Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 13 nr. 113
ottobre 1983


Rivista Anarchica Online

Quando Borghi era sindacalista
di Maurizio Antonioli

Parlare dell'anarcosindacalismo di Borghi rende necessarie alcune precisazioni preliminari sul termine stesso di «anarcosindacalismo», un termine che si è quasi sempre mosso sul filo dell'ambiguità. Usato a volte, in sede storiografica (Arfé, Procacci, Are, ad esempio), come sinonimo di sindacalismo rivoluzionario, altre volte, nella polemica politica degli anni Dieci e Venti (dai socialisti della II Internazionale a Lenin, a Trockij), come dispregiativo per indicare forme politiche dai tratti spontaneistici o accentuatamente «operaisi»), si è, in più di una occasione, dimostrato refrattario ad ogni definizione.
Ancora oggi, nonostante il notevole progresso degli studi in tema di sindacalismo e anarchismo, si può notare una generale indecisione nell'adozione consapevole del termine, una incapacità a riempirlo di significato storico. O all'opposto un'eccessiva disinvoltura nell'assumerlo come etichetta di corrente.
In realtà queste difficoltà poggiano su di una lunga tradizione di imprecisioni, di ripensamenti, di continue correzioni di rotta. Se, infatti, da parte di alcuni si è ritenuto opportuno indicare con anarcosindacalismo la «preistoria» del sindacalismo rivoluzionario francese, la fase di gestazione identificabile con le figure di Pelloutier e di Pouget (i primi anarchici ad imboccare con decisione la via dell'organizzazione di mestiere), un profondo conoscitore degli ambienti sindacalisti come il Dolléans scriveva: «Emile Pouget è stato uno dei primi, anzi il primo anarchico-sindacalista, espressione che sembra inesatta, giacché il sindacalismo rivoluzionario implica una rottura tanto con l'anarchismo che col socialismo» [Storia del movimento operaio, Firenze 1968, vol. 2, p. 101].
Anche Jacques Juillard, autore di una importante biografia di Pelloutier, ha preferito adottare il termine di «syndicalisme d'action directe» per definire la linea adottata dal segretario della Féderation des Bourses du Travail, ritenendo inadeguato il termine sindacalismo rivoluzionario, come probabilmente quello di anarcosindacalismo.
Come tentare di definire, allora, l'anarcosindacalismo? Va subito detto che l'espressione in questione non viene quasi mai usata prima della I guerra mondiale, e se talvolta si parla di anarchici sindacalisti non si parla mai di anarcosindacalismo inteso come corrente interna o variante dell'anarchismo. Il termine insomma non esiste, in senso programmatico, nel vocabolario politico dell'epoca. Tra le poche eccezioni, il gruppo di Odessa guidato da Novomirskij che si definisce anarcosindacalista già nel 1907-1908 proprio per distinguersi dai sindacalisti rivoluzionari sul modello francese. In Francia e nella Svizzera romanda per un certo periodo di tempo si diffuse la dizione «anarchisme ouvrier», in qualche modo affine a quella di anarcosindacalismo, che ha tuttavia scarsa fortuna e non esce dalle frontiere linguistiche francesi.
Ma per tornare ad un tentativo di definizione, mi sembra che ci si possa rifare a quanto scrisse Amédée Dunois, nella sua relazione sull'organizzazione anarchica presentata al congresso di Amsterdam (1907). Dunois, infatti, proponeva una distinzione tra sindacalisti puri e anarchici-sindacalisti: i primi erano «ostili - o per lo meno indifferenti - ad ogni organizzazione fondata sull'identità di aspirazioni, di sentimenti e di principii», i secondi «assegnavano volentieri al movimento operaio il primo posto nel campo dell'azione», ma non rifiutavano «un movimento specificamente anarchico», con «un'azione propria da esercitare direttamente», anzi ne ricercavano «il sostegno» [Dibattito sul sindacalismo, a cura di M. Antonioli, Firenze 1979, p. 93 ss.].
