Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 14 nr. 120
giugno 1984


Rivista Anarchica Online

1984 e il ruolo della memoria
di Murray Bookchin

I testimoni oculari della Rivoluzione francese raccontano che, dopo il rovesciamento di Robespierre e del Comitato di salute pubblica giacobino, gli odiati aristocratici parigini uscirono dai loro nascondigli e cooptarono quello stesso Terrore che li aveva vessati. Non solo presero parte all'eccidio di massa dei loro ex-persecutori (un secondo 'Regno del Terrore', del quale gli storici non si sono quasi mai occupati) ma adottarono anche molti modi di comportamento e di abbigliamento delle loro vittime.
Così, alle feste nei palazzi di Parigi divenne chic indossare un nastro rosso sottile intorno al collo, più o meno nel punto in cui la lama della ghigliottina aveva reciso la testa di un membro della propria famiglia. Questa macabra forma di ornamento si diffuse rapidamente tra i membri dello smart set parigino, che sullo sfondo del Terrore inscenarono non soltanto particolari affiliazioni di tipo sociale, ma anche le loro predilezioni sessuali. Il Terrore, dunque, aveva cessato di incutere terrore. Addirittura lo si introdusse nei saloni da ballo e nei boudoir, dove non parve turbare eccessivamente l'aristocrazia francese, né la mise in guardia contro altri terrori futuri. Servì invece come nuovo stimolo alla sensualità ormai satura e come incentivo all'esercizio naturale del cattivo gusto.
Rievoco queste vicende perché ho ragione di temere che l'anno in corso possa cooptare in modo analogo 1984, l'irresistibile romanzo distopico di George Orwell. Stiamo parlando e discutendo di questo libro con un cattivo gusto che ricorda molto quello degli aristocratici francesi di due secoli orsono. Quest'anno, com'era prevedibile, 1984 è balzato alla ribalta e in breve è diventato un best-seller.
Comici come Steve Martin hanno fatto la parodia del protagonista del romanzo, Winston Smith, dando prova di volgarità e di insensibilità. La ristampa dell'opera in occasione della ricorrenza è stata arricchita da una prefazione, o meglio da un inventario, di Walter Kronkite, in cui il più illustre mezzobusto d'America mette in guardia dai pericoli nei quali potremmo incorrere se ignorassimo il vero intento di Orwell: non predire, ma premonire. Come molti inventari, anche quello di Kronkite non è esente da meriti, ma anche qui c'è un pericolo. Se in America comparisse un Grande Fratello, credo che assomiglierebbe molto al signor Kronkite, cioè a 'Babbo Telegiornale', come l'hanno soprannominato alcuni critici, il principe degli anchormen, che ha fatto più di chiunque altro in televisione per abolire l'informazione degna di questo nome, riducendola nel migliore dei casi a spettacolo e nel peggiore a una farsa di basso livello.
Per passare a qualcosa di più serio, c'è un'altra schiera di commentatori, formata da quelli che provano particolare piacere nel sottolineare quanto le predizioni contenute nel libro di Orwell si siano rivelate fallaci. Dopo tutto, ci rassicurano costoro, per quanto critici si possa essere verso le amministrazioni di Nixon e Reagan, negli Stati Uniti non abbiamo un Grande Fratello, né una Neolingua, né un Ministero della Verità. La stampa e i cittadini possono ancora esprimere liberamente le loro opinioni. C'è di peggio, come ricorda Kronkite: ad esempio, l'Iran di Khomeini enumera, a onore del vero, molti dei mutamenti sociali e tecnici che si sono realizzati dopo la pubblicazione del romanzo, e che ci hanno portati più vicini a 1984 di quanto vogliamo ammettere. Sono diversi decenni, ormai, che la Neolingua sta penetrando a un ritmo spaventoso nel nostro linguaggio. Dagli anni Venti in poi abbiamo cominciato a «liquidare» le persone, invece di massacrarle (abbiamo preso a prestito il termine dal vocabolario bolscevico). Dagli anni Cinquanta il termine «media» ha preso il posto di «propaganda». Dall'elettronica, la cui inarrestabile ascesa ha avuto inizio con l'impiego del radar durante la seconda guerra mondiale, provengono altri termini, come «input», che ha sostituito «sapienza», «output», che ha sostituito «espressione», «feedback», che ha sostituito «dialogo», e «informazione», che ha sostituito «conoscenza». Dalla pubblicità abbiamo imparato a fare il «brain-storming», invece che scambiarci le opinioni, e naturalmente non possiamo dimenticare le succose espressioni coniate dai militari, che chiamano «sterilizzazioni» i bombardamenti e «danno estremo» l'assassinio.
