche tipo di stratificazione autoritaria nel mondo
animale (come vorrebbe farci credere Jane Goodal-Lawick con i suoi studi sulle «gerarchie» tra gli
scimpanzé), non potremmo trovare ugualmente un termine più adatto di «gerarchia» per spiegare il
sistema di stratificazione autoritaria del genere umano. Solo la società umana avrebbe potuto
mettere un pazzo come Caligola a capo dell'Impero romano, un folle dissennato come Luigi XVI
sul trono di Francia, una spudorata cospiratrice come Maria alla corte di Scozia e uno sterminatore
di massa come Stalin a capo della Russia sovietica. Questi potentissimi personaggi non assursero a
posizioni di dominio e di comando in virtù di particolari qualità (fisiche o intellettuali); furono
creature delle istituzioni, di strutture ideate e realizzate dall'uomo, che possiamo definire politiche,
economiche o sociali, ma certamente non organiche. La loro conquista del potere, spesso di un
potere oppressivo, non è da imputarsi a capacità spiccate, bensì all'azione di meccanismi e
istituzioni assolutamente artificiali, elemento tipico dei rapporti sociali umani. Ciò significa che
ogni società (un prodotto umano, con tutti i suoi trabocchetti gerarchici) deve essere una comunità,
ma non tutte le comunità sono necessariamente società (4). Alla stessa stregua, dovrebbe essere chiaro che la natura può essere un terreno adatto a coltivare
l'etica umana, senza essere etica nel senso antropomorfico che viene correntemente attribuito a
questo termine. Voglio dire che, proprio come c'è una continuità graduale tra le comunità animali-vegetali e la società umana, così esiste una continuità graduale tra il mutualismo naturale e l'etica
umana. In entrambi i casi, nessuno dei due fattori può essere ridotto all'altro. Ciascuno è separato
dall'altro da una moltitudine di fasi e di «stadi» altamente articolati, nel corso dei quali l'uno
emerge dall'altro senza che vi sia sussunzione reciproca. Come il mondo inorganico diviene terreno di sviluppo del mondo organico e addirittura lo permea
al punto che tutte le forme di vita sono costituite da elementi e da strutture molecolari non viventi,
cosi il mondo organico diviene terreno di sviluppo del mondo sociale e lo permea al punto che tutti
gli esseri umani sono mammiferi, anzi (come ha sottolineato Paul Shepard), primati del Paleolitico
che vivono in un mondo altamente artificiale. Questa evoluzione graduale dall'organico al sociale
non avviene soltanto attraverso una sovraimposizione delle strutture istituzionali che distinguono
chiaramente la società umanà dalle comunità animali-vegetali; si manifesta anche ideologicamente,
nella misura in cui le norme etiche, i valori morali e gli schemi di pensiero sono accomunati da un
rapporto di affiliazione con i fatti naturali, senza necessariamente essere riducibili ad essi. Quando proviamo sensazioni e pensiamo, siamo esseri sociali in un contesto naturale, così come
siamo creature parentale in corpo di mammifero quando alleviamo e nutriamo i nostri piccoli.
Queste due identità non possono dissolversi l'una nell'altra, e ciascuna ha una sua specifica
integrità. Tuttavia, per quanto graduale, mediata e articolata, esiste sempre una connessione tra
l'una e l'altra. In questo senso, la natura è sempre terreno di sviluppo per la società - tanto nella sua
necessità di associazione (a parte le strutture istituzionali), quanto negli stimoli, negli impulsi e
nelle tensioni verso l'intellettualizzazione e la consapevolezza.
