Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 14 nr. 116
febbraio 1984


Rivista Anarchica Online

La nuova frontiera di Reagan
di Noam Chomsky

Nicaragua, Grenada, Libano: tre paesi nei quali le forze armate americane sono intervenute recentemente. Non sono casi isolati. Costituiscono solo la punta dell'iceberg dell'imperialismo americano, dell'interventismo (perlopiù ancora «mascherato») che caratterizza la politica estera dell'amministrazione Reagan.
Ma attenzione a puntare i riflettori sulla sola figura di Reagan. Dietro di lui (anzi, tramite lui) si muovono gli interessi di tutto un sistema politico-economico-militare che va ben oltre la singola personalità per coinvolgere l'intero sistema americano. E non bisogna scordarsi che anche sotto le precedenti amministrazioni non è che la politica estera degli USA fosse, nella sua essenza, tanto differente. E' quanto sottolinea Noam Chomsky, professore di linguistica al Massachussetts Institute of Technology (Boston), profondo conoscitore del sistema militare-industriale americano e suo grande nemico. Autore di numerosissimi saggi e libri (tra i quali l'ormai classico «I nuovi mandarini»), Chomsky è stato la figura di punta del grande movimento che si oppose all'intervento USA nel Vietnam ed ha continuato in questi anni a denunciare instancabilmente le trame imperialiste delle varie amministrazioni che si sono succedute alla Casa Bianca. Politicamente Chomsky è un esponente della sinistra radical-libertaria ed antiautoritaria («un compagno di strada degli anarchici» si è definito una volta).
A lui abbiamo chiesto un sintetico quadro della politica estera americana all'indomani dell'operazione Grenada.

