Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 14 nr. 120
giugno 1984


Rivista Anarchica Online

Il computer, l'artigiano ed il boia

Cari compagni,
ho letto con molto interesse i diversi interventi sul tema «computer e dominio» pubblicati sullo scorso numero. Senza nulla voler togliere ai pregi complessivi degli altri articoli e senza sottovalutare la pregnanza delle argomentazioni e delle analisi in essi contenute, confesso di sentirmi incline a condividere, sulla questione, le considerazioni esposte da Gianluigi Bogani e l'ottica da lui adottata nel valutare il fenomeno della cosiddetta «rivoluzione informatica».
Premetto di non avere il benché minimo corredo di nozioni specifiche sulla materia. Ad un computer non mi sono mai avvicinato, non ne ho mai visti se non in fotografia, né mai ho avuto modo di visionare alcuna di quelle riviste specializzate che stanno incontrando tanto successo di lettori. Quel poco che ne so è per sentito dire.
So, cioè, o credo di sapere, che di questi calcolatori o «elaboratori» elettronici ve ne sono di diverse dimensioni e con differenti capacità e qualità di prestazioni e che, per quanto tecnologicamente complessi, sarebbero basati su semplici principi di algebra e di logica elementare (calcolo proporzionale, logica delle classi, algebra di Boole). Mi risulta che essi si suddividono in due grandi categorie: quella dei calcolatori «numerici» o «digitali» più adatti ad un utilizzo in campo commerciale ed amministrativo e quella dei calcolatori «analogici» particolarmente idonei ad usi scientifici.
Non ignoro come questi strumenti richiedano per la loro programmazione il ricorso a dei linguaggi artificiali con diversi livelli di raffinatezza formale e dotati di differenti caratteristiche particolari, in relazione al tipo specifico d'impiego. Di questi linguaggi programmatici (Fortran, Cobol, Algol, ecc.), però, confesso di non sapere nulla. Sono pertanto il primo a riconoscere che la mia propensione ad attribuire una validità maggiore, rispetto a quella degli altri interventi, al discorso portato avanti da Bogani è più il frutto di una scelta psicologica che non di un convincimento razionale, dedotto da un'analisi sorretta da elementi oggettivi e guidata da una conoscenza effettiva dell'argomento.
Ciò che, a mio avviso, caratterizza lo scritto di Gianluigi Bogani è l'aspetto propositivo del contenuto. In esso, infatti, compare un suggerimento relativo alla ricerca di quei modi e di quelle vie (non è dato oggi sapere se e quanto percorribili) che possono offrirsi al movimento libertario per realizzare una sua presenza effettiva (e maggiormente incisiva) nella società contemporanea.
La «rivoluzione informatica» può non piacerci, possiamo temerla quale portatrice di un incremento dell'alienazione dell'uomo e di un'ulteriore accentuazione delle caratteristiche gerarchiche ed autoritarie della società: rimane il fatto che dobbiamo fare i conti con essa. Possiamo e dobbiamo cercare di individuare e mostrare i pericoli che essa può comportare ma, così come non è possibile ignorarla, non possiamo esorcizzarla attraverso la deprecazione. L'unica alternativa che si pone è quella tra il cercare di scoprire le possibili dimensioni positive del fenomeno e gli eventuali spazi ove sia possibile inserirvi per allargarle, potenziarle ed utilizzarle; e l'auspicare forme di rivolta «luddista» contro questa forma di sviluppo tecnologico.
Questa seconda ipotesi mi pare una scelta improponibile in quanto velleitaria, ridicolmente ingenua e (anche se per assurda ipotesi fosse praticabile) priva di sbocchi che portino alla costruzione di una società libertaria.
Nessun dubbio intorno al fatto che questa nuova tecnologia verrà utilizzata dal Potere quale efficace strumento di consolidamento del dominio. Solo che ciò avviene per le stesse ragioni che hanno determinato un identico destino ad ogni scoperta scientifica e ad ogni nuova innovazione tecnologica, nel corso di tutta la storia dell'umanità.
In ogni epoca gli individui e le classi sociali che hanno detenuto il potere hanno sempre perseguito l'obiettivo del perfetto funzionamento dei meccanismi di controllo sociale ed avuto la possibilità di trarre profitto, a questo scopo, di tutte le risorse economiche, scientifiche e tecniche disponibili.
Maria Teresa Romiti apre il suo articolo con una suggestiva immagine di lavoro artigianale e le sue considerazioni sull'importanza, in una cultura a misura d'uomo, del rapporto diretto con la natura, del posto che deve avervi l'abilità manuale e l'impegno artigianale che sanno ricavare, con pochi attrezzi ed ore di paziente lavoro, oggetti ammirevoli appaiono validissime e quanto mai appropriate. Non dimentichiamoci però che quelle società del passato, ove fiorirono fino al massimo splendore questi modi di produzione, non sono state meno soggette al dominio e allo sfruttamento di quelle industriali (capitalistiche, tardo-capitalistiche o post-capitalistiche che fossero o siano).