In un'appendice al romanzo, Orwell ha espresso chiaramente il suo punto di vista sull'argomento. Fine della Neolingua non era soltanto quello di fornire un mezzo di espressione per la concezione del mondo e per le abitudini mentali proprie ai seguaci del Socing - cioè del 'socialismo inglese', com'era chiamato il sistema societario vigente in Oceania - ma soprattutto quello di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero. Era sottinteso come, una volta che la Neolingua fosse stata definitivamente adottata, e l'Archelingua, per contro, dimenticata, un pensiero eretico (e cioè un pensiero in contrasto con i principi del Socing) sarebbe stato letteralmente impensabile, per quanto almeno il pensiero dipende dalle parole con cui è suscettibile di essere espresso. Il suo lessico era costituito in modo tale da fornire espressione esatta e spesso assai sottile a ogni significato che un membro del Partito potesse desiderare propriamente di intendere. Ma escludeva, nel contempo, tutti gli altri possibili significati, così come la possibilità di arrivarvi con metodi indiretti. Ciò era stato ottenuto in parte mediante l'invenzione di nuove parole, ma soprattutto mediante la soppressione di parole indesiderabili e l'eliminazione di quei significati eterodossi che potevano essere restati e, per quanto era possibile, dei significati in qualunque modo secondari. Daremo un unico esempio. La parola «libero» esisteva ancora in Neolingua, ma poteva essere usata solo in frasi come 'questo cane è libero da pulci' ovvero 'questo campo è libero da erbacce'. Ma non poteva essere usata nell'antico significato di 'politicamente libero' o 'intellettualmente libero' dal momento che la libertà politica e intellettuale non esisteva più, nemmeno come concetto, ed era quindi, di necessità, privo di una parola per esprimerla. Ma, a parte la soppressione di parole di carattere palesemente eretico, la riduzione del vocabolario era considerata fine a se stessa, e di nessuna parola di cui si potesse fare a meno era ulteriormente tollerata l'esistenza. La Neolingua era intesa non a estendere, ma a diminuire le possibilità del pensiero; si veniva incontro a questo fine appunto, indirettamente, col ridurre al minimo la scelta delle parole.
Definire profetico questo brano è dir poco. Nella storia della comunicazione verbale non si è mai osservato un processo di riduzione e di snaturamento linguistico come quello che è in atto oggi, grazie alla diffusione dei vari gerghi professionali, al martellamento dei media e al barbaro decadimento della letteratura e del bello scrivere.
Per sottrarre 1984 alla tendenza contemporanea e radical-chic della semplificazione intellettuale dovremmo occuparci di quello che, a mio avviso, è l'unico, più terrificante pericolo, dal quale ha origine tutto ciò che il romanzo descrive: la necessità di abolire la memoria. E' indubbiamente importante sottolineare la centralità che aveva, per Orwell, la sterile ricerca del potere, caratteristica dell'era del «Socing». Oggi molti lettori del romanzo sono troppo lontani dai tempi di Orwell per rendersi conto di quanto questa insistenza dell'autore fosse singolare nel 1948, cioè nell'anno in cui pare che Orwell abbia terminato di scrivere il suo libro. Dico «singolare» perché personalmente ricordo che le preoccupazioni di Orwell sul potere come fine a se stesso erano considerate del tutto secondarie e persino ingenue dai marxisti occidentali, che ai fini di una corretta analisi del capitalismo ritenevano più «scientifica» e «neutra» l'espressione «ricerca del profitto». Il potere come fine a se stesso - di fatto, come fenomeno che genera se stesso e cresce incessantemente, per il quale il «profitto» e l'«accumulazione» sono soltanto mezzi - era fondamentalmente estraneo a un pensiero socialista essenzialmente autoritario ed economicista nei presupposti sottintesi sui quali basava la sua visione del capitalismo e, oserei dire, di tutta la «civiltà» patriarcale degli ultimi sei millenni.
Il socialismo di Orwell, tendeva all'anarchismo - anche se egli si allontanò dal movimento anarchico inglese. In Omaggio alla Catalogna Orwell dimostrò una indiscutibile affinità con i lavoratori anarcosindacalisti di Barcellona, che nel maggio del 1937 insorsero contro i tentativi stalinisti di abolire il controllo operaio sull'industria in quella roccaforte anarchica. Le sue simpatie per quel movimento erano più viscerali che ideologiche. Orwell odiava l'elitarismo, e particolarmente quello degli intellettuali radical inglesi. La sua avversione per la gerarchia e per l'ipocrisia paternalistica di cui gli scrittori e i poeti diedero prova nei loro rapporti con le «masse» divenne così acuta che egli rifiutò di incontrarsi con il poeta W.H. Auden (un comunista, a quell'epoca) e verso la fine degli anni Quaranta, ritiratosi alle Ebridi, non volle ricevere un visitatore comunista, perché sospettava che fosse una spia inviata dal Partito comunista inglese.
Questi episodi possono sembrare futili, ma non è possibile ignorarli, se si vuole collocare il libro di Orwell nel contesto storico che gli appartiene - ovvero, porre la memoria al servizio della nostra analisi. 1984 è un libro scritto da un uomo che si formò politicamente verso la fine degli anni Trenta. Quel periodo e la cultura che esso seppe dare spiegano molte cose del romanzo, che altrimenti avrebbero potuto trarci in inganno. In effetti, alcuni elementi-chiave del libro possono riuscirci incomprensibili, impedendoci di cogliere il loro messaggio.