Ridefinire la natura Queste considerazioni sono importanti e ci consentono di muoverci in modo meno guardingo e più
speculativo nell'ambito dell'etica ecologica. Il fatto che il mutualismo, l'autoconservazione, la
comunità e una forma embrionale di libertà siano così vicine al cuore dell'organico e dell'evolutivo
in natura, e che la natura stessa (fatte salve tutte le considerazioni che abbiamo espresso) sia così
vicina al cuore del sociale, è una realtà che non possiamo permetterci di ignorare. Ho delineato l'immagine di una natura in perenne movimento ed evoluzione, sempre tesa verso la
diversità, e ho parlato di gradi di interezza e di caratteri mutualistici che contrastano con la
tradizione imperialistica occidentale fondata su discordanti rivalità e su un senso di «alterità»
impregnato di antagonismo. Il passo dalla spontaneità naturale, dalla fecondità e dal mutualismo
all'intenzionàlità, alla creatività e alla cooperazione consapevole del genere umano è un passo
decisivo, in senso qualitativo, per dare all'umanità ciò che le è dovuto. Ma queste forme umane di
comportamento e questa capacità umana di intellettualizzazione hanno una loro embrionalità. Non
sono comparse ex novo e devono essere situate nel processo di evoluzione organica. Facciamo
violenza sia al sociale che al naturale quando riduciamo il primo al secondo punto che il compito di
spiegarli entrambi spetta più alla genetica (la «moralità del gene» di E.O. Wilson) che all'ecologia. Esagerando, si tende a ridurre la reazione al dualismo occidentale tradizionale ad una risposta
ugualmente unilaterale, che contrappone all'«immoralità» (leggi: «crudeltà») della natura una
«moralità genetica» non meno criticabile. L'ecologia sociale radicale testimonia la possibilità dì
ridefinire la natura in un modo che tenga conto delle differenze senza negare la continuità, che
risponda all'esagerazione con l'equilibrio, che rifiuti l'etica genetica senza respingere l'etica
organismica. Queste distinzioni terminologiche non sono soltanto sfumature: sollevano problemi importanti, che
riguardano il modo difficile e intricato in cui consideriamo il rapporto tra natura e società. Molti
ecologi sociali animati da buone intenzioni sono ancora legati al mito occìdentale, secondo il quale,
ad esempio la gerarchia è semplicemente un modo di mettere ordine nella società. Sarebbe come
dire che, senza una struttura gerarchica o senza rapporti di dominazione-sottomissione, una
comunità animale qualsiasi (da un branco di galline a un branco di babbuini) si disgregherebbe nel
caos più completo. Potrebbe anche essere - ma mi sembrerebbe alquanto improbabile, visto che la
mentalità da «branco di babbuini» è cosÌ diffusa da essere usata per spiegare il comportamento
umano, almeno nei suoi stadi iniziali. Se la «civiltà» moderna può servire da guida per analizzare il
passato antropologico, non se ne possono trarre che indicazioni negative circa i vantaggi della
gerarchia, la quale, oggi assai più che in epoche storiche precedenti, sta portando la nostra specie
sull'orlo dell'estinzione. Ma ciò che più disturba è la superficialità che l'etologia «babbuinica» rivela quando la si sottopone
all'esame critico dei fatti antropologici. Il maschio impettito e dominatore della cultura vittoriana
sarebbe stato probabilmente un elemento sociale disgregatore nelle antiche comunità delle bande e
delle tribù. Infatti, molti elementi stanno ad indicare che, quando questa figura emerse, violando le
convenzioni altamente egualitarie delle prime forme di società, fu metodicamente eliminata. Gli indiani Ropi, gli eschimesi Ihalmiut e altri popoli organizzati in bande e tribù tendevano a
comportamenti discreti, alla riduzione della competitività, alla cortesia e all'umiltà nei rapporti
interpersonali. Per la loro cultura, fondata su una divisione egualitaria del potere, era inconcepibile
che un membro del gruppo ambisse mettersi apertamente in mostra, manifestasse egoismo,
vantasse in modo megalomane i propri meriti. Farley Mowatt riferisce che uno sciamano degli
Ihalmiut, guastato dal lungo contatto con i bianchi, tanto da sviluppare un geloso attaccamento alle
cose e presumibilmente una concupiscenza verso le mogli degli altri uomini della comunità, fu
semplicemente ucciso quando i tentativi per correggerne il comportamento si rivelarono vani (5).