Per capire la politica estera dell'amministrazione reaganiana bisogna partire dalla politica interna che ha due componenti principali: 1) il trasferimento delle risorse dai poveri ai ricchi per mezzo della riduzione dei programmi di assistenza, le misure, fiscali, ecc.; 2) un'imponente crescita dell'intervento dello stato nell'economia. Date le particolari strutture istituzionali degli Stati Uniti, lo stato non interviene nell'economia coordinando direttamente o per mezzo di una politica di pianificazione industriale, ma principalmente creando un mercato produttivo garantito dallo stato, un espediente che interferisce ben poco con le prerogative del capitale privato. Per ovvie
ragioni questo programma viene condotto attraverso il sistema militare, per mezzo del quale lo stato finanzia la ricerca, lo sviluppo e la produzione di tecnologie avanzate, i settori trainanti dell'industria americana.
Nell'ultimo periodo dell'amministrazione di Carter si avanzarono proposte di tagli ai programmi sociali e di aumento delle spese militari. Al contempo l'invasione russa in Afghanistan e la crisi degli ostaggi in Iran furono sfruttate per ottenere il sostegno della popolazione. Reagan ha ereditato ed esteso considerevolmente questi piani. E' uno schema classico.
Ci sono stati tre periodi nel dopoguerra di grande aumento della militarizzazione economica: il 1950, il 1960 ed il 1981. In nessun caso c'è stato un cambiamento rilevante nel clima internazionale, in tutti i casi c'era il problema di «far muovere ancora il paese», come avevano detto gli ideologi kennediani: le crisi internazionali sono state montate o sfruttate per giustificare il processo. In effetti la politica sia interna che estera di Reagan ricorda moltissimo quella di Kennedy.
Fino quando sarà la gente a pagare in questo modo i costi della «reindustrializzazione», si dovrà prima spaventarla per bene: per questo il fattore naturalmente concomitante a questi programmi interni è la ricerca del confronto con la superpotenza nemica. Ad una militarizzazione interna si associa così una politica estera più aggressiva: aumento delle contro-rivolte, sovversione, scontro duro e così via. E' un classico e non solo per gli Stati Uniti.
La prima crisi estera di Reagan è stata El-Salvador. Carter aveva considerato il problema locale: mettere in grado i gangsters messi al potere e sostenuti dagli Usa di terrorizzare la popolazione, con l'apparenza delle riforme, fino ad ottenerne la sottomissione. Reagan ha perseguito lo stesso programma aumentandone la retorica: il massacro dei contadini nel Salvador è ora la difesa degli Stati Uniti contro «l'impero del male» che cerca di conquistare il mondo. Mentre Carter aveva fatto qualche tentativo per aiutare gruppi di affaristi nella coalizione nicaraguegna, Reagan si è mosso subito contro il Nicaragua usando mercenari organizzati negli USA, la maggior parte dei quali proviene dalla guardia nazionale somozista. L'intento è ovviamente di costringere i sandinisti a misure più autoritarie, a chiedere l'aiuto dei russi e dei cubani, nel qual caso gli Stati Uniti potrebbero imporre un blocco o invadere direttamente il Nicaragua, forse realizzare perfino un confronto simile a quello della crisi dei missili di Cuba.
Intanto Reagan ha cercato i confronti con altre Russie «per procura». Sono circolate voci assurde su killer libici in giro per Washington per assassinare Reagan, su un progetto di invasione libico nel Sudan e via dicendo. Solo le abili e coraggiose misure militari statunitensi avrebbero permesso di evitare le catastrofi. Carter aveva cercato di minare il regime di Bishop a Grenada con pressioni economiche, Reagan si è mosso subito, nel 1981, per preparare l'invasione con esercitazioni militari su larga scala nei Caraibi, chiaramente dirette contro Grenada. Nel Medio Oriente Reagan ha sostenuto l'invasione israeliana da un capo all'altro del Libano, compresa Beirut Ovest. Dopodiché gli Stati Uniti hanno combinato un accordo di pace tra il Libano e Israele che il governo libanese, messo al potere dai cannoni israeliani, ha accettato con la costrizione e che lascia il Libano meridionale sotto il diretto controllo di Israele. Il negoziato esclude ovviamente la Siria e in realtà è stato progettato per garantire il rifiuto siriano, cosicché possa esserci un altro confronto con il «Grande Satana», per adottare un'efficace frase di Khomeim.
Se gli Stati Uniti fossero stati realmente interessati alla pace in Libano avrebbero chiesto ad Israele di ritirarsi incondizionatamente, come era stato chiesto dal Consiglio di sicurezza dell'ONU (con l'ipocrita consenso degli USA), e alla Siria di ritirarsi secondo il programma dell'estate 1982: una possibilità abortita con l'invasione israeliana e che potrebbe essere stato uno dei fattori presi in esame nel calcolo del periodo dell'invasione. Gli Stati Uniti avrebbero potuto inoltre portare la Russia ai negoziati, come aveva richiesto il governo filo-americano di Gemayel. Molto probabilmente avrebbero potuto avere successo, ma gli USA hanno preferito i vantaggi dello scontro duro con i russi e i loro «amici», mentre si prepara il campo alla spartizione della maggior parte del Libano tra Israele e Siria e, con tutta probabilità, ad un nuovo conflitto.
Il colpo di stato e il massacro a Grenada hanno fornito il pretesto per l'invasione progettata da molto tempo, ancora una volta a difesa contro il «Grande Satana». E' stato inoltre un tributo notevole al potere dei sistemi di propaganda di stato odierni, perché tutti hanno discusso seriamente e perfino creduto alla «minaccia» per gli Stati Uniti dell'emergente «superpotenza» di Grenada. Infatti la liberazione è stata accolta generalmente con entusiasmo negli USA: giova ricordare che Hitler fu il più popolare leader nella storia tedesca fino quando ottenne vittorie a poco prezzo.
Il problema più grosso che si pone a qualsiasi leadership americana è superare quella che viene chiamata la «sindrome vietnamita»: una malattia pericolosa che ha afflitto la maggior parte della popolazione americana nell'ultimo periodo della guerra del Vietnam che ha come sintomi il disgusto per i massacri e le aggressioni, la simpatia per la popolazione che soffre o che viene brutalizzata. Sono state tentate diverse cure, con vario successo. Il ritorno alla militarizzazione interna e alla politica estera di aggressione e sovversione di stampo kennediano è la dimostrazione che lo stato è riuscito a ridurre gli ostacoli posti dalla popolazione al raggiungi mento delle sue funzioni essenziali. Eppure la battaglia non è ancora vinta.
Oggi c'è più opposizione interna a questo tipo di politica di quanta ce ne fosse vent'anni fa e inoltre, mentre le superpotenze hanno aumentato in assoluto la loro forza, ambedue hanno perso in parte la loro capacità di coercizione e controllo. Esistono altri fattori, come lo sviluppo della tecnologia distruttiva ormai vicina al punto oltre il quale il confronto può diventare un disastro totale in ogni caso. Ci vuole una buona dose di ottimismo per supporre che la patologia della civiltà moderna possa essere arrestata prima del termine dell'esperimento umano.

(traduzione di Maria Teresa Romiti)