Una recente «mostra della tortura» ha esposto raffinati congegni, frutto di «amorevole» lavoro di abili mani artigiane, destinati a servire il potere di allora come strumenti per infliggere sofferenza alle sue vittime. Alla visione di abili artigiani intenti ad intrecciar canestri, a dare forme geometriche perfette a blocchi di pietra, a forgiare anellini da un chiodo, viene a sovrapporsi quella di altri, altrettanto esperti e innamorati del loro lavoro, impegnati a fabbricare il toro di bronzo del tiranno Filaride o la terribile «vergine di Norimberga», o ad allestire i mille arnesi, perfidamente
ingegnosi e fantasiosi, diventati ora oggetti di curiosità in una mostra, ma che hanno costituito l'attrezzatura professionale del boia. Dovremmo per questo maledire le capacità degli artigiani di allora? Sarebbe insensato, perché la colpa di quei mali non risiede nell'abilità di quelli che costruivano quegli strumenti di tortura ma è di chi aveva il potere di asservire il loro lavoro e di utilizzarlo a questo scopo.
Chi gestisce il potere potrà senz'altro servirsi delle nuove tecnologie informatiche per opprimere e reprimere. E' sempre riuscito a servirsi di uomini e cose a questo scopo. Ma il male non sta nei «computer», sta nell'essenza stessa del potere. Hitler, Mussolini, Stalin non possedevano calcolatori elettronici: pare che non abbiano risentito molto di questa lacuna.
Vi è un punto, che mi pare importante, dell'articolo di Maria Teresa Romiti che ha suscitato in me non poche perplessità e sul quale, sempre se ho ben capito il suo pensiero, mi trovo a dissentire completamente. Si tratta di quello dove, parlando dell'effetto che il computer potrebbe avere sui bambini, afferma che sarebbe quello di «renderli padroni delle strutture logico-matematiche e nello stesso tempo cancellare tutti gli altri tipi di correlazioni logiche che pur appartengono all'umanità». Non sono d'accordo perché convinto, invece, che molto possa indurci ad ipotizzare degli effetti più positivi che negativi (in una prospettiva libertaria) dall'assimilazione, a livello di massa, del linguaggio privo di ambiguità e di orpelli retorici, che è peculiare alle scienze logiche e matematiche.
La riduzione a calcolo di ogni procedimento inferenziale, la cui realizzazione ha cominciato a rendersi possibile solo dopo l'algebrizzazione della logica operata da George Boole nel 1854, era stata vagheggiata da generazioni di filosofi. Già presente in Raimondo Lullo («Ars compendiosa inveniendi veritatem», 1274), questo progetto affascinò molti pensa tori del XVI e XVII secolo e venne ripreso da Leibniz nel suo «De arte combinatoria» del 1666, dove espone il suo progetto di una metodologia in grado di dimostrare le verità acquisite e di scoprire verità nuove mediante un sistema combinatorio che prende la forma di un calcolo analogo a quello usato in matematica e attraverso il quale si dovrebbe arrivare a che « ... quando sorgeranno controversie tra due filosofi, non sarà più necessaria una discussione, come non lo è tra due calcolatori. Sarà sufficiente, infatti, che essi prendano in mano le penne, si siedano di fronte agli abachi e si dicano l'un l'altro: Calcolemus!».
La logica non è mai dogmatica. La sua preoccupazione per il rigore e l'esattezza nella formulazione delle proposizioni enunciative, la dettagliata catalogazione dei criteri decisionali che permettono di dedurre la verità o la falsità di una proposizione complessa, le regole per passare da un gruppo di proposizioni all'interno di una categoria ad un altro o da una categoria all'altra, obbediscono solo all'esigenza di descrivere chiaramente le leggi del pensiero che sono all'origine del ragionamento deduttivo. Un sistema di logica, come scrive Rudolph Carnap, «non è una teoria, cioè un sistema di affermazioni su oggetti determinati, ma una lingua, cioè un sistema di segni e di regole del loro uso».
Pur muovendo dal linguaggio comune, il logico lo formalizza sacrificando perspicuità e l'obiettività del linguaggio comune, rivelatisi fallaci, ad una più autentica obiettività e chiarezza, attraverso il suo rendere esplicite tutte le regole implicite e le regole inespresse contenute nel linguaggio quotidiano.
La notazione logica non ammette sottintesi, non tiene conto delle distinzioni retoriche e di quelle sfumature ed eleganze del linguaggio che possono anche fornire qualche informazione accessoria su ciò che pensa chi parla, ma sono del tutto inutili ai fini del riconoscimento della verità o falsità dei contenuti di un discorso.
Queste considerazioni mi inducono a pensare che, nella misura in cui la logica è una scienza che si dà per scopo quello della ricerca della verità e il metodo matematico è idoneo a favorire questa ricerca assicurando il massimo livello concepibile di rigore e di obiettività, una diffusione della cultura logico-matematica non può non apparire come potenziale portatrice di effetti positivi e di una parallela e contemporanea espansione di una mentalità libertaria.

