Rivista Anarchica Online
La società della guerra
di Ugo Dessy
«La militarizzazione della Sardegna» è il titolo della relazione che Ugo Dessy ha preparato per il
convegno di studio organizzato dalla Federazione Anarchica Italiana sul tema «Industria bellica e
militarizzazione dello Stato» (Livorno, 11-12 febbraio 1984). Ne pubblichiamo qui la parte iniziale
e le «considerazioni sul militarismo» che chiudono la relazione. Per ragioni di spazio tralasciamo
la parte centrale della relazione, dedicata all'analisi specifica del militarismo in Sardegna e
soprattutto ad un elenco dettagliato ed aggiornato dell'occupazione del territorio sardo da parte di
basi, poligoni, depositi militari, postazioni missilistiche, ecc. Ugo Dessy (Terralba, 1926) ha sempre partecipato attivamente alle lotte sociali del popolo sardo,
tra le quali l'occupazione delle terre incolte e le lotte antifeudali dei pescatori e della popolazione
di Cabras. Negli anni '50 e '60 è stato tra i promotori dei primi centri laici e libertari in Sardegna,
muovendo dall'esperienza di educazione popolare fatta con i gruppi di Ignazio Silone
nell'Associazione italiana per la libertà della cultura. E' stato tra i relalori al 1° congresso
antimilitarista (Milano, 4 novembre 1969) promosso da radicali, anarchici, antimilitaristi,
nonviolenti. La sua relazione documentò per la prima volta il processo di militarizzazione del
territorio sardo: fu pubblicata da Umanità Nova, giornale con il quale Dessy collaborò per due
anni. A partire dalla fine degli anni '60, Dessy ha pubblicato numerosi volumi (L'invasione della
Sardegna; Stato di polizia, giustizia e repressione in Sardegna; Un'isola per i militari; Quali
banditi?; La Maddalena, morte atomica nel Mediterraneo; ecc. ecc.) ed ha collaborato a vari
periodici, tra i quali - a partire dall'80 - la nostra rivista. Nel momento in cui scriviamo queste note, Dessy si trova ricoverato a Verona per un delicato
intervento al cuore. Gli giungano così gli auguri fraterni della redazione di «A» e di quanti ne
apprezzano l'impegno sociale spesso parallelo al nostro.
Una analisi corretta sulla natura e sui fini del militarismo non si può fare senza una tensione ideale
che muove dall'amore e dal rispetto per la vita umana, non si può fare senza l'angosciosa
preoccupazione che la sopravvivenza dell'Umanità è legata a un filo che può essere spezzato da una
incognita. Molte e qualificate sono le voci di monito e di allarme che si sono levate per dire ai potenti della
terra di porre fine alla guerra una volta per tutte mettendo al bando gli armamenti. Come quella di
Albert Einstein: «O l'umanità distruggerà gli armamenti o gli armamenti distruggeranno l'umanità»
o di Bertrand Russell: «Nessuno dei mali che si vogliono evitare con la guerra è un male cosi
grande come la guerra stessa». Voci certamente importanti, ma insufficienti senza la voce dei
popoli che abbiano preso coscienza, che sappiano imporre la loro volontà di pace e di fratellanza. Mi sono reso conto che i valori più eccelsi dell'uomo - perfino la libertà e l'amore - non hanno
alcun significato se allo stesso uomo è negato il diritto di esistere. Se non si allontana prima lo
spettro dello sterminio nucleare dall'umanità, non si può fondare alcuna certezza, nulla è credibile.
Per questa ragione, da molti anni dedico la maggior parte del mio lavoro alla questione della
militarizzazione della mia terra e alla diffusione di tutti quegli elementi conoscitivi, utili - a mio
avviso - alla acquisizione di una coscienza civile che si traduca in una ferma opposizione alla
guerra, alle armi, alla violenza. La Sardegna si colloca insieme agli altri Paesi o regioni del mondo afflitti da un sottosviluppo che è
propriamente sfruttamento coloniale. Si colloca cioè sul piano e nella dimensione (culturale,
sociale e politica) dei Paesi del Terzo-mondo, e pertanto nella logica storica rivoluzionaria di un
movimento dei popoli oppressi da poteri egemonici, esterni o interni. Nella attuale fase di colonizzazione della Sardegna - che ha visto entrare nell'area del Mediterraneo
una nuova potenza, gli USA - sono tre le principali linee perseguite dal capitalismo: 1)
l'utilizzazione dell'Isola come area di basi e servizi militari; 2) come area di servizi petrolchimici,
nucleari e di impianti consimili, finanziati dallo stato, di alto costo e bassa occupazione,
ecologicamente inquinanti e culturalmente disgreganti; 3) come area di servizi di bassa forza e di
sperimentazione sul vivo di tecniche e strumenti oppressivi e repressivi, per la conservazione del
potere e il controllo totale dell'uomo. In questa terza linea rientrano numerose utilizzazioni tipiche
del vecchio colonialismo: la sperimentazione di sostanze tossiche; lo sfruttamento della forza-lavoro come manovalanza a basso costo nelle industrie estere e del Nord, e come bracciantato
ascaro da intruppare nei corpi militari e di polizia; l'utilizzazione di comunità storicamente
resistenti alla penetrazione coloniale, come le Barbagie, per sperimentarvi nuove tecniche
antiguerriglia con speciali corpi militari. Affiché queste principali linee del disegno di potere dell'imperialismo potessero perseguirsi senza
intralci, era necessario smantellare e liquidare, in tempi brevi, le strutture autonome del popolo
sardo: le sue istituzioni, la sua cultura, le sue tradizioni, la sua economia, la sua lingua - in una