I nodi centrali quindi sembravano essere quelli dell'organizzazione politica e degli stessi riferimenti ideali. Per i sindacalisti l'unica organizzazione possibile e valida era il raggruppamento di interessi di classe, cioè l'organismo di mestiere, e lo stesso orizzonte ideale doveva risolversi all'interno di questo. Per gli anarchici-sindacalisti il sindacato non esauriva tutte le possibilità di intervento né poteva farsi carico delle prospettive di emancipazione integrale che costituivano il nucleo stesso dell'anarchismo. Per i sindacalisti rivoluzionari il sindacato era il «mezzo» e «il fine» stesso della rivoluzione [vd. ad esempio l'articolo di J. Guillaume, Intorno alla vecchia Internazionale, in «Volontà», 14 marzo 1914], mentre per gli anarchici-sindacalisti il «fine» non poteva essere che il comunismo anarchico, indipendentemente dall'articolazione su cui si sarebbe fondata la società futura.
Certo, simili distinzioni finivano con lo stemperarsi nell'azione quotidiana, e così si spiega la mancanza di un serio dibattito su questi problemi. Sindacalisti e anarchici confluivano nelle stesse organizzazioni, lottavano fianco a fianco, mettevano tra parentesi le differenze ideali per ritrovarsi sul terreno comune dell'azione diretta. Ma è significativo il fatto che la classificazione politica non cessasse per questo. Per limitarci ad un esempio italiano, tra i quadri dirigenti dell'Unione Sindacale Meschi, Nencini, Sassi, Sacconi, ecc. erano e si dichiaravano anarchici, De Ambris, Corridoni, Masotti ed altri, invece, sindacalisti rivoluzionari, senza possibilità di equivoci.
Ma di fronte a questa suddivisione, in che posizione collocare Borghi? Borghi fu senza dubbio un anarchico, un anarcosindacalista se si vuole, anche se per un certo periodo di tempo si trovò molto vicino alle posizioni dei sindacalisti, di Alceste De Ambris, di Guillaume e del Monatte degli anni Dieci. Nel 1908 Borghi non era molto lontano dalla visione malatestiana, anche se dimostrava una maggiore fiducia nel ruolo e nelle possibilità del sindacalismo. «Il sindacalismo - scriveva - certo non è l'anarchismo né ha dell'anarchismo tutta la virtù logica e le sufficienze filosofiche; ma [ ... ] però esso si è assimilato tutti i conati positivi formulati da lungo tempo dall'anarchismo non individualista formando di essi conati il caposaldo maestro del proprio metodo di lotta operaia» [Anarchismo e sindacalismo, in «L'alleanza Libertaria», l maggio 1908]. Borghi, insomma, sembrava condividere le idee di Fabbri, Ceccarelli ed altri che vedevano nel sindacalismo «il metodo anarchico della lotta applicato al movimento operaio ed economico», e quindi un semplice, seppur fondamentale, mezzo d'azione.
Negli anni successivi tuttavia la concezione di Borghi mutò sensibilmente, sia a causa dei suoi più intensi rapporti con i sindacalisti emiliani sia soprattutto per l'influenza che l'ambiente parigino - Borghi riparò a Parigi per sfuggire ad una condanna - esercitò su di lui. «Parigi mi ha reso ouvrieriste più di quello che non fossi», scriveva a Fabbri nel dicembre del 1912 [«Il Pensiero», dicembre 1912, numero speciale su Kropotkin]. E questo ouvrierisme si traduceva nella convinzione che l'organizzazione politica fosse superflua. «Quando si sia convinti dell'inutilità [del partito] allora c'è il terreno del sindacalismo puro ... su cui si realizza veramente l'entente proletaria basata sull'omogeneità di intenti e in cui si osserva il vecchio milite dell'Internazionale, James Guillaume, si ripetono le tendenze della vecchia Internazionale con tutto ciò che di buono vi era nel marxismo e nel bakunismo [sic] insieme» [«L'Internazionale», 3 agosto 1912].
Convinto che il partito o il gruppo politico, e il discorso valeva anche per gli anarchici, si riducesse ad una «chiesuola di interessi parziali» o ad «un limitato ambiente di pensatori e di idealisti», Borghi ne patrocinava, seppur indirettamente, l'eliminazione. «Il sindacalismo [ ... ] smenti[va] la leggenda del partito fornitore di ideali e di corazze per il proletariato» [Ancora del Congresso di Reggio Emilia, in «L'Internazionale», 10 agosto 1912].