Questa vicenda, come tante altre simili riportate dagli antropologi, non fornisce soltanto una
testimonianza che contraddice i pregiudizi dell'etologia da «branco di babbuini»; mette anche
fortemente in dubbio l'identificazione della gerarchia con la stabilità sociale, tanto cara al pensiero
sociale moderno (6).
Non vi sono «fini superiori» Sostenere chel'ecologia sociale radicale cerca di radicalizzare la natura non è una metafora
ideologica. L'obiettivo non è soltanto quello di radicalizzare la natura (o, quanto meno, la nostra
concezione della natura), ma anche quello di radicalizzare le più solide concezioni ecologiche che
contrastano solo in parte la tradizione occidentale. Con mille insidie, questa tradizione riesce
ancora a influenzare i suoi stessi critici. La gerarchia è data ancora per scontata in molti casi e
l'etologia «babbuinica» viene ancora usata per spiegare il comportamento umano nelle sue fasi più
remote, anche quando i fatti antropologici dimostrano il contrario. La «moralità del gene» e la
mentalità riduzionista delle interpretazioni cibernetiche degli ecosistemi spesso intervengono a
viziare le interpretazioni organicistiche più acute e sensibili. Come ha osservato circa sessant'anni
fa Robert Briffault, le antropologhe hanno dimostrato un fatto importante: la società non avrebbe
potuto svilupparsi, se le donne non avessero ricoperto il ruolo di nutrici della prole e se i giovani
avessero raggiunto troppo presto la maturità. Lovelock e Margulis hanno trasferito questo rapporto
mutualistico nel «nucleo costruttore» del nostro sviluppo fisico: la cellula eucariotica. Altri, da
Kropotkin a Trager, hanno fatto del mutualismo un principio guida dell'evoluzione. Le limitazioni che viziano le più recenti teorie ecologiche ed evoluzionistiche si possono spiegare
proprio con il fatto che esse sono e rimangono soltanto teorie - non sensibilità. Possiamo «riverire»
la natura, possiamo «amarla», possiamo ipostatizzare il suo ruolo nella nostra vita, ma facciamo
tutto questo intellettualmente (il che non è di per sé un male!) senza esplorare la sensibilità che
rende organici questi atteggiamenti. Per dirla semplicemente: abbiamo una teoria organica, ma non
abbiamo l'atteggiamento organico necessario a renderla attuabile. Viene subito in mente una caratteritica di questo atteggiamento difettoso: la nostra idea della natura
come astrazione, magari come vocazione e richiamo, ma non come «stato d'animo». Questa
concettualizzazione astratta della natura è evidente soprattutto nella concezione decisamente
limitata della individualità organica, del senso concreto dell'«io» che, per quanto debolmente, è
presente in ogni essere vivente. La tradizione occidentale trascura il lato interiore della vita; ignora che ogni essere vivente cerca di
preservare il proprio essere individuale e perciò ha il senso della propria padronanza esistenziale.