parola la sua identità. Per comprendere fino a che punto sia arrivato tale disegno di dominio, è sufficiente vedere ciò che
resta della economia tradizionale dell'isola: la crisi, lo sfacelo dell'agricoltura, dell'allevamento,
della pesca; lo spopola mento, l'abbandono delle campagne; lo smantellamento delle industrie
estrattive; l'emigrazione di circa un terzo della popolazione che configura un vero e proprio esodo
coatto; la sistematica repressione poliziesca contro i pastori - fulcro della resistenza agli invasori di
sempre; ed è sufficiente vedere ciò che resta della cultura e delle tradizioni del popolo sardo: una
cultura dapprima razzisticamente «inferiorizzata», quindi «mummificata» e infine «mercificata» ad
uso del turista straniero. Va sottolineato che il determinarsi e il perpetuarsi di una situazione
coloniale, passa anche, evidentemente, attraverso l'oppressione culturale, con la eliminazione o la
riduzione delle capacità espressive di un popolo. Nell'attuazione di questo piano di colonizzazione, gioca un ruolo importante l'ormai consolidata
dipendenza storica, economica, politica e culturale della classe dirigente sarda, quella che
definiamo borghesia compradora o dipendente. Che ha mostrato e mostra i suoi interessi e le sue
vocazioni con pesanti connivenze con il potere dei colonizzatori. Grossolani sono stati inoltre gli
errori dei partiti della sinistra parlamentare, in particolare del PCI, che sosteneva un processo di
sviluppo nell'Isola mediante le industrie petrolchimiche - convinto che avrebbe così creato
nell'Isola una classe operaia aumentando il proprio peso politico nella regione. Nel secondo dopoguerra, come in altri Paesi coloniali o semi-coloniali, anche in Sardegna si sono
sviluppati movimenti di liberazione e di riscatto popolari. La nascita di un forte movimento
cooperativistico nell'area contadina, e più particolarmente il movimento per la occupazione delle
terre incolte, sono fenomeni rivoluzionari di rilievo in quel periodo. Ed è in risposta a questi
movimenti popolari di riscatto civile che viene programmato e imposto dai vertici del potere
capitalista un certo modello di sviluppo industriale per la Sardegna. E' infatti da molti studiosi
condivisa oggi la tesi che la scelta delle imprese impiantate nelle diverse aree dell'Isola, delle loro
caratteristiche e delle relative forme di insediamento, è stata fortemente se non del tutto
condizionata al conseguimento di obiettivi di ordine sociale, definiti preminenti sul piano politico.
Ne consegue allora che la storia dei programmi di impianto delle industrie petrolchimiche coincide
in gran parte se non in tutto con le vicende storiche, con le idee e con le lotte, che hanno
caratterizzato e caratterizzano la Sardegna, come popolo e come territorio, soggetta alla aggressione
coloniale. Gli economisti programmatori, fiancheggiatori del capitalismo colonialista, per giustificare l'attuale
situazione di crisi economica che travaglia l'Isola, sostengono la tesi che la scelta delle
petrolchimiche è stata «dolorosa ma necessaria per creare le condizioni indispensabili e preliminari
alla nascita di una industria di trasformazione». E' una teoria che può essere confutata in via teorica e pratica, e altri lo hanno già fatto. Qui basterà
dire che questa teoria ignora del tutto, nel momento che viene sostenuta ancora oggi, che la
creazione dell'industria di base come passo «doloroso ma necessario» per la verticalizzazione dei
processi produttivi, è una esperienza fatta in Sardegna da oltre quindici anni, senza che di fatto sia
seguita la nascita di industrie di trasformazione. Le petrolchimiche sono state da qualcuno definite «cattedrali nel deserto». Io aggiungo che sono
«cattedrali che hanno prodotto il deserto».
Per una Sardegna neutrale e disarmata L'utilizzazione militare della Sardegna da parte di potenze egemoniche è vecchia di secoli; ma
soltanto in tempi recenti, con l'evoluzione tecnologica degli armamenti, diventa un fatto storico di
grande rilievo. Con l'avvento del nucleare, la potenza distruttiva delle armi è tale da costituire di
per sé il problema più drammatico tra quanti l'umanità ne ebbe mai affrontato, perché è messa in
gioco, concretamente, la sua sopravvivenza. Inoltre, ancor prima del loro impiego nella guerra, gli
armamenti nucleari costituiscono già una aggressione contro l'intera umanità, a causa delle
contaminazioni radioattive che le sperimentazioni comportano. Infine, viene fatta una
considerazione di ordine politico-sociale: l'utilizzazione dell'energia nucleare comporta la nascita di
una tecnocrazia con un potere praticamente incontrollabile dal basso; dà luogo a un sistema con
particolari misure di sicurezza, quindi la militarizzazione del territorio e in definitiva il controllo
totale da parte del militarismo sulla società civile. La Sardegna, comunità storicamente non aggressiva, tecnologicamente a livello elementare e
autarchico, con strutture socio-economiche autoctone di tipo arcaico, è stata suo malgrado
coinvolta in una dinamica di confronto e di scontro tra due imperi di altissima tecnologia di tipo
aggressivo, con immense risorse e capacità produttive. Il popolo sardo è totalmente estraneo, per
cultura e vocazione, a un siffatto scontro, ma non sa estraniarsene come vorrebbe a causa della sua
immaturità e debolezza politica. Tuttavia, allo stato attuale della situazione internazionale delle