Al servizio della controrivoluzione
Orwell si recò in Spagna nel 1937 mosso da intenti liberal di varia natura, senza aver chiara la necessità di difendere quelli che egli considerava vagamente dei derelitti oppressi dal fascismo. Lasciò la Spagna con l'animo profondamente scosso, non perché aveva sofferto nelle trincee combattendo contro la «destra» (cosa alla quale era preparato) ma perché fu braccato e costretto alla fuga dalla «sinistra», ovvero dal Partito comunista, controllato dai sovietici, e dai suoi alleati socialisti. Orwell si era infatti inavvertitamente legato a un gruppo quasi trotzkista della milizia, che faceva capo al POUM (Partito operaio di unificazione marxista), un'organizzazione catalana dissidente di sinistra, seconda per importanza soltanto alle organizzazioni anarco-sindacaliste spagnole della CNT e della FAI. Di fatto, Orwell si trovò coinvolto nelle vicende politiche dell'ultima grande rivoluzione proletaria classica proprio nel periodo in cui i comunisti divennero la forza più biecamente controrivoluzionaria di questo secolo. L'inversione della storia, per effetto della quale gli ideali di Lenin e di Trotzky si erano mutati nel loro esatto opposto, è il nucleo intorno al quale ruota 1984. La «neolingua» e il «Bipensiero» rappresentano una trasformazione del modo di ragionare, sulla quale si basa tutto il romanzo. Gli slogan di 1984, «La guerra è pace», «La libertà è schiavitù», «L'ignoranza è forza», trovano riscontro in analoghe distorsioni hegeliane e marxiste, quali: «La guerra è la levatrice della storia», «La libertà è il riconoscimento della necessità» e «Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo lavoro», uno slogan, quest'ultimo, che stravolge la vecchia massima marxista «a ciascuno secondo le sue necessità». Nei paesi dell'est v'è abbondanza di sedicenti «repubbliche democratiche» e di «democrazie popolari», e gli avversari di partito, ciascuno dei quali sa che potrebbe finire con una pallottola nella nuca per mano dell'altro, continuano cerimoniosamente a chiamarsi «compagni».
In tutto ciò Orwell vide un tradimento non soltanto dell'ideologia, ma anche di quel senso interiore della moralità e della coscienza, che plasma la personalità e l'identità di ogni uomo. Nel ribaltamento della rivoluzione libertaria spagnola, che si tramutò in una guerra civile paralizzante all'interno della più vasta guerra civile in atto nel paese, una cosa soprattutto suscitò l'orrore di Orwell: il potere che lo stalinismo riuscì ad esercitare sull'unica voce della coscienza che avrebbe potuto denunciare al mondo l'inganno, e cioè la voce dell'intellighentia europea. Da Ernest Hemingway a W.H. Auden, da Diego Rivera a Pablo Picasso, da Henry Wallace a Ernest Bevin, tutti si erano uniti, cinicamente o stupidamente, per coprire con il rosso sudario della controrivoluzione stalinista la bara rossonera del movimento rivoluzionario più avanzato del secolo scorso e dell'ultima grande rivoluzione proletaria classica.
Orwell aveva vissuto l'angoscia di Winston Smith.
In un certo senso, egli stesso era stato Winston Smith. Ma non erano stati soltanto gli agenti della NKVD, gli assassini prezzolati della polizia segreta russa, a massacrare i libertari di sinistra nelle città e nei villaggi spagnoli. L'orrore di Orwell nasceva dal fatto che i più illustri scrittori, poeti, politici e pittori (i creatori di immagini e i formatori intellettuali della società occidentale) si erano resi complici degli assassini e si erano rivoltati anche contro di lui, quando aveva cercato di svelare la realtà della rivoluzione spagnola. Quelli erano gli uomini e le donne che creavano parole, scrivevano articoli e libri, raccontavano in versi e con immagini cinematografiche la guerra civile, mascherando gli avvenimenti di cui egli era stato testimone in Spagna. I fascisti e gli agenti della NKVD uccisero i dissidenti di sinistra, che tuttavia sapevano a che cosa andavano incontro e risposero a loro volta con le armi. L'intellighentia radical distrusse l'integrità della rivoluzione e guastò il suo bene più prezioso: la sua personalità morale e sociale.
Nel romanzo, costoro sono rappresentati da O' Brien, «che cinicamente ristruttura l'apparato epistemologico di Winston Smith», che esige credulità per la sua abilità professionale. I creatori di immagini e i formatori intellettuali degli anni Trenta avevano trasformato la forza del pensiero in una povera, inutile cosa, e non avevano lasciato, ai Winston Smith di tutto il mondo, nessuno spazio in cui la personalità, l'identità e l'umanità di ciascuno potesse trovare segretamente rifugio.
A due generazioni di distanza, non ci consola il fatto che Orwell abbia esagerato il ruolo degli intellettuali radical degli anni Trenta. Essi stessi furono prigionieri di quello che Trotzky chiamò «il fatto compiuto». La Russia era l'iconizzazione del comunismo, il sogno materializzato, sia in forma di immagini incise, sia in forma di territorio. Era «presente», nel senso che era «qui e ora» e non apparteneva al passato con le sue sconfitte, né al futuro con le sue incertezze. Ed era lì da vedere, da toccare, non soltanto l'oggetto di speculazioni teoriche. Di fronte ai fatti nudi e crudi, il giudizio critico doveva essere sospeso. Forse quasi intuitivamente, Orwell capì che proprio questa fattualità dell'utopia era la fine del sogno utopico, allo stesso modo in cui una cianografia apparentemente «realistica» e dettagliata dell'utopia (reale o immaginaria che sia) non può che essere essenzialmente distopica, perché prosciuga l'immaginazione, l'ispirazione, il progresso dal passato, attraverso il presente, verso il futuro. Infine, la fattualità dell'utopia ci nega il senso del contrasto che contrappone il passato al presente, consentendoci di attribuire un significato critico non soltanto ai modi di vita passati e contemporanei, ma anche a quelli futuri. La supremazia del «fatto compiuto» sui fatti trascorsi ed anche sui fatti presenti significa l'annullamento del passato e anche del presente (che non vuol dire nulla senza il passato). Il presente stesso diventa così un «adesso» specioso, atemporale e astorico. E' un «adesso» eterno che non ha origine, genesi, sviluppo e, di conseguenza, non ha un senso né una direzione. Eliminate il senso di direzione ed eliminerete il senso della potenzialità, della possibilità, del grado di auto-realizzazione: e il senso della speranza, come avrebbe detto Ernst Bloch.
