Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 13 nr. 113
ottobre 1983


Rivista Anarchica Online

Sull'orlo del burrone
di Maria Teresa Romiti

Si può finire sull'orlo di un burrone senza accorgersene. Si può camminare sull'orlo di un precipizio per bravata o incoscienza o solo per desiderio, conscio o inconscio, di morire. E si può cadere.
Oggi la terra è sull'orlo di un burrone. In fondo c'è la distruzione della nostra civiltà e forse la morte stessa del pianeta.
Viviamo continuamente con lo spettro di una guerra mondiale. Un rischio sempre più presente, legato ormai non tanto a strategie ben programmate di conquista del mondo, ma molto più semplicemente, a reazioni automatiche poco controllabili. I sistemi militari sono molto sofisticati, tendono a diventare sempre più automatici e, paradossalmente, aumentano le possibilità di errore.
Dal gennaio 1979 al giugno 1980, secondo il New York Times, abbiamo rischiato 151 volte l'inizio di una guerra per falsi allarmi del grande computer della difesa americana. Errori del sistema computerizzato, immissione nel computer di un nastro di aggressione simulata, usato per le esercitazioni, semplici disturbi atmosferici. E anche se non abbiamo dati, non è difficile ipotizzare un numero simile di incidenti anche per i sistemi sovietici. Inoltre bisogna tenere presente il fattore umano: le decisioni vanno prese in poco tempo, alcuni minuti. Lo stress è elevato tanto che tra gli addetti al sistema difensivo americano c'è un'alta percentuale di disturbi mentali, abuso di droghe e alcoolismo. La sopravvivenza della terra dipende da un computer sballato e da un addetto ubriaco!
L'esempio eclatante del pericolo l'abbiamo avuto il 1 settembre scorso. Un jumbo coreano viola lo spazio aereo sovietico, la risposta classica è la distruzione: 260 persone morte. Non è la prima volta che succede. Già alcuni anni fa i russi avevano costretto all'atterraggio un jumbo. Nel 1973 ci avevano pensato gli israeliani a distruggere un aereo, ma questa volta la tensione è particolarmente alta. Per alcune ore, mentre il mondo ignaro continua le occupazioni di sempre, un gruppo di uomini decide le sorti di tutta l'umanità, decide della vita o della morte di miliardi di persone.
Il risveglio è violento, angoscioso, potevamo morire. Fiumi di inchiostro vengono versati per esacrare il gesto o per cercare di analizzarlo. Si sprecano indignazione e retorica.
Perché l'aereo di linea è entrato nello spazio aereo sovietico? Guasto alle apparecchiature come sostiene il pilota della tappa precedente? Errore del pilota? Deviazione di rotta deliberata per spiare come sostengono i russi e anche Paul Rogers, docente della «School for Peace Studies» dell'Università di Bradford in Inghilterra? Perché i giapponesi hanno seguito per due ore le comunicazioni tra piloti e basi russe senza pensare di intervenire? Paura che i russi scoprissero che i loro codici non erano più segreti o perché le conversazioni captate erano troppo importanti per interromperle? Come mai un aereo spia americano viaggiava, nelle stesse ore, nella stessa zona? Usava l'aereo di linea come copertura? Perché i russi hanno abbattuto l'aereo? Non conveniva loro in ogni caso farlo atterrare? Un incidente sfuggito di mano? Oppure dall'aereo si sono viste cose che non si dovevano vedere? Possibile che nessuno si sia accorto della deviazione di rotta dell'aereo e non abbia cercato di avvertire il pilota?
Domande senza risposta. Si possono fare ipotesi ardite, ma non si puo' dimostrare nulla. Forse la realtà è più semplice e più agghiacciante. L'incidente è stato proprio un incidente. Il risultato della spirale paranoica che avvolge i rapporti est-ovest. Le domande sono inutili, tentano di dare una spiegazione razionale ad un episodio che si trova al di fuori di ogni logica, nello spazio delle paure e delle angosce.