norme che ancora regolano i rapporti tra le nazioni, esistono concrete ipotesi per il riconoscimento
di una nazionalità sarda, raggiungibile per vie pacifiche, con la volontà unitaria del popolo, quando
ciò significherebbe contemporaneamente la nascita di un nuovo Paese mediterraneo decisamente
neutrale, unilateralmente disarmato, idealmente vicino ai popoli che si battono per l'indipendenza,
per la libertà, per la pace. Anche l'attuale dibattito e le iniziative per il riconoscimento, la conservazione e lo sviluppo
dell'identità culturale e linguistica dei Sardi, hanno un senso storico e politico, se si pongono come
fine ultimo la creazione non di un altro stato satellite, ma di un Paese nuovo e più avanzato sul
piano dei valori civili, con strutture smilitarizzate e disarmate, pacifico e difensore della pace. Con l'avvento dell'era tecnologica, la filosofia della violenza, del militarismo, della corsa agli
armamenti, porta ineluttabilmente alla guerra, allo sterminio dell'umanità, alla fine della vita sulla
terra. L'unica filosofia politica oggi vincente è quella della non-violenza, del disarmo totale, della
pace; è l'unica che possa garantire la sopravvivenza dell'umanità, del progresso e della civiltà. Tutto ciò significa anche dover prendere atto, preliminarmente, della complessa realtà militare in
cui la Sardegna è comunque immersa, conoscere la struttura della moderna macchina bellica e le
nuove strategie che la muovono, conoscere i disegni del militarismo nazionale e internazionale, e i
rapporti di interdipendenza tra potere militare e potere economico e politico, e gli stretti legami che
uniscono la scienza e la tecnologia con l'arte della guerra, conoscere infine le capacità distruttive
delle nuove armi e i loro costi e i pericoli mortali che costituiscono per l'uomo e per il suo ambiente
- sia come presenza «passiva», sia come presenza «attiva» - quando fossero usate. Se è vero che queste armi costituiscono un pericolo mortale già in atto per via della contaminazione
da esperimenti, e che in vista del loro uso costituiscono un pericolo per la sopravvivenza
dell'umanità, è anche vero che per alcuni paesi, come la Sardegna, più direttamente e pesantemente
coinvolti, si aggiungono i danni derivanti dalla presenza di basi nucleari: non soltanto per eventuali
incidenti o per la certezza d'essere i primi a subire un attacco atomico, offensivo o di ritorsione, ma
per le pesanti limitazioni che comportano allo sviluppo economico e sociale della comunità. (...)
Ma questa «pace» è una menzogna Per finire, vorrei fare alcuni considerazioni sul militarismo. Si sta diffondendo il principio secondo cui un conflitto tra due o più stati, con armi convenzionali e
geograficamente limitato, non è la guerra: riservando l'uso di questo termine a conflitti
generalizzati, come quelli del '14-'18 e del '39-'45. Da qui l'idea, che contagia un po' tutti - forse
anche sostenuta da inconscio desiderio - che dal 1945 il mondo sta vivendo un lungo periodo di
pace. E questa pace - sottolineano i governanti - la stiamo godendo grazie agli eserciti e alle armi,
che bisogna potenziare sempre più, giusto il principio di quei ladroni che furono gli antichi
Romani: «Si vis pacem para bellum». In verità, mai pace fu più armata e più guerreggiata di questa che stiamo vivendo. In 36 anni,
dal 1945 al 1981 - secondo le statistiche - si sono avuti nel mondo oltre duecento conflitti e
centocinquanta sanguinosi colpi di stato, per un totale di 25 milioni di morti e oltre 100 milioni di
feriti. E in questi ultimi due anni assistiamo a un rialzo delle attività belliche - dal conflitto anglo-argentino per le Falkland a quello tra iraniani e irakeni; dal Ciad al Libano, a El Salvador, al
Nicaragua, all'Afghanistan, fino allo sbarco dei marines USA a Grenada. Per non parlare di quel
sempre più diffuso fenomeno di criminalità politica, detto terrorismo, organizzato su schemi
militari, che svolge vere e proprie azioni di guerra. E qui, per inciso, va detto che a mio avviso la
diffusione del terrorismo non è da considerarsi semplicisticamente «rivolta delle classi oppresse»,
ma più precisamente atti di guerra non dichiarata tra potenze rivali, per destabilizzarsi l'un l'altra.
Insomma, un modo neppure tanto nuovo, di portare lo scompiglio in casa d'altri, quando non anche
in «casa propria», con il terrore delle stragi. Un così gran numero di conflitti, sia pure geograficamente limitati, ha comportato danni immensi
alla economia dei paesi belligeranti; e nel contempo ha portato ingenti profitti ai paesi produttori e
trafficanti di armi. Il commercio delle armi nel mondo è stato valutato nel 1980 intorno ai
centomila milioni di dollari all'anno. Stati Uniti e Unione Sovietica sono i maggiori produttori di
armi; essi hanno quindi tratto i maggiori profitti da queste guerre e da queste stragi - oltre ad avere
avuto l'opportunità di sperimentare «sul vivo» nuovi sistemi di armi e nuove strategie belliche. Dal
canto suo, l'Italia dell'inflazione e della disoccupazione risulta essere una delle nazioni
maggiormente impegnate nel traffico di armi: è al quinto posto nella graduatoria dei paesi
cosiddetti «civili». Quale pace, dunque, stiamo vivendo, sta vivendo il mondo, se ogni anno si producono e si vendono
e si usano ben l 00 mila milioni di dollari di armi? Produrre armi significa fare guerre, assassinare.