Il romanzo di Orwell è pervaso dalla tremenda sensazione di questa svolta nelle vicende umane. Sì, il «partito interno» che Orwell descrive, contrapponendolo al subalterno «Partito esterno», cerca il potere. Tuttavia, esso è istituzionalmente anonimo, come i kafkiani burocrati russi, i quali occupano uffici dotati di vita propria oltre e al di sopra delle vite degli esseri umani che li popolano. L'eternità dell'ufficio è sancita dalla facilità con la quale i suoi occupanti possono essere cancellati dal mondo dei vivi senza che le loro note biografiche e le loro carriere lascino traccia alcuna di una esistenza individuale. Se vengono rimossi, non sono mai esistiti. Le dememorizzazione (se mi è concesso di coniare questa nuova parola) è completa. Di conseguenza, «ciò-che-dovrà-essere» non è mai oggetto di considerazione intellettuale, perché «ciò-che-è» prevale su «ciò-cheè-stato». L'eternità dell'«adesso» è garantita dalla negazione della potenzialità, la quale, come fonte di sviluppo, è sempre legata alla storia e quindi alla memoria. La cancellazione della memoria rappresenta l'estrema violazione dell'identità umana e della capacità che l'uomo ha di perseguire uno scopo, di esercitare la volontà e di attuare mutamenti. Per Orwell, desiderare questa prospettiva significa rinunciare alla propria personalità, alla propria umanità. Non sorprende affatto che l'autore avesse intitolato inizialmente il suo romanzo The Last European («L'ultimo europeo»), prima di optare per il più efficace 1984.

Aldilà delle purghe staliniane
La maggior parte del contenuto politico di 1984 prende le mosse da questa preoccupazione intuitiva e solo occasionalmente espressa, che covava nell'animo travagliato di Orwell. Gli apparati istituzionali descritti nel romanzo (il «teleschermo», la «polizia del pensiero», il «Ministero della Verità», i «Due Minuti d'Odio», le retate e le guerre perpetue) riproducono strumenti e metodi analoghi, che esistevano realmente o in embrione nello stato nazista e nella Russia sovietica (in quest'ultima, sia detto per inciso, in forme più basilari, sistematiche). Di solito Hitler faceva assassinare i suoi oppositori in segreto; Stalin pretendeva invece, quando poteva - o voleva - ottenerle, le «confessioni» più degradanti. I nazisti usarono ogni sorta di violenza contro la storia, ma Stalin volle addirittura riplasmarla, in modo da iscrivere negli annali dell'umanità, e della Russia in particolare, una terrificante atrocità. La figura di Goldstein in 1984, così essenziale all'incarnazione della storia come male, non è altri che Trotzky, il cui vero nome era Bronstein. Anche la «Fratellanza» segreta, un'invenzione dei tardi anni Quaranta in Russia, rappresenta l'opposizione di sinistra del 1925, e il suo «Libro» è un misto di trotzkismo e di analisi e stile orwelliani. Indubbiamente nel romanzo sono raffigurati molti aspetti del nazionalsocialismo, ma oggi essi non risultano familiari alla maggior parte dei lettori. Sono reminescenze di vecchi rituali socialdemocratici, come le retate e le manifestazioni di massa accuratamente orchestrate, che Hitler riesumò dal passato.
Sul piano sia ideologico, sia psicologico, Orwell attinse anche da Buio a mezzogiorno, di Arthur Koestler. Rubashov, apparentemente modellato sul personaggio reale del bolscevico Nikolaj Bucharin, condannato a morte dai tribunali moscoviti nel 1938, si persuade a rendersi complice dei suoi inquisitori della NKVD, che fanno appello alla sua lealtà rivoluzionaria. Non v'è quasi dubbio che Bucharin, con la sua memoria e il suo onore (per quanto macchiato dalla colpa di aver contribuito alla presa del potere da parte di Stalin), non credette mai alle facoltà redentrici della dittatura staliniana, che il Rubashov di Koestler sembra invece accettare. Di fatto, con Winston Smith, Orwell ci conduce oltre le orrende purghe staliniane degli anni Trenta, e si spinge più in là di quanto avesse fatto lo stesso Keostler. Orwell impone al suo personaggio di credere che il Grande Fratello meriti il suo incondizionato amore e alla fine, nell'incubo che conclude il romanzo, Smith deve accettare di buon grado l'esecuzione, quasi per fede, e non sulla base di considerazioni morali.
Ho fissato dei parametri severi per esaminare il romanzo 1984 in contrapposizione con l'anno 1984. Ho voluto prendere in esame non soltanto le analogie istituzionali, ma anche (e con maggiore rilievo) le analogie psicologiche che li legano l'uno all'altro. Ho tentato di stabilire una relazione «metafisica» tra il romanzo e l'anno in corso, perché è su questo piano che l'opera distopica di Orwell acquista la maggiore e più inquietante rilevanza ai nostri occhi.