Parole di questo genere erano il sintomo di una precisa scelta di campo che sembrava porre Borghi al di qua di quella linea ideale che separava il sindacalismo dall'anarchismo. Proprio in quegli anni, negli ambienti anarchici e sindacalisti di lingua francese, la polemica sui gruppi d'affinità, sull'organizzazione specifica, si era fatta intensa. Mentre il nucleo legato alla rivista «La Vie Ouvrière», Monatte e Rosmer in particolare, con l'autorevole appoggio di Guillaume, aveva dissolto il precedente anarchismo nel sindacalismo puro visto come erede diretto dell'esperienza della Prima Internazionale, i collaboratori de «Les Temps Nouveaux» (Jean Grave, Marc Pierrot) e de «Le réveil socialiste-anarchiste» (Bertoni, Wintsch) rivendicavano con toni aspri l'insostituibilità di organismi fondati sull'«ideale» [vd. in proposito il mio lavoro Bakunin tra sindacalismo rivoluzionario e anarchismo, in Bakunin cent'anni dopo, Antistato, Milano 1977, pp. 64-115].
L'adesione borghiana alla linea di Monatte (Borghi si definì «monattiano» nel suo opuscolo su Pelloutier) e di Guillaume sembrava porlo tra i sindacalisti puri. E' però interessante vedere come, per gli anarchici, egli rimanesse anarchico. Libero Merlino polemizzò con lui per il suo esclusivismo sindacalista, trattandolo tuttavia da «compagno»: «veggo come purtroppo parecchi compagni (come p. es. Borghi) si sono buttati a capofitto nel movimento sindacalista; fino al punto di negare ai compagni, che lo richiedevano di una conferenza di propaganda anarchica, la sua opera - non intendendo egli (così mi fu riferito) d'ora innanzi prestarsi che solo per i movimenti operai» [Esperimento sindacalista, in «Volontà», 22 giugno 1913]. E Borghi, rispondendogli, non rifiutava certo la qualifica di anarchico, ma si limitava a dire, piuttosto elusivamente: «Sono nel movimento sindacalista operaio e vi resto senza rappresentarvi né gli anarchici né il partito anarchico, ma portandovi una mentalità che è tutto merito dell'anarchismo di avermi creato» [Per lo sciopero di Milano, in «Volontà», 29 giugno 1913].
L'impressione che se ne trae è che Borghi si trovasse in una fase di evoluzione simile a quella attraversata da Monatte e Dunois nel 1907-08, ancora legati al mondo ideale dell'anarchismo, ma sempre più convinti che le aspirazioni libertarie trovassero uno sbocco concreto solo nell'ambito sindacale. Anche il linguaggio borghiano («Se gli anarchici amassero - come il Merlino - starsene sulle nuvole degli alti ideali sarebbe tanto peggio per loro») pareva ricalcare le espressioni usate da Dunois nella sua polemica con Malatesta, dopo il congresso di Amsterdam.

In dissenso con Malatesta
Lo stesso Malatesta, dopo il suo ritorno in Italia nell'estate del 1913, si trovò, ripetutamente, in dissenso con Borghi, per la fiducia che questi dimostrava nell'«automatismo degli interessi guidati dall'istinto», cioè nel fatto che il contrasto di classe sul terreno economico (la lotta tra salariati e padroni) creasse, automaticamente, la coscienza di classe e il bisogno di rivoluzione. Per Malatesta, infatti, anche nel movimento operaio «Noi dobbiamo, sempre e dovunque, restare soprattutto anarchici», cioè portare con forza la propria visione ideale, superare il puro conflitto di interessi destinato a rimanere nell'ambito dell'area riformista [Sul sindacalismo, in «Volontà», 20 luglio 1913]. Ma per Malatesta, come per Merlino, Borghi era e rimaneva un anarchico e Borghi, nelle sue repliche, pur non nascondendo «una diversa maniera e un diverso grado di apprezzamento dei nuclei d'idee» [Polemica sindacalista, in «Volontà», 21 febbraio 1914], tendeva piuttosto alla conciliazione e a riallacciare le proprie posizioni allo spirito di Bakunin. «Io sento di essere a questo proposito più vicino al Bakunismo; tanto quanto sembra che tu tenda a distanziarlo», replicava a Malatesta.