E' ovvio che una guerra non può farsi senza armi. E dunque, per raggiungere la pace è necessario
smantellare le industrie belliche, è necessario il disarmo. Questa è la prima considerazione che
emerge dal semplice buonsenso. L'esistenza di eserciti, di forze armate, di armamenti, di strategie belliche vengono giustificati dal
potere degli stati come necessari alla difesa territoriale delle nazioni, al mantenimento dell'ordine
interno, in definitiva per conservare la pace. Una pace armata e guerreggiata come quella attuale è
una falsa pace. Io credo in una pace senza armi, in una pace pacifica. Se vogliamo la pace
dobbiamo preparare la pace. Che cosa sono e a cosa servono gli eserciti? Quali sono i legami tra il militarismo e il potere? Partiamo da un primo dato di fatto. In tutti gli stati - qualunque sia l'ideologia cui dicono di
ispirarsi, fascista, democratica, marxista - lo sviluppo scientifico e tecnologico della società civile è
sempre dipendente da quello della organizzazione militare. I ritrovati della ricerca scientifica
trovano sempre un impiego privilegiato nell'arte della guerra. Per fare un esempio, lo sfruttamento
dell'energia nucleare ha trovato impiego prima nelle bombe di Hiroshima e Nagasaki, poi nella
propulsione di mezzi da guerra, e soltanto dopo come fonte energetica per uso civile. Voglio dire
che, in effetti, l'attuale modello di civiltà (nel senso di progresso civile) appare ed è la risultante
dello sviluppo, della organizzazione, della scienza, della tecnologia e della filosofia del
militarismo. Sarebbe utile, a mio avviso, fermare la nostra attenzione su questa ultima affermazione, per
renderci conto fino a che punto i principi e le norme che regolano la nostra vita sociale, perfino
quella affettiva, siano principi e norme ripresi o imposti dalla ideologia del militarismo.
L'assunzione dell'individuo in ruoli, la divisione di compiti in dirigenti ed esecutivi, la
gerarchizzazione e l'autoritarismo, le sanzioni disciplinari e le «promozioni sul campo» sono aspetti
di una sostanza militare presenti in tutte le istituzioni pubbliche e private: partito, sindacato, scuola,
famiglia, posto di lavoro o di ricreazione. Ci ritroviamo così, in ogni momento della nostra vita,
irreggimentati e intruppati, perennemente «sul piede di guerra», uomo contro uomo, sesso contro
sesso, giovani contro adulti, ceto contro ceto, comunità contro comunità. Questa è, comunque, una prima constatazione di fatto: che i principi e le norme della
organizzazione militare tendono sempre a imporsi su quelli della organizzazione civile. Ne
consegue, e possiamo facilmente constatarlo, che la cosiddetta crescita civile dei popoli è una falsa
crescita: una crescita basata sullo scontro, sulla violenza, sulla rapina: una crescita mostruosa che
allontana sempre più l'umanità dalla naturale e libera realizzazione di sé. Vediamo ora un secondo dato di fatto: in ogni stato, in ogni nazione, borghese, marxista o
scopertamente fascista, la funzione delle forze armate è sempre la stessa: una funzione duplice ma
unica nella sostanza. Primo: conservare e rafforzare il potere all'interno mediante istituzioni
coercitive e violente, leggi tribunali galere, per la repressione delle opposizioni popolari; secondo:
estendere il potere all'esterno, mediante ricatti economici, guerriglie e terrorismo, fino alle guerre e
alle occupazioni coloniali, per l'assoggettamento e lo sfruttamento di altri popoli. Queste due funzioni del militarismo, all'interno e all'esterno del proprio paese, si esplicano con gli
stessi mezzi e strumenti, diversamente dosati: la violenza delle armi e il ricatto economico; ma
perseguono gli stessi scopi: l'assoggetta mento e lo sfruttamento dell'uomo, la rapina e lo
sfruttamento del patrimonio naturale, il monopolio della scienza e della tecnica e lo sfruttamento
degli strumenti di produzione e dei mercati. Oggi come ieri, come sempre, tutti gli eserciti non hanno il compito di difendere integrità
territoriali, di difendere civiltà occidentali o orientali o di difendere valori democratici o socialisti:
queste sono panzane per tentare di giustificare le stragi, le carneficine, per convincere i popoli a
scannarsi tra loro. La verità è che tutti gli eserciti e tutte le istituzioni armate hanno lo scopo di
conservare sistemi di potere basati sul privilegio di pochi e sullo sfruttamento di molti. Hanno lo
scopo di reprimere le giuste lotte di liberazione degli oppressi; hanno lo scopo di assassinare i
popoli che non si sottomettono, che resistono. In qualunque latitudine si trovino, di qualunque colore politico si rivestano, i blocchi militari
perpetuano la logica della violenza per conservare sistemi oppressivi; e sono sempre una minaccia
per la pace, per la fratellanza, per la libertà, per il progresso dei popoli. Sempre e dovunque le forze
armate, eserciti e polizie, tendono ad affermare l'uso delle armi come mezzo di confronto politico,
economico, ideologico tra stato e stato, tra stato e cittadini. C'è ancora chi parla di eserciti «buoni»,
di eserciti «popolari», di eserciti «pacifici». La verità è che il concetto di guerra è e non può che
essere consustanziale, strutturalmente connesso a ogni istituzione armata, a ogni istituzione
creata e addestrata appunto per fare la guerra.
Non ci sono eserciti buoni Io credo che dobbiamo rifiutare come falsa e mistificatrice la distinzione che si tende a fare tra
eserciti «buoni» ed eserciti «cattivi», tra eserciti «democratici» ed eserciti «fascisti», tra eserciti
«borghesi» ed eserciti «popolari». Questa distinzione serve in fin dei conti come copertura alla
esistenza e alla legittimazione delle istituzioni armate - che in quanto tali sono sempre violente e
fasciste, anche in quei paesi che si dichiarano «democratici» o «socialisti», perché sono sempre a
guardia del privilegio dei padroni del potere, qualunque divisa indossino. Questa distinzione è una manovra della consorteria al potere per far credere al popolo che gli
eserciti si possono «democratizzare». Si vuol far credere che gli eserciti sono una «forza
stabilizzante», di dissuasione, e perciò sono necessari per garantire la pace, e quindi «sono buoni».