Gianfranco Bertoli (carcere di Porto Azzurro)


Ma la logica non comprende tutto il mondo

Caro Gianfranco,
solo un appunto alla tua lettera che ho trovato interessante e stimolante. Le nostre posizioni divergono abbastanza, ma non mi preoccupa. Quello che mi preme è piuttosto spiegare meglio il mio pensiero che forse è stato frainteso proprio su un punto che ritengo importante. Critichi la mia posizione sui possibili sviluppi di massa del linguaggio informatico, linguaggio astratto, logico-metematico, altamente strutturato: se fosse questa la mia posizione, anch'io avrei qualcosa da dire a me stessa.
Ciò che forse non sono riuscita a spiegare è la mia paura che il linguaggio informatico non solo si sviluppi, ma escluda tutti gli altri tipi di linguaggio ed anche altri modi di rapportarsi con il mondo. Non voglio certo ricominciare un lungo discorso sui pericoli del linguaggio, esistono già delle bellissime pagine di Orwell sulla neolingua. Non credo che il linguaggio sia un codice neutro: esso influenza il nostro pensiero, le nostre idee, la nostra possibilità di immaginare. «La logica», dici, «non è mai dogmatica», ma ridurre tutto alla sola logica mi sembra altamente dogmatico e ben poco libertario, se non altro perché elimina le differenze, le possibilità di scelta. Ecco, il mio problema è questo, se vuoi: un problema di riduzione piuttosto che di sviluppo. Forse è solo paura, ma i segnali che giungono, specie dall'America, non sono molto rassicuranti. La logica, per quanto rigorosa, non comprende tutto il mondo, è un modo di porsi di fronte ad esso ed ha diritto di esistere come molti altri modi.
Io non saprei che farmene di un mondo, ancorché libertario, che non sapesse più produrre o comprendere sonetti o non sapesse commuoversi fino alle lacrime di fronte ad un tramonto, anche se non è né logico, né razionale.

Maria Teresa Romiti (Milano)