La nostra cultura insegna a trattare le forme di vita non umana come se per noi fossero semplici
oggetti, i costituenti di una rozza esistenza collettiva che chiamiamo «specie», «generi» o che
definiamo con tutte le altre categorie che formano la nomenclatura binomia. Questo processo di
oggettivizzazione è gratificante - o almeno lo è fino a quando scopriamo di essere noi le vittime
originarie di questa mistificazione, e di essere stati oggettivizzati tanto quanto gli esseri non umani. La protesta che Jacob Burckhardt ha sollevato contro l'astrazione dell'individualità, dell'individuo
concreto, ridotto a categorie storiche vaghe e impersonali, è l'obiezione irata di chi rifiuta lo
storicismo trascendentale che considera il passato e le sue sofferenze come un semplice piedistallo
del presente, con il suo egocentrismo ed autoesaltazione. «Ciascuno ritiene che la sua epoca non sia
soltanto un'onda passeggera, bensì il compimento del tempo...» scrive Burckhardt. Tuttavia, la vita
dell'umanità «è un tutto unico; le sue vicissitudini temporali e locali ci appaiono come alti e bassi,
fortune e sfortune, solo perché le nostre facoltà di comprensione sono deboli» (7). In questo senso,
aggiungerei, siamo estremamente debitori nei confronti delle terribili sofferenze e delle paure di
tutte le generazioni passate, le cui vite abbiamo sussunto con tanta leggerezza ed arroganza al fine
di accrescere la nostra felicità, qualunque essa possa essere. Nella storia e nella società non vi sono
«fini superiori» tali da giustificare i loro tormenti o la soddisfazione che proviamo nell'essere
all'«apice» dello sviluppo sociale.
E' dolore il ferimento di un castoro I popoli tribali sono più saggi di noi, e più sensibili alle ferite inferte dalla vita, nel passato come
nel presente. Il tormento del vivere non si annulla nel destino collettivo di una specie o di un
genere. E' dolore, il ferimento di un castoro, di un orso, di un cervo. Tra queste popolazioni
«primitive» l'interiorità della vita, in tutta la sua varietà, viene riccamente soggettivizzata
(giustamente) come una esperienza condivisa con il cacciatore in cerca della preda che
«acconsente» a farsi colpire dalla sua arma. Gli animali, che non sono «animali» generici, ma
animali individuali, hanno un carattere personale che induce a rispettarli e a trattarli con giustizia e
lealtà. Perciò, nel mondo «primitivo» non è idiosincratico parlare di soggettività della natura;
questa infatti è la sostanza di una antica tradizione e della sensibilità che le è propria - è il modo in
cui l'«altro» e l'«alterità» nella sua interezza sono vissuti nell'ambito globale della realtà. La natura
è più che un fenomeno fisico-chimico: è viva e intensamente «popolata», non soltanto da individui
umani, ma anche da forme di vita individuali non umane. Mentre la tradizione occidentale si fonda
su un rozzo disprezzo della vita, addirittura sull'odìo per la vita, la tradizione «primitiva» è
vitalmente aperta, non solo concettualmente, ma anche esistenzialmente, ai duri «fatti della vita». Il nostro abuso della natura ha radici psichiche profonde e in ultima analisi deriva da un odio
sprezzante per il diritto alla vita degli altri esseri umani. In virtù delle sue origini gerarchiche e
patriarcali, la tradizione occidentale non riesce a immedesimarsi neppure nell'ego umano, non
soltanto negli esseri non umani. La sua storia è segnata da un cumulo di detriti nel quale le macerie
delle città si mescolano alle carcasse delle macchine e ai corpi smembrati: una massa disordinata e
sparpagliata in una immane rovina che è il vero «tempio» della sua «civiltà». Come parti di questa
immane rovina, gli animali sono degnati a malapena di qualche attenzione, per non dire di peggio.
Fondamentalmente, li consideriamo i «falliti» di quella evoluzione al cui «apice», naturalmente,
siamo noi, spesso con inaudita crudeltà, per gli scopi più triviali. La dominazione della natura è più che un progetto utilitaristico, con lo scopo di «liberarci» dal
«fango della storia». E' una vocazione nascosta, un atto di auto-asserzione e di auto-redenzione
umana, che sussurra un oscuro, terrificante messaggio: potremmo essere proprio noi i più grandi
falliti dell'evoluzione dell'universo cosmico delle cose. Non è un caso che sia normalmente l'artista a «sentire» la natura e ad accettarla nei suoi stessi
termini, senza le astrazioni dello scienziato, per il quale la natura è soltanto una macina da lavoro,
che serve ad acquisire prestigio intellettuale. Nell'arte, la natura appare quale veramente è: ricca di
concretezza, esplosiva di forme e colori distinti, identificabile nella sua moltitudine di fenomeni
esistenziali che chiedono di essere riconosciuti uno per uno. Nei dipinti di un Turner come nei
romanzi di un Tolstoj, l'arte si sposa finalmente ad una sensibilità ecologica e produce non soltanto
un'etica della bontà, ma anche un'etica della bellezza. L'ideale greco della virtù, adorna della propria sublimità estetica, si realizza con quell'antico senso
dell'armonia, dal quale tutti i grandi obiettivi dell'umanità hanno tratto ispirazione e significato.