Si vuol far credere cioè che se le armi, le polizie, le galere, gli eserciti sono «democratici» (e
magari «sindacalizzati») allora il popolo li sente amici, fraternizza, e magari è anche felice di farsi
massacrare. Personalmente non arrivo a capire che cosa può mai voler significare la «democratizzazione» di
una istituzione di per sé violenta, una istituzione concepita, organizzata e addestrata per la
distruzione, per l'assassinio di massa. Forse che un esercito democratico massacra
democraticamente i popoli nemici, a differenza di un esercito fascista? Chi massacra più
democraticamente, il capitalismo USA o l'imperialismo sovietico? E che differenza può farci a noi,
a noi popolo, l'essere massacrati, in caso di guerra, da una atomica proletaria anziché da una
atomica borghese? Se siamo veramente uomini di pace - veri cristiani o veri socialisti o veri libertari - dobbiamo dire
no a tutti gli eserciti e a tutte le armi. Dobbiamo rifiutare ogni forma di violenza - e non tanto e
non soltanto condannare la violenza che viene dal basso, l'unica che abbia una sua legittimità
nel bisogno di liberazione, ma anche e soprattutto la violenza che viene dal potere, dagli
eserciti, dalle polizie, dalle galere, dalle leggi, dallo sfruttamento dei padroni. Esaminiamo brevemente un terzo dato di fatto: con lo sviluppo della scienza e della tecnica, e con
la sempre maggiore coscienza assunta dagli oppressi, il potere ha creato, per conservarsi ed
estendersi, eserciti sempre più efficienti e ha prodotto armamenti sempre più distruttivi. Questo
processo di ammodernamento delle forze armate comporta immense somme di denaro, immense
energie di lavoro umano sottratte ad usi di pace, di autentico progresso. Comporta per il popolo
immensi sacrifici, più sfruttamento e più fame. Certamente esiste un rapporto di causa ed effetto tra le ingenti spese militari e le crisi economiche
che travagliano le nazioni. Esiste un rapporto tra lo sperpero in armi e il sottosviluppo, la fame
diffusi in due terzi del mondo. Di questo gli economisti del potere non parlano. Ripetono la solfa
del deficit nella bilancia dei pagamenti con l'estero; dicono che noi importiamo più di quanto non
esportiamo; che consumiamo più di quanto produciamo; e concludono con i soliti ammonimenti al
cittadino che lavora: fare più sacrifici. Questi stessi economisti, facendo i conti in tasca al lavoratore, dimenticano del tutto di fare un
qualsiasi riferimento alle somme favolose che lo stato italiano - che, essi stessi dicono, «non ha
calzoni sotto il culo» - spende per le forze armate, spende per dotare l'esercito degli armamenti più
moderni e micidiali. Eppure, si sa, anche in fatto di armi, non siamo certo autosufficienti.
Dobbiamo continuamente «aggiornarci» importando armi dall'estero, dagli Stati Uniti perlopiù, che
appunto hanno costituito l'Alleanza anche per assicurarsi un mercato redditizio. L'acquisto di armi
per miliardi di dollari all'estero, non incide sulla bilancia dei pagamenti almeno quanto la bistecca? A questo punto, la gente non può non chiedersi perché mai lo stato italiano, per ridurre il deficit
della spesa pubblica, anziché aumentare le tasse e il costo della vita, anziché contrarre i salari e i
consumi popolari, non diminuisca invece le spese militari, non riduca le voci in bilancio e fuori
bilancio relative agli armamenti, che costano davvero un occhio della testa - e che diventano inutili
dopo qualche anno, superati da nuovi e più distruttivi ritrovati. Gli economisti del sistema fanno lo stesso discorso furbesco dei «signori della guerra»: danno per
scontato che le forze armate siano «un servizio pubblico» di prima necessità. Un servizio, cioè, di
cui fruirebbe il popolo. E in base al mercantile principio del «servizio pubblico sempre efficiente»,
le spese per le forze armate sono in continuo aumento; e chi paga, ovviamente, è il popolo che ne
fruisce. Tra parentesi. Definire le forze armate «servizio civile» sconfina nel grottesco. Considerato
che gli eserciti servono per fare la guerra, cioè per massacrare i popoli, mi sembra quanto meno
strano che siano gli stessi popoli a doversi pagare i boia e gli strumenti del proprio massacro - così
come si paga per l'assistenza sanitaria o per la pensione. E' allucinante pensare che lo stato ci fa
pagare il «diritto alla morte» molto più caro del «diritto alla vita»; se è vero, come è vero, che
spende miliardi in armi da guerra e non spende una lira per salvare le vite umane dalla fame e dalle
malattie.
Quanto costa la macchina della guerra Quanto spende il popolo italiano per mantenere in piedi sempre più efficiente la macchina bellica?