Naturalmente, le analogie istituzionali non possono essere ignorate. A questo proposito, vale la pena di notare che nella Russia sovietica le smagliature del sistema hanno assunto ormai dimensioni tali che la dissidenza è in procinto di tramutarsi in un evento pubblico, scoperto. La popolarità di un cantautore-poeta come Vysutskij, o di uno scienziato come Sokholov, dimostra il profondo decadimento della struttura politica della società russa. Paradossalmente, uno stalinismo duro esiste ancora in Bulgaria e in Romania, dove minaccia di tramutarsi in dispotismo familiare e non burocratico. Quanto alla Cina, essa è ancora in una fase di transizione dal regime stalinista di Mao ad una società semi-capitalista e per il momento è impossibile dire se si stia muovendo verso un 1984 orwelliano oppure ne stia uscendo. L'Iran, invece, per dirla francamente, non è un esempio confrontabile con 1984 più di quanto lo fosse il Giappone negli ultimi anni della seconda guerra mondiale. I movimenti militanti islamici mescolano nazionalismo e fanatismo medioevale. Non sono il risultato di un tentativo di industrializzazione come fu, almeno in parte, il caso della Russia e della Cina. Laddove sono riusciti a conquistare il potere, gli integralisti islamici si presentano come una minoranza fanatica che impone la propria volontà ad una maggioranza obbediente, ma scettica.
In questi paesi la perdita della memoria storica, che diede origine nel romanzo di Orwell al «controllo della mente», non è in alcun modo una realtà. La gente sa di essere ingannata e conduce una vita sotterranea di ampio respiro, ricca di contatti umani, con una produzione di beni culturali, di libri, di manoscritti, di registrazioni e di programmi radiofonici in gran parte impermeabili al regime. Il loro comportamento è condizionato dalla paura, non dalla perdita di contrasto causata dalla dememorizzazione. Gli abitanti dell'Oceania di Orwell, invece (e questo è un elemento essenziale in 1984), non hanno paura. Il loro stesso modo di ragionare e di vivere esclude la paura, perché l'elemento costitutivo della loro personalità è l'autorità del Grande Fratello. I «prolet», che sembrano immuni dalla necessità di obbedire, sono «liberi» soltanto nel senso che si comportano in modo impulsivo e spontaneo. Se ne fregano del sistema, perché il sistema se ne frega di loro. Come gli iloti di Sparta, sono costretti a lavorare dal bisogno, ma non «amano» la società che li sfrutta.
Dove potremmo cercare, allora, una società ciecamente devota all'«adesso», all'eternità del presente, e perciò particolarmente soggetta al rischio della dememorizzazione? Per quanto possa sembrare sorprendente, credo che il mondo che più si avvicina alla mia analisi del libro di Orwell sia la nostra società occidentale, proprio quell'Oceania in cui si svolgono le vicende di 1984. Ovviamente, questa convinzione non si basa su un'analogia tra le nostre istituzioni e quelle della distopia orwelliana. Attualmente, e per quanto si possa prevedere in futuro, l'America in cui viviamo è una repubblica abbastanza sicura, non certo uno stato totalitario. Questa struttura istituzionale ha dimostrato storicamente di possedere un grado elevato di stabilità, per cui, anche se continuassimo a perfezionare gli attuali sistemi di sorveglianza e di controllo, la struttura stessa potrebbe ancora costituire un ostacolo alla loro utilizzazione, se non al loro sviluppo. Possiamo essere spiati, ogni frammento della nostra esistenza può essere meticolosamente registrato e, quel che è peggio, le generazioni future potranno godere dei «benefici» dell'ingegneria biologica e delle tecniche per la modifica del comportamento. Abbiamo svelato i più reconditi misteri della materia e della vita, senza dare prova alcuna di possedere le qualità necessarie a gestire nel modo migliore questo enorme patrimonio di conoscenza.
Orwell, invece, scrisse 1984 in un periodo di grande instabilità politica, un periodo che iniziò con la prima guerra mondiale e culminò nel fascismo, preludio di un nuovo conflitto mondiale. In quell'epoca, intere repubbliche e monarchie costituzionali furono spazzate vie nel volgere di pochi mesi, per effetto di rivolgimenti interni (come nel caso dell'Italia, della Germania, dell'Austria e della Spagna) o in seguito a vicende esterne (ad esempio, l'invasione dell'Europa da parte dei nazisti). In questi ultimi quarant'anni, l'Europa non ha più conosciuto un'instabilità politica così accentuata, e ciò nonostante i conflitti tra l'esercito francese e il nuovo regime gollista durante la crisi algerina, negli anni Cinquanta.
Questo non significa che mutamenti istituzionali importanti non siano in procinto di avverarsi. La rivoluzione del computer e il possibile sviluppo di un trattamento simbolico e conoscitivo delle informazioni (cosiddetto della «quinta generazione») potrebbero trasformare le «società aperte» occidentali in sistemi politici fortemente autoritari. Poiché la rivoluzione del computer segna, dal punto di vista tecnologico, una svolta paragonabile a quella che si verificò con il passaggio dall'economia dei cacciatori-raccoglitori ad un'economia agricola, non credo che questa trasformazione lascerà spazi sociali ed economici sufficienti per le decine di milioni di persone che lavorano ancora nell'industria e nel commercio. In una società cibernetica non vi sarà posto per loro, e prima o poi si porrà il problema di «che cosa farne». C'è materia, forse, per un altro romanzo distopico (se pure qualcuno non l'ha già scritto) che raffiguri una società rigidamente inquadrata, fondata su un severissimo controllo delle nascite, soggetta ad un regime supermilitarizzato e armata dei mezzi di propaganda atti a tramutare ogni forma di dissidenza nel più grave dei crimini sociali.