Spie e controspie. Satelliti sempre più sofisticati, controllo continuo della controparte. La tela del terrore avvolge tutto e tutti. Ogni aereo è un nemico. Ogni punto sul radar un attentato alla sicurezza dello stato. Bisogna difendersi. Può capitare di sbagliare, qualche morto in più, qualche mea culpa e poi si può ricominciare. Ma fino a quando? Se c'è una logica in tutto questo è solo la logica della paranoia, della schizofrenia. E' l'immagine di una società malata, una società che corre verso la morte.
Circondati da satelliti supersofisticati, in grado di fotografare anche i particolari, siamo sorvegliati speciali, ventiquattro ore su ventiquattro. Ascoltati, controllati, schedati. Dati su dati vengono mangiati da enormi macchine e ributtati fuori analizzati, diversificati, rapportati. Presto alzeremo gli occhi al cielo non per ammirare la trapunta delle stelle, ma per aspettare la morte. La prossima guerra si combatterà anche nello spazio.
Le armi utilizzabili aumentano di giorno in giorno: chimiche, biologiche, genetiche, meteorologiche, psichiche. Una proliferazione di incubi che rischiano di non farci svegliare mai più.
Gli altri, i cattivi, vogliono solo distruggerci, non sono umani, sono belve assetate di sangue. Bisogna stare attenti, essere pronti a difendersi. E' questo clima che può spiegare le reazioni dei giorni seguenti: la rabbia americana, il desiderio di farla pagare, l'uso smodato della retorica, le coperture e le ambiguità, e dall'altra parte la convinzione dei russi di essere vittime di un complotto, di essere stati attaccati, di essere circondati da nemici.
E le vittime? Sono entrate nel computo. Del resto oggi le guerre si calcolano al computer e il computer mangia numeri: la vita umana diventa un numero nemmeno troppo grande perché è materiale presente in abbondanza sulla terra. Così gli americani possono affermare di non avere la parità con i russi perché in caso di conflitto potrebbero sì distruggere le più grandi città sovietiche, ma non riuscirebbero ad eliminare anche tutte le fabbriche (che nel conto valgono di più delle persone) e le installazioni militari (che valgono più di tutto). Insomma si può distruggere la terra e nello stesso tempo perdere la guerra.
E il pilota russo, intervistato alla televisione, ha potuto affermare con tutta tranquillità di non aver provato particolari emozioni: era solo concentrato per non sbagliare. Si era preparato tutta la vita per quel momento.
A questo punto non so veramente cosa si possa dire. Mi sembra che qualsiasi commento sia inutile. La separazione è abissale. Il tecnico esegue il suo compito, precisamente, attentamente, senza farsi domande, i sentimenti li lascia a casa insieme alla moglie e ai figli. E poco importa che sia americano, russo, cinese, o di qualsiasi altro paese: s'assomigliano tutti, fatti con lo stampo. Loro spingono solo bottoni, non uccidono persone. Cosa si può fare per tornare indietro, per smetterla di giocare sull'orlo del burrone? E poi è possibile fare qualcosa?
No, grido dentro di me. Non si può fare niente. E non perché sia troppo complicato o perché ormai non ci sia più nulla da fare. Molto più semplicemente perché non importa nulla a nessuno. Tutti continuano tranquillamente la vita di tutti i giorni, mangiano, parlano, si divertono. Non c'è stato un grido di protesta, una rabbia sentita, contro questa spirale.
Qualcuno che abbia detto: «Basta! Io voglio vivere, vivere senza paura».
Niente di niente. Tutti rassegnati, tutti convinti che non si può fare nulla e allora tanto vale divertirsi. Senza pensare che dietro le armi ci sono gli uomini: quelli che schiacciano i bottoni, quelli che hanno progettato le macchine, quelli che le costruiscono, quelli che le hanno pagate, quelli che hanno taciuto, quelli che non hanno protestato, quelli che hanno detto sì.