In Italia, dai 352 miliardi del 1950 si è passati ai 770 miliardi nel 1960; si è arrivati a 1.510 miliardi
nel 1970 e si sono toccati i 7.500 miliardi nel 1980. L'incidenza delle spese «ordinarie» per la
cosiddetta difesa è mediamente del 15 per cento delle spese pubbliche dello stato. Ma non è dato
sapere a quanto ammontano le spese «straordinarie» - bisogna sapere che il bilancio della difesa
gode di un particolarissimo privilegio, tra tutti i bilanci dello stato: può essere soggetto a variazioni
compensative anche dopo la sua approvazione, senza altri provvedimenti legislativi, semplicemente
con un decreto del ministro del tesoro su proposta del ministro della guerra ... pardon, della difesa. Quando si dice che gli eserciti, la loro esistenza e il loro mantenimento, sono la causa principale del
sottosviluppo e della fame nel mondo, si afferma una verità fondata su dati di fatto. Si prenda, ad
esempio, la spesa governativa degli Stati Uniti per la Ricerca e lo Sviluppo. In milioni di dollari, al
Dipartimento della difesa ne vanno ben 8.184; alla NASA, l'Ente spaziale di carattere
preminentemente bellico, vanno altri 4.495 milioni di dollari; mentre alla Salute, Educazione e
Benessere appena 1.239 e infine allo Sviluppo urbano e abitazioni soltanto 20. Questi dati sulla
spesa per la sola ricerca (che sono riferiti al 1970) seguono uguale indirizzo anno per anno - con le
debite proporzioni in crescendo - negli USA e nei paesi membri dell'Alleanza. E per analogia, nei
bilanci dell'Unione Sovietica e dei paesi del Patto di Varsavia. Questi dati dimostrano, più di ogni
altra tesi, le immense energie e ricchezze sottratte all'umanità, per gettarle sull'altare della potenza
militare. Il problema della fame nel mondo è principalmente una questione di scelte politiche: la spesa
globale per mantenere in piedi le forzer armate nel mondo è sufficiente ad alimentare una
popolazione terrestre tre volte superiore a quella attuale. Raoul Follerau, apostolo cristiano dell'antimilitarismo, ha scritto: «Con il prezzo di una bomba
d'aereo si possono offrire 18.000 giorni di vacanza ai bambini che hanno bisogno di sole; con il
prezzo di un carro armato si possono avere 84 trattori agricoli; con il prezzo di mantenimento di
una divisione motorizzata si possono nutrire 40.000 persone per un anno; con il prezzo di due
bombardieri si avrebbero medicinali necessari per curare tutti i lebbrosi del mondo: ecco il dramma
della nostra esistenza». Ai costi della macchina bellica propriamente detta, si aggiungono i costi degli impianti annessi e
connessi, e delle infrastrutture nel loro insieme composte da viabilità, servizi logistici, di
sorveglianza, di coordinamento, di controllo, di trasporto, di magazzinaggio, di acquartieramento,
di fornitura di energia, eccetera. Si pensi al costo di un silos sotterraneo per alloggiare un ICBM, ossia un missile intercontinentale,
della portata di un Atlas o di un Titan - i mastodonti a combustibile liquido che, per evitare di
essere colpiti da un attacco nemico, venivano protetti con spessori in cemento armato di ben 40
metri! Tutti miliardi andati in fumo. Ora questi missili hanno fatto il loro tempo, e sono stati
sostituiti con i Minuteman a propellente solido, più leggeri, ma di maggiore potenza. Gli USA,
secondo dati utliciali, possiedono almeno 1.000 Minuteman, ciascuno con testata nucleare fino a 2
megatoni, installati in basi sotterranee nel Montana. Ciascun silos di lancio è profondo 25 metri,
con un diametro interno di 3,70, a prova di bomba nucleare. La macchina bellica necessita inoltre di altre ingenti somme di denaro per mantenersi in esercizio
quotidianamente, per esercitarsi nella guerra simulata - oltre che per la manutenzione, la
riparazione e l'aggiornamento - ossia la sostituzione continua di armi superate con altre più efficaci.
Ogni volta che leggiamo sulla stampa di una esercitazione militare che si svolge nel CAUC di
Teulada o nel Salto di Quirra o in altre regioni del mondo appositamente desertificate, dobbiamo
pensare che si stanno letteralmente mandando in fumo miliardi e miliardi di lire in forza-lavoro, in
mezzi, in carburante, in armi, in esplosivi, in strutture che fungono da bersaglio, in patrimonio
naturale. E a noi, gente che lavoriamo per vivere, piange il cuore ogni volta che usciamo con la
nostra automobile, per quanto ci costa il carburante - e sono poche gocce, in confronto al fiume di
carburante che quotidianamente bruciano i mastodontici mezzi delle forze armate, girando per terra,
per mare, in cielo, soltanto per mantenersi in esercizio. Pensate che un cannone navale costa da 200
a 800 milioni - prezzo del '73 - in lire non svalutate. E un obice di cannone, per esempio dell'M109,
costa 90 milioni. E quanti 90 milioni di obici si mandano in aria durante le esercitazioni? Se andiamo a vedere i costi delle armi nucleari, ci troviamo con somme di migliaia di miliardi per
un solo missile intercontinentale, tipo vecchio Atlas o nuovo Minuteman - senza contare il costo
della carica nucleare che trasporta. Il costo dell'esplosivo nucleare era - a metà degli anni Sessanta - di 35.000 dollari per kilotone.
Come si sa il kilotone è l'unità di misura più bassa dell'esplosivo nucleare, pari a mille tonnellate di
tritolo. 35.000 dollari di allora sono oltre 500 milioni arrotondati di lire attuali. La «bombetta» di
Hiroshima era di 20 kilotoni. Attualmente ci sono bombe che arrivano a 10 megatoni, cioè 10.000
kilotoni. In soldoni, bombe da circa 3.500 milioni di dollari; in lire attuali oltre 5.000.000 di milioni
di lire. C'è da chiedersi che diavolo ci fanno i «signori della guerra», americani e russi, con bombe
da 10 megatoni, che hanno una potenza esplosiva pari a 25 milioni di tonnellate di tritolo ... Mania
di grandezza schizofrenica. Uno studio del 1961, di fonte occidentale, attribuisce agli USA una riserva di armi nucleari pari a
35 kilomegatoni; e all'Unione Sovietica almeno 20; per un totale mondiale di 55 kilomegatoni.
Tradotti in bombe, fanno 35.000 bombe da un megatone; tradotti in esplosivo tradizionale fanno 55
miliardi di tonnellate di tritolo - qualcuno si è preso la briga di calcolare che con tanto tritolo si
riempirebbe un terno merci lungo 15 volte la distanza tra la terra e la luna, andata e ritorno. Ma un
successivo studio del 1968, di fonte americana, sostiene che il totale della riserva atomica mondiale
ha già superato, a quella data, il milione di megatoni. Si avrebbero quindi ben 1.000 kilomegatoni
contro i 55 della precedente stima.