Un nuovo pericolo: il computer
Tuttavia, la struttura repubblicana occidentale non può essere modificata facilmente, soprattutto nel mondo anglosassone: la forza della tradizione, la varietà e complessità dei rapporti sociali ed economici anche nell'ambito delle classi dominanti e i valori ideologici condivisi dalla maggior parte della popolazione, che vuole una società relativamente aperta, porrebbero notevoli ostacoli a chiunque volesse modificare il sistema repubblicano. E' ancora assai improbabile che una trasformazione istituzionale possa verificarsi oggi con la stessa rapidità del periodo fascista fra le due guerre. In questo senso le previsioni di un cambiamento e dei suoi tempi di attuazione, formulate da Orwell, si devono considerare un riflesso della sua epoca, piuttosto che della nostra, e sembrano troppo pessimistiche.
Allora, dov'è il pericolo di 1984? Probabilmente, bisogna individuarlo laddove sono minacciati i valori più importanti, basilari. Il pericolo, dunque, è la perdita della nostra memoria storica e del senso di contrasto che questa stessa memoria genera. Il «teleschermo» non è soltanto un mezzo di sorveglianza: è anche uno strumento di esperienza. Lo stesso di può dire del computer. Chi sostiene che questi strumenti elettronici «condizionano» la mente umana sottovaluta, in un certo senso, le loro capacità formative occulte. Mi riferisco alla loro capacità di ristrutturare il pensiero epistemologicamente, in modo tale che la ragione diviene soltanto un mezzo per controllare l'ambiente o per la sopravvivenza e perde quelle facoltà speculative che la rendono critica, capace di creare e di ricostruire. Il «teleschermo», per la sua stessa natura (l'unidimensionalità delle semplici immagini, l'enorme potere di pilotare il giudizio e addirittura di sostituirsi ad esso, la presa ipnotica sulla mente e sui sensi), degrada le facoltà razionali in quanto tali e le riduce a strumenti per modeste finalità pragmatiche.
In pratica, il computer pone fine all'atto del pensare insito come processo, al quale sostituisce i risultati finali del pensiero tramutato in fenomeno operativamente esogeno. L'«ultima riga» dello schermo della stampante è l'ultimo stadio nell'uso del computer. Di fatto, le operazioni mentali tendono a tradursi in scrittura di dati, piuttosto che in attività razionali. Tra la premessa e la conclusione c'è una macchina, che automaticamente separa le ipotesi dalle decisioni (cioè dà un giudizio razionale derivato da un processo logico che ha per diritto una integrità mentale). La libertà è, prima di tutto, un modo decisionale che prevede la possibilità di un dialogo governato da canoni morali atti a discernere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, ciò che è bene da ciò che è male, ciò che è umano da ciò che è inumano. Quando il processo decisionale è affidato a una macchina, i parametri morali cessano di esistere anche come problemi che devono essere oggetto di valutazione, e con esso viene meno il concetto stesso di libertà. I «computer intelligenti» attualmente in fase di progettazione minacciano di annullare completamente i processi decisionali democratici. Il rischio è quello di separare le premesse dalla conclusioni a un punto tale per cui le une e le altre non saranno più operazioni mentali, nel senso umano e sociale, bensì operazioni essenzialmente elettroniche.
L'effetto combinato dei mezzi di comunicazione e degli strumenti elettronici può avere un carattere quasi fisiologico. L'intelligenza, che è cresciuta storicamente perché ha percorso il cammino delle idee dai primi barlumi intuitivi fino alla loro realizzazione nel pensiero, era un aspetto della personalità legato all'atto del pensare. Serviva a scopi tanto quanto i processi intellettuali nei quali si cimentava. In ciò risiedeva il valore più alto della libertà (della democrazia), e cioè nel far sì che questi processi intellettuali fossero aperti ad analisi critiche da parte di un organismo politico nella sfera pubblica. La polis ateniese era libera nella misura in cui si reggeva sul logos, parola greca che significa al tempo stesso ragione e discorso. «Discutere» i problemi sociali: ecco il primo passo verso la libertà. La democrazia greca non fece che istituzionalizzare questo processo di discussione, rendendolo il più aperto possibile: al di fuori di questo processo non poteva esservi democrazia.
Quando la macchina si sostituisce al processo della «discussione», del «ragionare intorno alle cose», e quando l'individuo apprende fin dall'infanzia ad adattarsi alle operazioni elettroniche della macchina, la mente cessa di pensare e si limita a registrare. La mente registra semplicemente quello che la macchina ha elaborato, non è un organo pensante più di quanto una fotografia sia la realtà dell'oggetto o della persona riprodotti sulla carta. Una mente siffatta non ha bisogno della storia né della memoria, se non di quel poco che le serve ad essere meccanicamente operativa. Anzi, la memoria diventa un peso. In un ambiente che richiede solo ed unicamente la registrazione di dati, la memoria è distraente, irrilevante, inquietante, seduttiva. Privata di questa facoltà oltre le semplici necessità operative che le sono imposte, la mente non è più consapevole delle proprie potenzialità, della propria funzione storica, della propria portata e infine della propria creatività. Addirittura, diviene inconsapevole della propria inconsapevolezza. Insomma diventa quell'organo amorfo, manipolabile e banale che O'Brien e i suoi collaboratori ficcano nel cranio di Winston Smith dopo averlo «sterilizzato».