Anche in questo Borghi accoglieva in pieno la lezione di Guillaume, che proprio allora andava sostenendo che i sindacalisti rivoluzionari erano gli autentici eredi di Bakunin e la CGT francese e l'USI le vere continuatrici dell'Internazionale antiautoritaria.
«L'empietà operaista» - sono parole dello stesso Borghi - andò tuttavia attenuandosi dopo la «Settimana rossa» e soprattutto dopo i primi sintomi di revirement da parte di De Ambris, che in seguito alle giornate di giugno buttava acqua sul suo precedente antistatalismo, manifestando contemporaneamente una sottile sfiducia nell'autosufficienza politica dei sindacati. In realtà Borghi non prese una aperta posizione. Soltanto dopo la scelta interventista del gruppo parmense-milanese dell'USI (De Ambris, Corridoni, Masotti) e le loro conseguenti dimissioni dal comitato centrale dell'Unione Sindacale, le sue critiche divennero pubbliche. «Io [ ... ] non aveva mai in pubblico presa la parola contro gli allora dirigenti dell'USI [ ... ] Il popolarismo [ ... ] finiva per dare l'assalto al sindaçalismo». Tuttavia, chiariva, esistevano profondi dissensi nel campo sindacalista, in particolare dopo le elezioni amministrative del '14, che avevano visto i parmensi fare blocco con repubblicani e massoni [Commemorando una commemorazione mancata, in «Guerra di classe», 28 settembre 1915].
La guerra riaccendeva in Borghi le sue qualità di anarchico, pur non attenuando la sua attività a favore dell'Unione Sindacale, di cui continuò ad essere segretario anche durante l'internamento all'Impruneta. Ma lo sgretolarsi dell'organizzazione sotto i colpi della repressione e soprattutto il fallimento degli strumenti sindacali di fronte al conflitto, lo avevano portato a rivalutare la dimensione dell'ideale e quindi anche la funzione dei gruppi che si proponevano di propagarlo e difenderlo. Il sindacalismo non aveva salvato l'internazionalismo ed erano soprattutto gli anarchici (se si escludeva la minoranza della CGT legata a Monatte e a Rosmer) a tenere alta la bandiera.
Nel dopoguerra l'atteggiamento di Borghi risultava profondamente cambiato, era molto vicino alla posizione di Malatesta, anche se egli continuava a svolgere la sua attività di segretario dell'USI. Partecipando al II congresso dell'Unione Anarchica Italiana (1-4 luglio 1920) si esprimeva in tal senso: «Gli organizzatori anarchici che sono nell'U.S.I. dovunque parlano, parlano innanzitutto come anarchici non nascondendo mai la loro qualità politica». Non solo: distingueva anche nettamente l'anarchismo dal sindacalismo, spiegando perché, per una somma di circostanze, «gli anarchici aderenti al movimento sindacale dell'azione diretta furono improvvisamente chiamati sindacalisti», ma dimenticando il suo non trascurabile contributo nell'alimentare una tale confusione.
Insomma, negli anni Venti, nel periodo precedente la marcia su Roma, Borghi era ormai definitivamente ritornato alle sue concezioni del 1908, quelle di un anarchismo impegnato nel movimento operaio e sindacale, ma senza possibili identificazioni con il sindacalismo rivoluzionario, se non sul piano del metodo della lotta di classe.
E vorrei concludere proponendo un brano di una conferenza tenuta da Borghi nel 1922 [Anarchismo e sindacalismo. Conferenza tenuta il 3 aprile 1922 a Roma dal Fascio sindacale di azione diretta (resoconto storiografico), S.P.E.R., Roma s.d.].
«Prendete un pezzo di carta, la sua superficie intera è l'anarchismo; tagliatene un pezzo circolare nel suo mezzo, e questa parte di carta corrisponde alle ideologie del sindacalismo. [ ... ] Presentate questo pezzo di carta nella sua forma intiera: ed immaginate che tutta la circonferenza contenga la dottrina che nega Dio, la religione, l'autorità, la proprietà privata, lo Stato, il parlamentarismo. Ebbene prendete l'altro pezzo di carta già staccato, misuratelo entro quello più grande e vedrete che risultano eguali; infatti sono precisi, identici. Che cosa significa tutto ciò? Significa che il sindacalismo è tutto nell'anarchismo; fa parte del blocco di ideologie che l'anarchismo ha in sé».