Anche i militari sanno «risparmiare» Una bomba da un megatone è più che sufficiente a distruggere una metropoli come Londra o New
York o Mosca. Come si sa, Hiroshima fu rasa al suolo con una bomba di appena 20 kilotoni - e il
kilotone è appena un millesimo del megatone. Più dettagliatamente, secondo gli allucinanti calcoli
degli esperti in guerra nucleare, una bomba da un megatone devasta una superficie terrestre di circa
70 chilometri; mentre gli effetti mortali immediati, per combustione di ogni creatura vivente, si
verificano in un 'area 9 volte maggiore; infine, gli effetti delle radiazioni si diffondono e persistono
in un'area ancora più vasta, non facilmente delimitabile per i diversi fattori metereologici che
possono influenzarla. Per avere un'idea più concreta della terrificante potenza distruttiva del
deterrente nucleare esistente nel mondo, valutato in 1.000 kilomegatoni (ossia un milione di
megatoni) si pensi che la quantità di esplosivo lanciata da tutti gli aerei in conflitto durante la
seconda carneficina mondiale, comprese le due bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, è pari ad
appena 2 megatoni. Il fatto che si mette in evidenza il dissennato sperpero di capitali e di energie, non vuole significare
che eserciti e armamenti siano da abolire perché troppo costosi. Io non ne voglio fare una semplice
questione di risparmio - come già fanno i politici fiancheggiatori del militarismo, quelli che gesuiticamente sostengono che gli eserciti (e quindi le guerre) sono un «male necessario». Di risparmio parlano anche i «signori della guerra». Quando per esempio i loro stati maggiori propongono l'utilizzazione di agenti biologici come armi
da guerra. Essi dicono - cifre alla mano - che per realizzare armi biologiche (virus, bacilli, proteine)
le spese sono molto inferiori a quelle per le armi nucleari, mentre i risultati (si intende di capacità di
sterminare) sono addirittura superiori. L'importante - essi specificano - è di essere preparati nel
settore immunologico, ossia nel campo dei vaccini, per evitare di lanciare un boomerang. Ancora
sulle armi biologiche (di cui quasi tutti gli stati sono forniti) si fa rilevare che la loro messa a punto
non necessita il possesso di sofisticate tecnologie: qualunque Paese appena «civile» può produrne
in laboratorio quante ne vuole. E vi sono strateghi che privilegiano l'uso di queste armi, perché
eliminano soltanto l'umanità «nemica», lasciando intatto il suo patrimonio civile, che potrà poi
essere rilevato e utilizzato dal vincitore. Insomma, si assicura che una guerra biologica non
creerebbe i problemi della ricostruzione postbellica - con grande risparmio di capitali. Non si pensi, dunque, che a modo suo anche il militarismo non sia sensibile alle virtù del risparmio:
non dimentichiamo che, più o meno riottoso, il militarismo è il cane da guardia del potere
economico. La scienza e la tecnica asservite al potere possono fare miracoli - o come si dice -
riescono a cavare sangue dalle rape. Volendo sanno anche fabbricare bombe nucleari a basso costo
- tecnologicamente scadenti ma ugualmente micidiali: che è poi quello che per essi conta. Ne è un
esempio la famigerata bomba al cobalto: la bomba a cui mirano le ambiziose potenze di mezza
tacca. David Inglis, uno scienziato atomico, dice che si può costruire con poca spesa una bomba
molto sporca, capace di distruggere per irradiamento un intero emisfero terrestre. «Il cobalto -
spiega Inglis - se reso radioattivo dai neutroni di una bomba H, si trasforma in una formidabile
emittente di raggi gamma: basterebbe quindi rivestire una grossa bomba H di questo materiale e
avremo la bomba al cobalto a dimensione e potenza praticamente illimitata». In altre parole: una
bomba con potenza esplosiva e distruttiva limitata, ma con capacità di sterminio per irradiazione
illimitata. C'è soltanto una cosa su cui il militarismo non si preoccupa di risparmiare: la vita umana. Noi
crediamo al contrario che la vita è l'unico patrimonio che vale la pena conservare e difendere.
Perciò, quando si parla del militarismo è necessario specificare che aldilà dei costi economici che
pure comportano all'umanità immensi sacrifici, ci sono ben più alti costi in vite umane nei
casi di conflitti armati. E bisogna essere dissennati per non capire che finché ci saranno armi
nucleari sarà possibile una guerra nucleare. Tivù, stampa, canali di informazione del sistema ci imbottiscono quotidianamente la testa di notizie
allarmanti di banditi e di terroristi, di covi, di esplosivi, di armi, di spaventosi delitti: un'orgia di
violenza che ci atterrisce. Ma non ci parlano mai della violenza e del terrore degli stati, delle loro
organizzazioni di guerra e di sterminio che sono gli eserciti, non ci parlano delle loro territìcanti
armi capaci di distruggere il mondo intero, non ci parlano di quegli assassini di massa che sono le
guerre. Invece la gente deve sapere. Abbiamo il diritto di essere informati, per capire e per giudicare. Sulle
armi nucleari, per esempio, c'è molta verità da conoscere. I membri della consorteria al potere
sostengono che è proprio la presenza di queste apocalittiche armi possedute dai due blocchi USA e
URSS che garantisce la pace. Una pace fondata cioè sul terrore reciproco, sulla consapevolezza che
dopo una guerra non ci sarebbero né vinti né vincitori per la estinzione del genere umano. Questa tesi che è molto diffusa, anche nella gente comune, è falsa in almeno due punti. Infatti,
questa tesi ha in sé implicita la ricerca continua da parte di ciascuna delle due superpotenze di
rompere l'equilibrio barando, per acquistare una supremazia di attacco tale da distruggere
totalmente l'avversario, senza consentirgli una completa o almeno ridotta capacità di ritorsione.