In ciò possiamo vedere uno snaturamento della ragione (della mente) caratteristico della nostra epoca e di portata quasi metafisica. Una società che contemporaneamente potrebbe tramutare la propria forza-lavoro in forza-lavoro meccanizzata e passare da un mondo di intelligenza razionale alla registrazione di risultati computerizzati, minaccia di annullare la capacità di giudicare e di prendere decisioni anche prima che venga meno la libertà a livello istituzionale. Se nascerà un mondo come quello descritto da Orwell in 1984, non sarà perché gli strumenti tecnici avranno preso il sopravvento sulla mente umana, ma perché la mente stessa sarà diventata uno strumento tecnico. Questo 1984 non si avvererà d'un colpo, violentemente, bensì silenziosamente, impercettibilmente, insidiosamente, cosicché - se mi è consentito parafrasare la conclusione del Martin Eden di Jack London - non ci accorgeremo neppure di ciò che non sapremo. La nostra inconsapevolezza deriverà dal fatto che non comprenderemo il significato dell'intelligenza. Saremo ricaduti indietro nella scala evolutiva, fino a un mondo neurologico nel quale le facoltà speculative della mente avranno cessato di funzionare e saranno considerate, se pure le si degnerà di qualche attenzione, semplici reliquie di uno stadio idiosincratico dello sviluppo organico.

Il ruolo della sessualità
Per preservare 1984 dagli effetti micidiali dell'anno 1984 e delle sue conseguenze possiamo cercare di andare oltre una interpretazione strettamente istituzionale della distopia orwelliana. Il recupero critico della storia (del passato prossimo del nostro secolo) è un atto morale e vitale di intelligenza e di resistenza. Il passato ci perseguita come cronaca dei comportamenti malevoli dell'umanità e delle sue sublimi realizzazioni sul piano culturale. Di fatto, il passato deve integrarsi con l'«adesso», con il «presente» altrimenti eterno, che minaccia di cancellare la storia, il contrasto e la continuità, come un «buco nero» sociale che lasci un nulla al posto di una sostanziale molteplicità.
Purtroppo, non c'è un ambito intellettuale convenzionalmente deputato a questo recupero. Le belle speranze che teorici del calibro di Adorno e Marcuse avevano riposto nell'università sono completamente sfumate. La formazione professionale ha scalzato la formazione culturale, così come la registrazione dei «fatti» sta sostituendo l'esperienza. Il compito di recuperare la memoria dell'umanità e di darle voce nell'autentico linguaggio del sapere è ormai delegato, temo, a forme marginali di interrelazione culturale: il piccolo gruppo di studio, le pubblicazioni periodiche dei movimenti radical e delle minoranze, i gruppi di affinità che operano sul piano teorico oltre che sul piano pratico, le «comunità di studiosi» alle quali Paul Goodman inneggiava qualche decennio fa, in un'epoca più felice e promettente della nostra.
Il nichilismo «punk», con il suo sfrenato culto dell'egoismo e della violenza, è soltanto l'altra faccia della «neolingua» ufficiale: e la conferma di una rivolta contro l'intelligenza, non soltanto contro le convenzioni e il conformismo sociale. In un'era che ad un estremo ha mutato in moda il «terrorismo culturale» e all'altro estremo è costretta nella camicia di forza del filisteismo morale, sono la cultura e la moralità a soffrire, alla fine dei conti. Il romanzo di Orwell è permeato dell'orrore per entrambi questi aspetti: per il nichilismo egocentrico e per la massa omogeneizzata, in mezzo alla quale è Winston Smith, l'«ultimo europeo». La maestria distopica di Orwell si rivela nella sua capacità di descrivere questi due tipi sociali con una efficacia anticipatrice tale per cui essi ci appaiono significativi ancora oggi, a quarant'anni dalla morte dell'autore.
L'errore di 1984 consistette semmai nell'attribuire alla sessualità pura e semplice la capacità di agire come antidoto redentivo all'autorità di una macchina sociale totalmente controllata. Julia, la partner sessuale di Winston Smith, è anch'essa una creatura della macchina, non meno di quanto lo siano O'Brien e il «Ministero della Verità». Winston Smith infatti non è soltanto l'«ultimo europeo» in 1984: è anche l'ultimo intellettuale, per il quale l'intellettualità è una necessità morale e la storia una coscienza durevole. Se si trascura il mito, ormai in declino, secondo il quale gli stimoli erotici sono in se stessi una contravvenzione all'irreggimentazione, Julia appare ignara e perciò irredimibile come le giovani «spie» che ogni tanto compaiono nel libro. Ciò che ella «consuma» non è la cultura sotterranea che il «Socing» ha celato all'Oceania, bensì le barriere, piuttosto insignificanti, poste a freno della sessualità.