(traduzione di Michele Buzzi)
1) William Trager, Symbiosis, Van Nostrand Reinhold Co., New York, 1970, pag VII. 2) Cfr. il mio libro, The Ecology of Freedom, Cheshire Books, Palo Alto, 1982, (edizione italiana:
L'ecologia della libertà, Ed. Antistato, Milano 1984), in particolare l'«Epilogo». 3) Penso in particolare alla celebre scuola di Francoforte, e soprattuto ai suoi più illustri
esponenti, Max Horkheimer e Theodor Adorno, alla cui incapacità di fondare i concetti di ragione
e di etica in qualche sorta di naturalismo o in una strategia positivistica di moralità puramente
personalistica si deve attribuire essenzialmente il pessimismo che contraddistingue, nell'ultima
parte della vita, la loro visione delle cose. Naturalmente, ciò che è più importante è che il loro
pessimismo aveva profonde origini esistenziali. Era il risultato delle pesanti sconfitte che la
società aveva subito in seguito alla presa del potere da parte dello stalinismo e del fascismo. 4) L'uso dei termini quali «società animale» o «insetti sociali» è estremamente fuorviante, se non
perdiamo di vista la natura altamente istituzionalizzata delle società umane. E' possibile che gli
animali formino comunità biotiche e che sviluppino addirittura, al loro interno, ruoli funzionali
chiaramente definiti (il che ci porta comunque assai lontano dalle forze burocratiche e militari
sulle quali si reggono molte istituzioni umane) ma anche termini quali «gerarchia»,
«dominazione» e «sottomissione» sono estremamente fuorvianti. Sono termini sociali: denotano
modi in cui si attuano sfruttamento economico e il controllo politico delle persone, e non i rapporti
in base ai quali, ad esempio, i maschi hanno accesso preferenziale alle femmine o a territori
particolarmente ambiti. Inoltre, l'uso promiscuo di questi termini per indicare le più disparate
«gerarchie» animali, quali i rapporti di grado che si instaurano per motivi di orgoglio tra i leoni,
contribuisce semplicemente ad accrescere la confusione, già endemica tra molti etologi animali e
soprattutto tra i biologi sociali. La confusione sconfina addirittura nell'assurdo quando termini
quali «regina delle api» e «re degli animali» vengono disseminati in discussioni che hanno per
oggetto «gerarchie» differenti, simili soltanto per analogia con quelle umane e con la dominazione
umana chiaramente intenzionale. 5) Farley Mowatt, The People of the Deer, Pyramid Publications, New York, 1983, pag 183. 6) Che non è affatto moderno. Fin dagli esordi della società gerarchica, e in modo palese
soprattutto nell'era vittoriana, il padre di famiglia ha avuto interesse ad identificare la sua
posizione con il concetto di «ordine» e con l'autorità della «legge». Siamo gli eredi inconsapevoli
di una mentalità gerarchica che non tocca soltanto la sfera politica e domestica, ma si manifesta
anche nel modo in cui sperimentiamo la realtà. In questo senso era più sincero Aristotele, che nel
primo libro della sua Politica scrisse che la famiglia patriarcale è il regno dell'illegalità,
dell'autorità e dell'obbedienza cieche, della violenza. 7) Jacob Burckhardt, Uber Studium der Geschichte, Kroener Verlag, 1905, pag. 295.
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