Infatti, in tutti questi anni di «falsa pace», la ricerca scientifica in USA e in URSS ha speso
immensi capitali ed energie nel tentativo di superare l'avversario; ciò è appunto la causa di una
escalation nucleare, quantitativa e qualitativa, che non può mai avere fine. E' chiaro che nel giorno
in cui una delle due superpotenze dovesse ritenersi sicura di essere la più forte, non esiterebbe ad
attaccare l'avversario per restare l'unico dominatore. E non è detto che tali calcoli potrebbero anche
risultare sbagliati. Secondo punto debole della tesi della pace fondata sul deterrente nucleare come dissuasione,
consiste nel presupporre che soltanto USA e URSS detengono il monopolio atomico. Attualmente
sono almeno dieci gli stati che possiedono armi nucleari e almeno altri dieci che sono in grado di
prodursele. La proliferazione delle armi nucleari comporta ovviamente molte maggiori probabilità
che quelle stesse armi vengano usate, sia volontariamente che per errore. E una volta scatenato, un
conflitto nucleare diverrebbe automaticamente generale - data la necessità di risposte di ritorsione
immediata, affidate ad automatismi. per poter distruggere prima di essere distrutti o meglio per
distruggere nello stesso momento in cui si viene distrutti. Oltre ciò - come ha puntualmente chiarito Carmelo Viola nel suo «No alle armi nucleari» - è falso
dire che le armi nucleari non uccidono se non vengono usate. In verità, le armi nucleari uccidono
ancora prima del loro uso in guerra. Perciò dobbiamo batterci non solo contro la guerra, ma anche
contro la stessa preparazione della guerra. Perché la preparazione della guerra comporta con gli
esperimenti l'inquinamento radioattivo - un inquinamento che equivale a una guerra mortale contro
tutta l'umanità. La diminuita resistenza dell'organismo umano alle infezioni virali; le malformazioni congenite in
pauroso aumento; la diffusione preoccupante di leucemie, cancri, tumori; gli squilibri climatici e
metereologici; gli squilibri biologici ed ecologici; questi ed altri fenomeni patologici sono da
attribuirsi al crescente tasso di inquinamento, in particolare quello radioattivo. Io credo che se questa civiltà, se questo progresso devono passare attraverso la degradazione
dell'uomo e del suo ambiente naturale, allora noi dobbiamo dire che questa civiltà e questo
progresso sono falsi e dannosi e dobbiamo rifiutarli e combatterli nella misura in cui ci
danneggiano. Più specificatamente, la fisica nucleare ci pone davanti al tragico dilemma da cui non si sfugge: o
fidarci ciecamente fino a lasciarci uccidere da essa; oppure rinunciarvi nella misura in cui diventa
mortale. Per questo io credo e dico che quando la scienza, come quella attuale, asservita al potere, perde la sua ragione di essere, che è quella di conservare e potenziare la vita, e diventa
fonte di distruzione e di morte, allora è una scienza da rifiutare, è una scienza da combattere.
Prendere coscienza e mobilitarsi Concludendo, non posso non accennare, sia pure brevemente, a una domanda che
sicuramente verrà posta in questo convegno: che cosa fare contro gli armamenti, contro la
guerra, per la pace nel mondo, per un mondo migliore? Io credo che in primo luogo la gente deve sapere. Conoscere per capire, prendere coscienza,
mobilitarsi, lottare. Dobbiamo mobilitarci tutti, uomini e donne, vecchi e bambini, a tutti i livelli,
in tutti i paesi del mondo, con tutti i mezzi. Il nostro diritto alla vita deve essere la ragione della
nostra unità e della nostra lotta. Nessuna diversità ideologica deve dividerci all'interno di una unica
ideologia: l'antimilitarismo. Noi popolo, noi umanità contro i signori della guerra e contro il potere
che essi sostengono. Il primo obiettivo di una lotta unitaria è il disarmo unilaterale; perché ciascun popolo deve iniziare
da sé, a disarmare, nel proprio territorio, senza alcuna condizione. Soltanto così si può giungere al
disarmo universale. Io non ho formule di lotta da indicare come risolutive; credo che quando il popolo raggiunge
coscienza e maturità sa egli trovare da sé la giusta forma di lotta per giungere alla propria
liberazione. Credo comunque che nessuna forma di lotta si possa aprioristicamente escludere,
quando il fine da raggiungere è quello di salvare l'umanità dalla distruzione. Personalmente, oggi come oggi, privilegio l'azione culturale a quella strettamente politica. Voglio
dire che ritengo che il metodo più efficace di lotta contro la violenza del potere, per la liberazione
dell'uomo, sia «culturale»: favorire cioè nell'uomo oppresso e sfruttato il processo di conoscenza e
di presa di coscienza della propria situazione, favorendo lo spirito associativo, il mutualismo, la
fratellanza, lo spirito critico. Se ci riconosciamo come oppressi, non siamo mai soli. Tanti sono gli uomini e le donne che credono nella pace e possono battersi con noi per un mondo
nuovo. Tutti i popoli del mondo vogliono la pace e sia pure in forme confuse si battono per la pace.
La verità è che questi popoli sono così oppressi, così affamati, così gravati dalle catene del bisogno
da non riuscire a informarsi o a organizzarsi o a levarsi in piedi e muoversi tutti insieme. Ma chi sa
e ha capito e ha forza di levarsi in piedi, si levi e si batta per l'unico scopo per cui vale la pena
battersi: la sopravvivenza della umanità.
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