Ciò che contravviene all'autorità è l'intellettualità di Winston Smith, la sua probità morale, il suo essere ossessionato dal «Libro», che fa addormentare Julia; il suo temerario tentativo di recuperare il passato; la sua volontà di aderire alla «Fratellanza» e di agire contro il «Socing», per quanto assurdamente Orwell tratti il tema della condizioni immorali di iniziazione postegli da O'Brien. L'esistenza stessa di Winston Smith lo tramuta in un «movimento», per reale o fittizia che sia la «Fratellanza». Winston Smith diviene perciò la coscienza del libro, non soltanto il suo protagonista. Il fatto che egli possa, alla fine, essere annientato da O'Brien dimostra soltanto l'impossibilità di perpetuare la personalità, l'affinità, il pensiero critico e l'azione in un mondo completamente totalitario, e riflette l'innato pessimismo e l'angoscia per l'umanità di Orwell.
Oltre all'alternativa morale che gli intellettuali e le persone culturalmente affini possono creare recuperando la memoria di una società sempre più astorica, c'è il problema di recuperare e radicalizzare la dimensione utopica delle istituzioni tradizionali di quella stessa società. In questa direzione, il libro di Orwell non offre granché. La supremazia delle istituzioni del «Socing» (dei suoi ministri, della polizia, delle spie, della propaganda, dei mezzi di controllo) riduce Winston Smith a una monade intellettuale e morale, che intrattiene relazioni e instaura legami soltanto a livello personale. La libertà del protagonista è confinata nell'alcova, in una squallida stanza, in una radura della foresta. L'immagine del «Socing» (come Orwell ce lo descrive) ha cancellato a tal punto ogni spazio libero, che riesce addirittura difficile comprendere la devianza di Winston Smith. Non esiste una dimensione pubblica nel senso classico del termine; esiste soltanto una dimensione di massa. Orwell non ci offre perciò alcuna giustificazione razionale per la consapevolezza, l'odio, le aspirazioni, e tanto meno l'opposizione. Winston Smith è una aberrazione annaspante e patetica, non il prodotto logico dell'oppressione.

Più che un recupero della memoria
La speranza che l'anno 1984 possa resistere al libro 1984 si fonda su un contrasto reale che oggi sta nascendo tra il passato e il presente: tra i sogni delle grandi rivoluzioni «borghesi», riassunti in slogan come «libertà e uguaglianza», e l'attuale esigenza di passività e di sopravvivenza. Il «1984», preannunciato da una società corporativa e cibernetica emergente, potrebbe essere soffocato dalla memoria «viva» delle sue stesse origini utopiche e dal «surplus» ideologico che nei secoli passati spinse gli americani e gli europei sulle barricate. In un'epoca in cui le barricate sono diventate più un simbolo che un baluardo, e in cui la bandiera rossa è macchiata più dal sangue dei suoi seguaci rivoluzionari che da quello dei suoi nemici reazionari, la fragile ma memorabile dimensione utopica delle rivoluzioni americana e francese (così chiaramente avvertibile, per ciò che concerne la Francia, in Kropotkin) è l'unico freno ideologico alla dissoluzione di questo secolo nel 1984 descritto da Orwell.
Che sia «libertà, uguaglianza e fraternità» oppure «vita, libertà e ricerca della felicità», ciò che rivendicavano le rivoluzioni del passato si mantiene ancora vivo nei cuori degli uomini e delle donne «qualsiasi», che la borghesia ha sempre trattato con cinismo. Tutti i radical antiautoritari devono assumersi anche in minima parte il compito di far emergere dall'angusta corazza della repubblica i contenuti democratici e libertari che quelle antiche rivendicazioni conservano, e di radicalizzare le istanze democratiche. In questo senso la mobilitazione della collettività sarebbe più che un recupero della memoria. Sarebbe l'incarnazione della memoria in istituzioni tradizionali a un livello locale originario; in documenti costitutivi che parlavano alla libertà umana, nonostante l'astrattezza del linguaggio; in una vasta coreografia di diritti e di libertà che la gente considera ancora vivi e tangibili, per quanto mitica sia la realtà quotidiana. Una memoria pubblica, intendo, che non si presti soltanto alla conservazione delle istituzioni libertarie esistenti o alle nuove istituzioni create dai movimenti popolari in ambito municipale.
Per il momento è ancora minima la necessità di recuperare la memoria - non solo ideologicamente, ma istituzionalmente - per una umanità che si batte contro l'annientamento ideologico. Quando questo annientamento si realizzerà, ogni tentativo di parlare della libertà (l'uso della terminologia appropriata, l'inquadramento del problema in termini concettuali) sarà reso impossibile dalla riduzione del vocabolario (...) fine a se stessa.
Il termine «clone» non è stato coniato da coloro che criticavano il mondo descritto da Orwell in 1984. E' stato inventato dai suoi architetti, cioè da uomini e donne che sono essi stessi creature della propria dedizione al miraggio della tecnologia biologica e della cibernetica. O'Brien, figura quanto meno enigmatica, mostra di possedere un grado di consapevolezza, di volontà e di cinismo che non appartiene né al libro 1984, né all'era 1984. Le creature che compaiono oggi e che affiorano come bolle anticipatrici dello stufato che Orwell ci cucinò quarant'anni fa, non hanno queste qualità. Non solo: esse costituiscono una élite emergente che non ha neppure il distacco di O'Brien dalle «sue» vittime. Ciò che le rende tanto più orribili delle élites del passato non è il fatto che siano alla guida di una macchina sociale particolarmente potente, quanto il fatto che siano integralmente e irrimediabilmente parte di essa.

(traduzione di Michele Buzzi)